facciamo la festa alla musica

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Se avete contatti musicisti sui socialcosi avrete notato il flashmob digitale delle ultime ore in cui i vostri beniamini posano con un cartello davanti in cui dichiarano di praticare il mestiere di musicista e che sarebbe anche il momento di prendersi cura di loro. Una presa di posizione in vista del prossimo 21 giugno, la festa della musica che, in questa fase di post-pandemia in cui i lavoratori dello spettacolo sono alla fame, ha anche la valenza di manifestarsi solidali con tutto l’indotto della cultura che, in tempi di crisi e di tagli, è la prima a pagarne le conseguenze.

Lavorare con la musica, per i non addetti ai lavori, suona un po’ come un ossimoro. Il fatto è che si tratta di un settore che ha una dimensione in più rispetto ai mestieri più tradizionali. Il processo che prelude ai mestieri tradizionali prevede le seguenti fasi: ti qualifichi per un mestiere seguendo un percorso di studi ad hoc in cui, in condizioni normali, più ti impegni e maggiori sono le possibilità, oppure segui una sorta di tirocinio per specializzarti in quello che vuoi fare o, in casi eccezionali ma non è detto che non funzioni, ti formi come autodidatta e, con un po’ di fortuna, trovi qualcuno che crede in te e ti dà un impiego.

Tutto questo al netto del mercato del lavoro, chiaro. Non è detto che ci sia posto per tutti e non ci sono lauree o menti brillanti che tengano. Facciamo finta che il tasso di disoccupazione sia irrisorio e il gioco è fatto. Di professioni che rientrano in questa casistica ce ne sono un botto, anzi, direi la maggior parte. In questo mercato del lavoro che, per comodità, possiamo chiamare normale, fa la differenza la richiesta di figure. Dal tornitore al neurochirurgo ci sono serie possibilità di trovare un posto, a meno che tu non sia scarso o poco idoneo al lavoro in questione.

Poi è chiaro che – per fare qualche esempio – se lo stato non investe nella sanità pubblica, oppure ai privati non interessa il turismo, o la società reputa sconveniente ammazzarsi di fatica a coltivare la terra, ne deriverà una borsa dei lavori con minori o maggiori possibilità. Ma la sostanza non cambia: sono mediamente bravo a fare una qualsiasi cosa che rientra nei bisogni normali della gente = vado a svolgere la professione per la quale mi candido o, nel peggiore degli scenari, ripiego su altre previste dal palinsesto dell’economia. 

Fare il musicista, oltre alla preparazione e all’attitudine, dipende da un’ulteriore dimensione che è il fattore di apprezzamento del pubblico. Probabilmente esiste un livello di profitto del musicista proveniente dai guadagni del suo lavoro che gli garantisce la sussistenza derivante da quello che fa. I guadagni del lavoro del musicista derivano dal successo, che si traduce i vendite di dischi, clic sulle piattaforme di distribuzione a pagamento, vendite di biglietti dei concerti, diritti derivanti dalla riproduzione delle canzoni e cose così.

Il suddetto livello di profitto oltre il quale un musicista riesce a camparci dipende, dicevo, da quanto piace al pubblico. Se non supera questo livello può definirsi ancora un musicista di professione? Per farmi capire, a me piace scrivere su questo blog ma in vent’anni non ci ho mai cavato un euro. Non mi verrà mai in mente di definirmi un blogger di professione. Ora, la domanda che l’opinione pubblica che non è musicista si pone è proprio questa: come fai a definirti musicista di professione?

Ci sono poi svariate sfumature che comprendono, per esempio, l’insegnante di musica, che però rientra nelle professioni tradizionali come l’insegnante di qualunque cosa. Occorre quindi capire se sia lecito auto-definirsi musicista e rivendicare i propri diritti di beneficiari di investimenti pubblici o privati per tirare a campare in un momento come una fase di post-pandemia, dove le priorità immancabilmente riconducono l’arte non istituzionalizzata e fai da te agli ultimi gradini delle categorie da tutelare.

