rumore bianco

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Qualche sera fa ĆØ andata in onda, su Warner TV, la puntata pilota della madre di tutte le serie televisive che ĆØ “ER – Medici in prima linea”. Sapete tutti come funziona una puntata pilota, vero? Si cerca di concentrare in un unico prototipo tutto quello che caratterizzerĆ  un prodotto dell’intelletto per verificare se puĆ² piacere e se quindi ha senso investire tempo e risorse per portarlo avanti. Nel numero zero di “ER”, visto a posteriori, un posteriori peraltro che accade a quasi trent’anni suonati dalla sua prima messa in onda, c’ĆØ giĆ  un accenno a tutti gli elementi che poi ricordiamo come specifici del primo vero e proprio medical drama della storia, a partire dalle personalitĆ  dei protagonisti – tracciate perfettamente, puĆ² piacere o non piacere ma si tratta di una serie che vanta una sceneggiatura da manuale – e dalle dinamiche delle relazioni e delle singole storie umane che si combinano su uno sfondo – quello di un ambiente dedicato al primo soccorso – ricco di paradossi e opposti che si dipanano tra gli estremi della dicotomia principale, la vita e la morte, per evidenziare tutte le sfumature intermedie che solo la chirurgia (l’intervento umano) puĆ² definire, e tutte le emozioni dello spettatore che ne possono derivare.

Non avete notato nulla? Ci sono cascato un’altra volta. Vi ho sottoposto una spiegazione non richiesta, peraltro probabilmente campata in aria, come se non conosceste il senso di “ER”. Come a tutti voi, anche a me quando qualcuno mi spiega una cosa che so mi viene l’orticaria, e non so mai se ĆØ colpa della mia presunzione di conoscere tutto, o della presunzione di chi mi spiega la cosa di conoscere tutto, o un mix di entrambi. In genere il mio approccio (a questa come a tutte le interazioni con il prossimo) ĆØ passivo aggressivo, quindi faccio finta di provare piacere nel ricevere l’ennesima lezione e, a quasi sessant’anni, credo di aver imparato altrettanto bene a dissimulare il disagio e il conseguente nervosismo.

Mi piacerebbe avviare un podcast in cui spiegare le cose che mi spiegano gli altri, cose di tematiche varie che vanno dal come dovrei sistemare la sedia della scrivania – quella su cui sono seduto proprio ora mentre sto scrivendo e che ha una gamba che prima o poi si stacca dalla seduta – a come si mette l’orzo in polvere prima di versare il latte, in modo che si attivi una soluzione preliminare all’intervento agitatorio e decisivo del cucchiaino. Gli spiegoni fanno il paio con l’aver fatto le cose prima degli altri, averle fatte quando non le faceva ancora nessuno, e il rilancio con una cosa piĆ¹ figa di quella che vi ĆØ stata appena raccontata, tutti tratti riconducibili al celholunghismo, che comunque ĆØ una variante del mansplaining. Obietterete che, se tutti smettiamo di spiegare le cose, non ci sarebbe piĆ¹ nessuna forma di comunicazione, a partire da questo blog. Vorrei spiegarvi che avete ragione, ma allora saremmo punto e a capo.

Mi limiterĆ² a confrontarmi con voi allora sul fatto che trovo la trovata dell’episodio pilota in generale, cioĆØ l’escamotage del numero zero, un approccio che sarebbe fantastico per il genere umano nel modo in auge di condurre le nostre esistenze. Voglio solo dire che la vita puĆ² essere un susseguirsi di puntate di prova di qualcosa da lasciare nel dimenticatoio se vediamo che questo qualcosa non funziona. La vita come un palinsesto di numeri zero di esperienze all’interno di un solo e lungo (speriamo anzi il piĆ¹ lungo possibile) e irripetibile spettacolo senza repliche. Il mio obiettivo ĆØ di migliorare il mondo smettendo di spiegare le cose al prossimo, quindi eviterĆ² di condurvi lungo la comprensione di questa metafora.

Mi limiterĆ² a un solo spunto, giusto per indirizzarvi a coglierne il meglio. Ho pensato che il progetto da abbandonare a cui mi dedicherĆ² quest’anno sarĆ  un podcast in cui registrerĆ² queste cose che scrivo per vedere l’effetto che fanno sotto forma di voce narrante, qualcuno che le racconta, per farvi capire. Ho giĆ  registrato il numero zero, la puntata pilota, e l’ho pubblicata su Spotify, sapete – vero? – che ha una piattaforma di podcast molto semplice da usare, e se non lo sapete non vi spiegherĆ² come funziona, ormai sono in questo mood e nulla mi farĆ  desistere. Il titolo del podcast ĆØ “Rumore bianco” e l’ho scelto per due motivi. Intanto ĆØ riconducibile a una delle storie piĆ¹ avvincenti mai lette e a uno dei film piĆ¹ deludenti mai visti, ma anche al fatto che definisco rumore bianco – anche se poi non si tratta in sĆ© di rumore bianco – il substrato di bordone composto dai ronzii degli elettrodomestici unito alla costante della tangenziale che scorre a un paio di km da qui moltiplicato per la moltitudine di fischi di varia intonazione che percepiscono le mie orecchie nel silenzio, quando sono in casa da solo. Si tratta di materia tangibile a tutti gli effetti perchĆ©, se chiudo gli occhi, la posso vedere e coglierne lo spessore. Rumore bianco, quindi. O forse ĆØ davvero meglio il podcast in cui spiegare le cose che mi spiegano gli altri, a partire da come ho sistemato la sedia che, resti tra noi, mica ho ancora aggiustato.

tutto pieno

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Se i primi giorni del nuovo anno accusate un po’ di disillusione rispetto alle aspettative di disruption, come dicono quelli del marketing, ĆØ solo perchĆ© fino al termine delle feste bisogna consumare per forza di cose gli avanzi dell’anno precedente, comprese le giornate stesse. Quindi, fino a lunedƬ, niente cambiamenti degni di nota perchĆ© si vive ancora incapsulati in questi rimasugli di 2023. Sarebbe inutile allestire un ambiente nuovo di pacca con il rischio di sporcarlo di monconi di petardi, briciole di zucchero a velo e gelatina contaminata dal patĆ©. Se non ci credete, leggete dietro l’etichetta di questa settimana e vi toglierete ogni dubbio. Meglio cosƬ. LunedƬ mattina sentiremo quel profumo di plastica nuova che ha il 2024, almeno per chi lo ha scelto di questa fragranza. Per me ĆØ importante perchĆ© mi ricorda lo stereo nuovo che aveva portato a casa mio papĆ  quando facevo prima media. Ho ancora un po’ di quell’aria che ĆØ sprigionata dal vano delle cassette, quando lo ho aperto la prima volta. Sono stato molto lungimirante a metterne un po’ da parte, cosƬ quando ho bisogno di dare riferimenti a qualcuno su quello che mi occorre per viaggiare nel tempo mi basta fargli dare una snasata. Ho diverse boccette con essenze di questo tipo. La piĆ¹ preziosa ĆØ la cute di mia figlia quando ĆØ nata, ma quella ĆØ come il barolo del 64, la stappo solo per le grandi occasioni. Conosco invece persone che hanno preferito, rispetto all’anno nuovo, un usato sicuro, magari a km zero. Io non ne sono molto convinto, credo che comunque sia bene guardare oltre e puntare al futuro, ma capisco che ci siano persone che preferiscono accontentarsi come nei giochi che trasmettono alla tele, quelli presentati da Amadeus, uno che ĆØ bravo a rendere complesse dinamiche che, prive della sua narrazione, sarebbero cosƬ fragili da esaurirsi in una manciata di secondi. So solo che vi partecipano concorrenti che devono solamente tentare la sorte e subirne le conseguenze, nel bene e nel male. Ma se tutto ciĆ² vi sembra disastroso, consolatevi col fatto che, giĆ  a pochi secondi dalla mezzanotte di capodanno, eravamo giĆ  abbondantemente piĆ¹ di otto miliardi di persone. Un dato incontrovertibile che ho provato sulla mia pelle nell’istante in cui, in un impeto di disarmante sprovvedutezza, l’ultimo dell’anno vecchio, ho avuto la presunzione di pensare di trascorrere la sera del 31 al cinema Anteo di Milano senza aver prenotato i posti con adeguato anticipo. Il carico di insensatezza del mio tentativo ha servito alla cassiera al botteghino di uno dei cinema piĆ¹ esclusivi della metropoli ai margini della quale vivo l’inaspettato assist per dare sfogo al livore di dover lavorare la sera di capodanno, aumentato in scala esponenziale dalla frustrazione di esercitare uno dei pochi mestieri umili ai margini di un settore a elevata visibilitĆ  come quello dello spettacolo (per di piĆ¹ nella capitale dell’entertainment nazionale), attraverso una reazione (probabilmente in lei latente da secoli, considerata la prontezza con cui la risposta ĆØ stata estratta e il carico di stizza impiegato per la deflagrazione letale) volta ad annientare il candore del mio approccio da autodidatta al sistema comunemente definito come “saper stare al mondo”. Era tutto pieno, e se abbiamo toccato quota 8 miliardi lo sarĆ  sempre piĆ¹ frequentemente. In cosƬ tanti, poi, lasciatemi pensare a chissĆ  quanta musica nuova inventeremo. Qualcuno sostiene che, a differenza delle probabilitĆ  dei pacchi di “Affari Tuoi”, le combinazioni tra le note, gli accordi e i ritmi non sono infinite, che non c’ĆØ piĆ¹ spazio per nulla, che l’entusiasmo per le nuove uscite discografiche non ha senso di esistere perchĆ© viviamo in un perpetuo riproporsi di sonoritĆ  evocative del momento migliore di tutti, quello in cui il tempo si ĆØ fermato, quello che ci ha reso immortali.