Quindi, in definitiva, se Tizio Caio cantante dei Sempronio prima del Covid-19 non se lo inculava nessuno o, a essere più ottimisti, era un artista della nicchia che svolgeva mille lavoretti di risulta per mettere insieme lo stipendio che il fatto di non essere musicista di successo non glielo garantiva e ora posa sui social per sostenere la sua causa, è giusto che un eventuale movimento a tutela degli artisti che rischiano la bancarotta lo includa sotto la sua ala protettiva? E quindi, ancora, l’auto-determinazione della professione fa di un individuo un professionista o occorre, comunque, un nucleo di comprovati riscontri oggettivi? E, infine, quali devono essere questi comprovati riscontri oggettivi? Chi decide che Tizio Caio abbia davvero i requisiti o che invece, non avendoli, cerchi di accaparrarsi, oltre a un eventuale bonus, un po’ di notorietà?

Nel mio piccolo, il mio contributo alla musica cerco di darlo ogni mese, acquistando qualche 33 giri in vinile. Non più di tre o quattro, che già così siamo a 100 euri. Ma sono sicuro che, se costassero di meno, ne comprerei uno al giorno.

scivola scivola scivola scivola scivola scivola scivola scivola

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Mentre lo spot che usa come jingle il ritornello di “Stella stai” di Umberto Tozzi imperversa nelle case degli italiani costretti in casa dalla paura della fase tre, non riesce difficile ricordare quanta musica di merda sia stata prodotta negli anni settanta e negli anni ottanta, e per smentire quelli che la menano sulle canzoni di una volta versus la trap che ascoltano i ragazzini del duemila e venti possiamo mettere insieme una compilation di Spotify con certe canzoni italiane partorite negli anni di piombo, e zittire finalmente anche le personalità più presuntuose. Diciamo che la musica di merda è vecchia quanto l’uomo, e se oggi chiudiamo un occhio su scivola scivola scivola scivola scivola scivola scivola scivola scivola è perché, quando imperversava nel juke-box, noi facevamo le medie e “Stella stai” o “Ti amo” o anche “Tu sei l’unica donna per me” di Alan Sorrenti ci riportano alla nostra gioventù dorata. Questo non è un atto d’accusa, tutt’altro. A me capita spesso di passarmi in rassegna le hit parade dal 1976 al 1983 e ripercorrere, canzone per canzone, le irripetibili sensazioni provate allora. Trascorro ore con le cuffie collegate al PC a cercare su Youtube tutte le posizioni dalla uno alla cinquanta, indistintamente, perché tra le righe di versi a dir poco demenziali rivivo le estati nella casa in campagna, le vacanze al mare, le prime cotte da ragazzino, la bicicletta da cross, il mondo che c’era allora e che non c’è più e altre amene esperienze che purtroppo non ritorneranno ed è per questo che è importante, ogni tanto, ripercorrerle almeno dei ricordi. Memori di tutto ciò è bene comportarsi in modo più indulgente verso i nostri figli, quando li sorprendiamo in cameretta con lo smartphone acceso su Ghali o i mixtape di Machete. Ogni generazione ha la sua musica di merda. Noi cinquantenni impariamo a badare alla nostra.

copriti

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Quando lavoravo in ufficio stavo spesso con le cuffie. Principalmente perché ascoltavo molta musica, durante il lavoro. Dischi interi dalla prima all’ultima traccia. Poi il disco finiva e mi dimenticavo di avere la cuffia sulle orecchie. Mi sentivo protetto, altro che schermi in plexiglas, e poi impedivo che i colleghi si rivolgessero a me e, quando succedeva, facevo finta di non aver sentito per via del volume, nella speranza che desistessero dalla conversazione. Con le cuffie e gli occhiali da computer mi sentivo un palombaro dentro a uno scafandro, un esploratore negli abissi della creatività, a cercare parole e frasi che funzionassero per il progetto di copy a cui mi stavo dedicando. Provo la stessa sensazione, oggi, con la mascherina. Quando esco la indosso sempre, anche se sono da solo, anche se vado in macchina. Ho letto che non fa bene respirare la propria anidride carbonica, ma solo dietro la protezione imposta dalle autorità mi sento davvero al sicuro. Le regole mi piacciono. C’è una canzone che dice che “le regole disturbano/le regole ti salvano”. Quando indosso la mascherina mi sento anche più attraente e, soprattutto, posso parlare da solo come mi pare e piace tanto nessuno se ne accorge. Non mi dispiace portare la mascherina, tanto che succede che non mi accorgo di averla addosso. Se esco e me ne sono dimenticato, quando arrivo al cancello del condominio provo la stessa sensazione di quei sogni assurdi che facciamo tutti, quelli in cui ci troviamo nudi in pubblico e non sappiamo come comportarci. Torno a casa e prendo la mascherina. Solo così mi sento completo.

odio le statue

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La notizia è che Bruno Martino si risentì per una facile ma sagace intuizione di Lelio Luttazzi, il quale interpretò una parodia del suo celebre tormentone sulla bella stagione dal titolo “Odio le statue” e che diceva

“Le statue
che sono solo amate dai piccioni
io gli darei l’assalto coi picconi
per farle in mille pezzi o forse più.
Odio le statue.”

tanto che l’autore ne cambiò il titolo nel più laconico “Estate” e basta.

Peccato, perché l’unico vero standard jazz italiano presente nel Real Book avrebbe potuto aspirare a inno del movimento iconoclasta del momento, quello che vorrebbe spodestare dai loro basamenti le vestigia – di marmo o che altro – di alcune personalità dal passato oscuro e indegne di un posto d’onore in piazze e parchi pubblici.

Le statue, per contro, hanno designato come logo della loro campagna di difesa L.O.V.E, la celebre scultura comunemente nota come “Il Dito” dell’artista Maurizio Cattelan, ubicata al centro di piazza degli Affari a Milano e, a prova del vilipendio subito da alcuni esponenti della loro specie, hanno diffuso immagini relative alla mutilazione a cui fu sottoposta tal Nike di Samotracia, un sopruso a riparazione del quale il genere umano ha offerto alla vittima un posto d’onore al Louvre.

Ogni idealista che si rispetti ha le sue statue invise da buttare giù e le effigie a cui impartire una damnatio memoriae. Pensate a “Goodbye Lenin” e alla celebre scena della rimozione del monumento allo statista sovietico, per non parlare dei faccioni dei dittatori nordafricani e arabi abbattuti come ultimo sfregio al crollo del regime che incarnavano.

E poi, a ben vedere, chiunque è colonizzatore di qualcuno, quindi ci sta che ci siano correnti di pensiero che vorrebbero far piazza pulita degli eroi dal retrogusto equivoco. Se non ricordo male c’era persino qualcuno nella Lega che ce l’aveva su con le statue di Garibaldi, reo di aver unito il meridione al nord.

L’architettura è un altro paio di maniche, nel senso che per quanto possa avere in odio il mascellone giustamente capovolto, il razionalismo del ventennio non me lo dovete toccare. Al massimo diamo qualche scalpellata sulle aquile e sui fasci littori, per quello non c’è problema. E, a proposito di nazifascisti, sulla statua e sul parco di Montanelli mi trovate d’accordo con quello che ha sostenuto che, al di là dell’antiberlusconismo degli ultimi anni, raccontare del suo passato durante l’occupazione italiana in Etiopia potrebbe mandare in confusione più di un millenial.

una foto che spacca

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Noi docenti tuttofare oltre a insegnare, produrre tonnellate di relazioni di fine anno, allestire e gestire piattaforme digitali per la didattica a distanza da soli per tutto il comprensivo infanzia – primaria – secondaria in cui insegniamo, fornire help desk informatico 24x7x366 (viviamo in un anno bisestile) a colleghi che sbagliano, gestire il sito della scuola, aiutare la segreteria con svariati interventi sul registro elettronico, supportare la dirigente in millemila modi, siamo anche creativi e, nei tempi morti, ricopriamo anche il ruolo di grafici.

Quest’anno il Covid-19 ci ha anche tolto la gioia della foto di classe, una cosa a cui non rinuncerei mai per nulla al mondo. E pensare che ci sono persino genitori che invece sono contrari a queste iniziative piccolo-borghesi. Io nelle foto mi metterei sempre in prima fila, insieme ai bambini più bassi, quelli che i fotografi posizionano seduti davanti tanto se li metti in piedi non si nota la differenza. Il giorno prima della foto vado a tagliarmi i capelli e poi mi presento a scuola con la camicia. Quando il fotografo ci dice di stare fermi sorrido così tanto che mi si apre la faccia in due.

Quando è stato il momento della foto di classe e quando è risultato chiaro che quest’anno sarebbe saltata, famiglie e bambini sono andati nel panico e hanno chiesto aiuto. Ho cercato in rete qualche escamotage ma non ho trovato granché. Cercavo un modo simpatico per impaginare i ritratti dei bambini che mi sarei fatto inviare ma non volevo rischiare l’effetto calendario o, peggio, quello delle figurine. Anche se, lo ammetto, l’idea di far indossare ai bambini una maglietta sportiva e poi ricreare una pagina di un album vintage dei calciatori delle edizioni Panini l’ho tenuta in considerazione.