cosplayer

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Quando mi sento in colpa per essere diventato un ascoltatore ossessivo compulsivo di musica e uno sperperatore collezionista di dischi, penso che poteva andarmi peggio. Ci sono adulti che dipingono elfi e soldatini per i giochi di ruolo, gente che a cinquant’anni si veste da personaggi dei fumetti, o appassionati di modellismo.

I Feel Good ma che finisce malissimo

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Fin Del Mundo – Todo va hacia el mar

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ā€œNessun suono tranne quello del vento, che sibila fra i cespugli spinosi e lā€™erba mortaā€. Questo ĆØ lā€™ascolto della Patagonia che ci ha restituito Bruce Chatwin, testimone acustico (a corollario di unā€™intera letteratura) di un luogo, anzi, di un concetto che, come poche altre cose al mondo, a noi da questa parte del pianeta evoca lā€™idea di distanza e di estremo. Oggi quella remota lingua di continente, che vista sul planisfero sembra frammentarsi nella Terra del Fuoco, puĆ² contare su un soundscape piĆ¹ moderno ma di altrettanta desolazione e nostalgia grazie alle composizioni delle Fin del Mundo.

Non cā€™ĆØ nome piĆ¹ adeguato per una band nata tra i venti gelidi e i panorami surreali della provincia di Chubut (costa atlantica dellā€™Argentina piĆ¹ a sud) e poi cresciuta a Buenos Aires a ridosso della pandemia, periodo durante il quale il nome Fin del Mundo ha assunto una seconda accezione e poi una terza, la piĆ¹ recente, come riflesso della complessa situazione internazionale. Che sia inteso come remota periferia del pianeta, estinzione da virus o game over dovuto alla guerra, come la guardi comunque non cā€™ĆØ molta speranza. Il viaggio dellā€™umanitĆ  si conclude ai piedi di un faro ai limiti della Terra, proprio come lā€™artwork di copertina di Todo va hacia el mar, il folgorante album di esordio di Julieta Heredia (chitarra), Julieta Limia (batteria), LucĆ­a Masnatta (chitarra e voce) e Yanina Silva (basso). Nellā€™illustrazione si vede una viaggiatrice con lo zaino sulle spalle che osserva il mare oltre il quale non ci si puĆ² piĆ¹ spingere, perchĆ© tutto finisce lƬ.