Quindi sono andato sul mio sito di fiducia per la ricerca di immagini vettoriali e ho trovato uno scuolabus. Ho pensato subito al concept: dopo mesi chiusi in casa è l’ora di partire tutti insieme per una gita! Anche perché, come la foto, anche l’uscita didattica è stata rimandata al prossimo anno. Ho chiesto ai genitori le foto dei figli dando precise istruzioni sul modo in cui riprenderli. Naturalmente in pochi hanno letto accuratamente le indicazioni, ma questo lo davo per scontato, comunque ci ho provato.

Ho ricavato un autobus a più piani dall’immagine di partenza e poi ho posizionato bambini e insegnanti al finestrino con Photoshop. Quindi ho mandato il tutto a Snapfish che, per meno di un euro a copia, mi ha restituito ventinove foto 30×20 stampate su carta lucida. Nel frattempo, la collega di arte aveva chiesto ai bambini (e ai genitori) di preparare la cartelletta per contenerle, quelle che i fotografi specializzati nelle foto di classe ti danno insieme alla stampa. Ognuno si è dotato di un cartoncino A3 – piegato in due A4 – sulla cui copertina ha disegnato il tema scelto. Abbiamo chiesto quindi di tagliare di un cm in larghezza la foto (altrimenti sarebbe risultata troppo larga) e alla fine tutto è riuscito perfettamente. Qui sotto vedete com’è venuto il fotomontaggio, ovviamente con foto finte. Speriamo che, il prossimo anno, non ce ne sia bisogno.

la nostra relazione oramai non ha più senso

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Per chiudere l’anno scolastico mi è stato chiesto di scrivere diverse relazioni. Una di team a più mani con le colleghe della mia classe e, tenendo conto che insegno in due prime, c’è voluto un po’ di impegno. Poi ho prodotto una relazione individuale per entrambe le classi in cui scendere nel dettaglio del contesto, delle materie, dei programmi, dei pro e dei contro della didattica a distanza. Devo fare anche una relazione in quanto responsabile del laboratorio di informatica, anche se non ci metto piede dalla fine febbraio, inutile che vi spieghi il perché. A me piace la reportistica, la trovo la migliore formula per la tracciabilità delle filiere produttive. Nella scuola, però, la burocrazia lascia il tempo che trova. Non esiste un sistema di controllo oggettivo dell’operato del docente, potete immaginare quindi, in quelle tonnellate di file di testo che milioni di insegnanti stanno caricando sulle piattaforme in tutta Italia in questi giorni, quanta immaginazione ci sia. Per non parlare della forma. Mi sono stati sottoposti dei modelli inqualificabili, per di più in font raccapriccianti. Così ho deciso di dedicarmici con lo stesso approccio con cui scrivo qui. Fuori dagli schemi, senza le dichiarazioni standard che mi hanno fornito i colleghi con più esperienza, è stato coinvolgente metterci del mio. Alla fine sono venute così bene che mi verrebbe voglia di pubblicarle qui. Vera letteratura da collegio docenti che non leggerà mai nessuno.

Muzz – Muzz

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A ridosso del ventennale di “Turn On The Bright Lights” prende il via il nuovo progetto parallelo di Paul Banks, un disco in cui riesce difficile far finta che dentro non ci sia la voce del cantante degli Interpol.

Un bel referendum per abrogare la legge sul divorzio nella musica vedrebbe il mio sì convinto. Non avrei dubbi: che bisogno c’è di cercare nuovi stimoli altrove quando basterebbe impegnarsi un po’ di più con le persone con cui ti sei promesso melodie eterne? E poi, ai fan, non ci pensa nessuno?

Noi democristiani del rock siamo sempre lì a drammatizzare e, appena uno come Paul Banks decide di prendersi una boccata d’aria, addirittura con un ex compagno delle superiori, diamo a musicisti del calibro di Josh Kaufman degli sfasciafamiglie. Completa il threesome alla batteria Matt Barrick, un altro con un rapporto in stand-by alle spalle, quello con i The Walkmen. Il tutto a poco più di 24 mesi dai primi vent’anni di connubio, l’esordio sulla lunga durata dell’ex quartetto newyorkese, l’intramontabile “Turn On The Bright Lights”, l’archetipo della new new-wave.