Todo va hacia el mar in realtĆ  riunisce i due EP pubblicati solo in digitale dalla nascita del gruppo nel 2019 in una edizione speciale e limitata su supporto fisico (sono lā€™orgoglioso proprietario della copia n. 50 in vinile trasparente). Il primo dei due, omonimo alla band e risalente al 2020, ĆØ risultato decisivo per due fattori: ha permesso alle Fin Del Mundo di rimanere unite in un periodo di separazione forzata e a cosƬ poco tempo dalla fondazione, ed ĆØ stato di altrettanto conforto ai primi supporter della band, costretti in casa dal lockdown. Il tutto grazie a un messaggio di conforto: una fine del mondo lascia comunque spazio a una seconda opportunitĆ , qualunque essa sia.

Lo stile delle Fin Del Mundo puĆ² essere ricondotto a un indie rock con sconfinamenti nel post rock e in alcune trame shoegaze, anche se non ĆØ difficile cogliere spunti di tardo post punk e qualche piĆ¹ garbato ripensamento dream pop. Nelle composizioni di Todo va hacia el mar si percepisce lā€™approccio diretto e live della band (il one-two-three-four di bacchette che introduce ā€œLa Nocheā€, prima eccellente traccia del disco, non lascia dubbi), con lunghe divagazioni strumentali che mettono ancora piĆ¹ in evidenza i momenti in cui le canzoni riprendono una conformazione piĆ¹ strutturata ma sempre agli antipodi, piĆ¹ o meno come la Patagonia, dellā€™alternanza strofe e ritornello. Una manciata di versi per ogni brano o poco piĆ¹. Un sound basato su due chitarre perfettamente amalgamate, pronte ad alternare arpeggi puliti a pennate graffianti.

Todo va hacia el mar si compone di otto brani, pochi ma superlativi e, soprattutto, piĆ¹ che sufficienti a restituire un quadro completo delle potenzialitĆ  delle quattro ragazze. ā€œLa nocheā€ ĆØ unā€™intro perfetta, veloce e con il taglio piĆ¹ indie rock del disco, in perfetto contrasto con il dream pop di ā€œLas floresā€ e della successiva ā€œLa distanciaā€. Il brano che si intitola come loro, ā€œEl fin del mundoā€, sconfina addirittura in atmosfere shoegaze.

In perfetta simmetria, anche il lato B del disco, introdotto da ā€œHacia los bosquesā€, si avvia come la prima facciata. ā€œEl proximo veranoā€, la traccia che segue, condensa tutte le anime della band e, di tutto lā€™album, forse ĆØ quella che piĆ¹ si avvicina ad essere riconoscibile in una veste da singolo. Chiudono il disco la struggente e poetica ā€œDesveloā€ e ā€œEl incendioā€, una canzone a due marce (la prima sorretta da un intreccio di chitarre che ci riporta ai Cure di ā€œWishā€) che contiene il verso da cui ĆØ tratto il titolo dellā€™album: ā€œMe dejo llevar, me dejo llevar, Si todo va hacia el mar, Todo va hacia el marā€.

Per i gruppi che provengono dalla fine del mondo, o quasi, lo sforzo per approdare al pubblico dellā€™emisfero settentrionale ĆØ triplice. Non basta convincere, occorre anche trovare spazi per emergere che devono risultare adatti a una proposta in lingua spagnola, in un oceano di offerte sempre piĆ¹ eurocentriche. A dimostrazione della loro qualitĆ , il live delle Fin del Mundo alla KEXP in poco piĆ¹ di un anno ha superato ampiamente il milione di visualizzazioni. Cā€™ĆØ poco da stupirsi. Todo va hacia el mar ĆØ un viaggio in Patagonia ai tempi del villaggio globale raccolto in un disco sorprendente e in uno degli esordi piĆ¹ piacevoli e convincenti di questā€™anno. Se laggiĆ¹ davvero il mondo finisce, si intravede comunque qualcosa allā€™orizzonte per ricominciare tutto da capo, e meglio di prima.

pronto, casa Beethoven?

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NO NO NO NOOOOOOOOOO, si rispondeva a questa gag intonando l’attacco della Quinta Sinfonia. Il siparietto – siamo a metĆ  anni settanta e alla scuola che allora si chiamava ancora elementare, per darvi delle coordinate – continuava analogamente con “Pronto, casa Mozart?”, a cui l’altro confermava la simmetria nello scambio intonando il tema della Sinfonia N. 40 del compositore austriaco, a cui qualcuno aveva adattato dei versi che piĆ¹ o meno facevano “signorina non rompa la palle, ma consulti le pagine gialle”.


Come ĆØ facile intuire, erano i tempi dei Siemens S62 o, per i piĆ¹ temerari, dei Pulsar, gli apparecchi telefonici fissi domestici che servivano tutto il nucleo famigliare. L’etichetta imponeva al chiamante questa procedura:

  1. ci si accertava di aver composto correttamente il numero chiedendo se l’utenza corrispondesse al cognome
  2. quindi ci si presentava e si chiedeva di parlare con l’interessato/a.

La causa scatenante che ha permesso a questa madeleine di fare capolino nei ricordi ĆØ stata una telefonata, ricevuta ben tre volte, da un call center purtroppo non intercettato come presunto spammer dal mio smartphone. Saprete meglio di me che le chiamate commerciali possono essere classificate in quattro tipologie a seconda di cosa sentite dall’altra parte:

  1. l’operatore che chiede se siete voi appena rispondete con pronto o, come faccio io, dicendo sƬ;
  2. i rumori di vario genere all’altro capo della chiamata senza che qualcuno proferisca parola, segno evidente che l’importante per le aziende di call center ĆØ dimostrare la quantitĆ  di telefonate a cui qualcuno ha risposto;
  3. gli squilli di rimando che dimostrano che le telefonate agli operatori partono solo se il potenziale cliente risponde
  4. e, infine, il messaggio preregistrato, un’entitĆ  che nessuno ha mai ascoltato fino alla fine perchĆ© talmente irritante da indurre a chiudere all’istante.

La variante che circola in questi giorni, ma non saprei a quale servizio o prodotto o brand ricondurla, ĆØ una comunicazione automatica che parte alla risposta proprio con

Se vi ĆØ giĆ  capitato di riceverla, mi sapete dire cosa succede dopo?

no libro oggi

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La mamma di Eric lo ha scritto sotto forma di comunicazione ufficiale sul diario, da far firmare a noi insegnanti, per essere chiara e fugare ogni dubbio: in occasione della visita alla biblioteca comunale Eric non deve prendere in prestito nessun libro. Non tanto perchĆ© in famiglia si parla il cinese e un libro in italiano potrebbe risultargli complicato da leggere durante le vacanze, piuttosto perchĆ© la mamma non vuole o non ha tempo poi di riportarlo in biblioteca – cosƬ ci ha spiegato lui – una volta che Eric lo avrĆ  terminato o comunque alla scadenza del periodo consentito. Eric ci ha sottoposto l’avviso della mamma come prima cosa, appena entrato, consapevole dell’urgenza di farcelo sapere. ƈ finita che, conclusa la visita, tutti sono rientrati a scuola con un libro tranne lui. Peccato, perchĆ© Eric sembrava decisamente attratto da tutti quegli scaffali sommersi da pubblicazioni coloratissime – romanzi, fumetti, saggistica e giochi – e adatte alla sua etĆ . C’era, come facile immaginare, l’imbarazzo della scelta e lui, uno dei bambini piĆ¹ curiosi della mia classe, si ĆØ dovuto accontentare di sfogliare qualche volume lƬ, durante la visita. Ho scattato persino una foto a quella comunicazione secca sul diario – Eric no libro oggi – perchĆ© trasmette un’intransigenza sovradimensionata rispetto alla semplicitĆ  dell’operazione, ancor prima di considerare l’aspetto severamente morale e pedagogico legato all’importanza della lettura, il profumo della carta e tutte quelle cose lƬ. Che cosa vuole che sia, vorrei dire alla mamma di Eric, un ritardo nella consegna di un libro alla biblioteca comunale, senza contare che, se nessuno richiede prima il testo, i prestiti possono essere rinnovati fino a tre mesi. La biblioteca comunale, la scuola e le abitazioni dei miei bambini sono a uno sputo di distanza tra di loro, tutte quante incluse nel raggio ridottissimo della frazione di un piccolo paese di periferia. Possibile che la signora non riesca a dedicare mezz’ora del suo tempo – e mi tengo molto largo – per fare un salto a restituirlo? Ho pensato che mi sarei potuto proporre come intermediario e convincere Eric a prendere comunque il libro che preferiva e poi, una volta letto, di riportarlo pure a scuola. Mi sarei occupato in prima persona della riconsegna, non mi sarebbe costato nulla. Ma la mia collega non mi ĆØ sembrata d’accordo. Secondo lei avrei corso il rischio di intromettermi in qualche consuetudine famigliare o, peggio, avrei potuto scardinare una consolidata impostazione valoriale in cui – tiro a indovinare – non si leggono i libri appartenenti alla cittadinanza, o i genitori vogliono scegliere in prima persona le letture dei figli, o in casa si leggono solo libri in lingua cinese o boh. Ecco, forse boh. Forse non c’ĆØ una spiegazione logica a questo divieto irrazionale. Eric no libro oggi e basta, senza tanti perchĆ©.