Ma non c’è cattivo gusto nei Muzz, semmai un nome un po’ così, che a noi non anglofoni sembra molto meno altisonante di Interpol. Lasciamo allora che questa pausa dalle cose importanti abbia la risonanza che merita. D’altronde succede a tutti i cantanti, quando invecchiano, di sentirsi in dovere di tirare il freno a mano e dimostrare al mondo che sono in grado di essere delle persone affidabili e rassicuranti. Le regole sono sempre le stesse: staccare il distorsore, mettersi comodi, imbracciare strumenti acustici. Ed è quello che succede anche nei dodici brani che compongono questo primo album dei Muzz, una dozzina di ballad che ti immagineresti a suonare e cantare per far addormentare un neonato alla sera, dopo una giornata di lavoro, ma che ti fanno crollare prima di lui.

Scherzo, eh. Il disco è un bel disco, ed è una convinzione che matura brano dopo brano. Malgrado il titolo, “Bad Feeling” è la prima traccia e ti fa sentire bene. Con “Red Western Sky” il campo si apre su un panorama visto dal finestrino in un viaggio coast to coast, complici gli arrangiamenti di tromba e trombone che si distendono come nei brani dei The National in cui, dal vivo, sostituiscono gli archi – difficili da gestire sul palco – con i più maneggevoli e trasportabili ottoni.

La stessa sensazione si ha con “Patchouli” ma a fari spenti, davanti a un fuoco, con intorno la prateria, prima di infilarsi nel sacco a pelo. “Everything Like It Use To Be” e “Broken Tambourine” danno la conferma che il baricentro dell’ispirazione è ben distante da ciò a cui siamo abituati ad associare la voce di Banks che, nel suo passato solista, non aveva mai così spudoratamente abbandonato la causa per darsi all’americana.

“Knuckleduster” mantiene la matrice acustica del disco ma aggiunge una tacca di cattiveria al mood. Un brano in cui si coglie qualche reminiscenza di quando i The Walkmen facevano da colonna sonora a The O.C. E su “Chubby Checker”, forse il pezzo più bello dell’album, si potrebbe persino ballare un po’. Bello il tappeto d’organo sotto, vero? C’è persino spazio per un po’ di bossa con “How Many Days” ma poi, intravista la destinazione finale, il disco rallenta bruscamente nelle ultime tre tracce, per fermarsi definitivamente al capolinea con l’ultima, “Trinidad”.

“Muzz” è un album nell’insieme piuttosto interessante, una meritata scappatella compositiva per un artista che dimostra di avere ancora molto da dire e da suonare. Il problema è insito nella maledizione/benedizione dell’avere un timbro unico e riconoscibile come il suo. Il rischio è che un supergruppo come i “Muzz”, ascoltati a occhi chiusi e senza sapere niente, sia scambiato per gli Interpol che fanno alt-country, e allora vale tutto. Ci sarà prima o poi una versione reggae degli Interpol, o una versione Gipsy Kings, perché no. Dipende tutto da quello che vorrà fare Paul Banks in futuro.

niente da insegnare

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Il mio consiglio è di non seguire gruppi Facebook che raccolgono insegnanti. Continuate a godervi la scuola dalla platea e risparmiatevi il dietro le quinte. Per fortuna le comunità professionali interessano solo gli addetti ai lavori. Non mi verrebbe mai in mente di iscrivermi a una pagina in cui gli amministratori di condominio si scambiano i segreti del mestiere, fermo restando che non mi viene in mente niente di meno appassionante di una riunione con le altre famiglie che abitano il mio palazzo. Ieri sera si sono incontrati tutti nello spazio comune per prendere decisioni importanti di cui dovrei interessarmi, prima o poi, solo che poi li sento gridare sino dal secondo piano e mi chiedo perché mai dovrei unirmi a loro. Se vi iscrivete, invece, a un gruppo Facebook di insegnanti potreste temere per il futuro dei vostri figli che vanno a scuola. Il fatto è che gli insegnanti su Facebook scrivono da cani. Mi chiedo come sia possibile che un docente laureato possa scrivere così da cani. Anch’io sono un insegnante e scrivo da cani ma vi assicuro che lo faccio apposta perché sull’Internet un po’ indie dei blog è importante scrivere così. Vi assicuro che nelle comunità professionali dedicate alla scuola mi impegno a formulare domande e a fornire risposte nel più corretto dei modi. Vorrei entrare a gamba tesa, in uno di questi gruppi, e chiedere ai moderatori di pubblicare un bel cartello in alto per avvisare gli iscritti che devono impegnarsi quando scrivono, quando postano, quando rispondono. Anche se sono due righe. Anche se sono due parole. Altrimenti, che figura ci facciamo?

il gruppo del sabato

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La lezione del sabato pomeriggio la aspetto tutta la settimana. Il gruppo coinvolto è composto da quattro bambine della classe fuori del comune e davvero simpatiche. Non che gli altri siano da meno, per carità. Il fatto è che se, anche se facciamo matematica, il sabato pomeriggio – subito dopo pranzo – siamo tutti molto più rilassati e studiare è davvero un gioco. La didattica a distanza, soprattutto per la scuola primaria, ha reso inadeguati tutti gli standard in termini di fasce orarie e giorni feriali/festivi in cui organizzare le lezioni, come del resto è accaduto per tutte le altre attività della vita quotidiana e dell’economia ai tempi del coronavirus. Con i bambini più piccoli, non indipendenti nell’utilizzo della tecnologia, c’è bisogno della disponibilità dei genitori. E se i genitori lavorano, gli insegnanti si devono adattare. A me non pesa per nulla, tanto sono comunque a casa. Anche quello dell’insegnante, di questi tempi, è un remote working/smart working a tutti gli effetti, in cui si lavora per obiettivi. Ai più rigidi paladini del cartellino timbrato, posso dire che l’ora non prevista del sabato pomeriggio posso recuperarla senza problemi in un giorno qualsiasi. Comunque con il gruppo del sabato è come chiudere il pranzo con i pasticcini. Sono quattro bambine sempre sorridenti e, per questo, non perdo l’occasione di far leva sul loro buonumore per sfidarle a fare insieme attività più complesse del previsto. Erano così anche in classe ed è bello che la distanza non abbia per nulla cambiato il loro approccio. Quando si collegano dico sempre “benvenute ragazze” malgrado i loro sette anni di età ma percepisco il loro entusiasmo nell’essere considerate già grandi. Ed è stato il gruppo del sabato a chiudere le lezioni di quest’anno. Ho detto loro di fare buone vacanze e di tenersi pronte per la seconda. Già non vedo l’ora di rivederle, qualunque formula adottata per ripartire andrà benissimo comunque.

adulti nel tempo

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Come qualunque altra branca dello spettacolo, anche lo sport è fermo e immobile da mesi. Di conseguenza, tutto il suo indotto non cava un ragno dal buco, a partire dalle trasmissioni televisive dedicate. Non oso immaginare come siano conciati i canali tematici. Su RaiSport hanno dato fondo – giustamente – all’archivio per garantire la continuità di palinsesto trasmettendo repliche di manifestazioni sportive del passato. Ho visto persino gare di biliardo degli anni ottanta, per farvi capire il livello di disperazione raggiunto dai responsabili della rete. Degli atleti di una volta colpiscono due aspetti: quanto fossero meno grossi di oggi, a partire dai calciatori, e come sembrassero molto più adulti. Un diciottenne di allora, trasportato con una Delorean ai giorni nostri, potrebbe essere scambiato per un quarantenne. Ad avvalorare questa tesi ricordo benissimo la foto di classe di terza media di mia sorella, 1975 circa, in cui erano ritratti compagni di classe quattordicenni con i baffi. I coetanei maschi di mia figlia a quell’età, nel 2017, sembravano poco più che bambini. Forse è la prova che l’universo si sta espandendo o forse, al contrario, siamo al cospetto di un nuovo stadio evolutivo. In questi giorni, in seconda serata, passano le partite dell’Italia ai mondiali dell’82 e, della finale contro la Germania, la parte più emozionante resta l’esultanza di Pertini. Alle mercé della nostalgia, non sono mai in grado di rilasciare un parere oggettivo, così aiutatemi voi: era più facile o più difficile la vita? Probabilmente dipende dall’età con cui avete incrociato l’82. Io ne avevo quindici e vi posso assicurare che non ce la passavamo affatto male.