lei che bacia lui

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Qualche settimana fa ho interrotto il mio sciopero dei concerti per partecipare all’esibizione live di Colapesce Dimartino all’Alcatraz di Milano. Non so se avete notato la grave crisi economica che sta attraversando il settore della musica dal vivo. Bene, avrete allora letto su tutti i giornali che la causa di tutto ciĆ² va ricondotta alla mia astensione dalla partecipazione ai concerti che ho proclamato – manifestando un segnale forte di insofferenza – tre anni or sono.

Non mi reco ai concerti – e piĆ¹ accesa ĆØ la passione che provo per una band o un’artista e piĆ¹ efficace ĆØ la mia rimostranza – ormai dal 2018 principalmente per due motivi, anzi tre: non posso sopportare di condividere la conoscenza di un gruppo con qualcun altro e di pensare che ci sia gente che apprezza le band di nicchia che seguo. Non sopporto chi va ai concerti, mi si piazza vicino e canta le canzoni, soprattutto dimostrando di conoscere i testi meglio di me. Non sopporto chi si reca ai concerti solo per presenziare all’evento e senza conoscere a fondo la band e poi passa il tempo a chiacchierare o a fare la spola con il bar. E vi dirĆ² che non sopporto nemmeno quelli che tengono lo smartphone in alto per scattare foto o riprendere video del concerto che poi non vedranno mai. Ecco, in realtĆ  i motivi sono quattro e sono certo che se mi lasciate continuare ne trovo altri mille.

Comunque ho interrotto il mio sciopero dei concerti per andare a vedere Colapesce Dimartino all’Alcatraz di Milano un paio di settimane fa e l’ho fatto per due motivi: li adoro e li adora anche mia moglie. Abbiamo preso due biglietti ma poi mia moglie si ĆØ accorta che, proprio quella sera, sarebbe stata coinvolta in una trasferta per lavoro, quindi poi alla fine non ci siamo andati insieme ma ho venduto il biglietto a una coppia di amici e sono andato lo stesso da solo e vi posso confermare che era pieno di gente che amava Colapesce Dimartino come me, che tutti cantavano le canzoni e che addirittura accompagnavano certi passaggi particolari con la gestualitĆ  tipica della nostra cultura, che c’era chi chiacchierava durante i brani e faceva la spola con il bar e che quasi tutti hanno scattato foto e ripreso video con lo smartphone per tutto il concerto che poi non vedranno mai. Il concerto, comunque, ĆØ stato davvero molto bello. Loro sono bravissimi, io conoscevo tutti i pezzi e dal vivo non mi aspettavo una resa cosƬ coinvolgente.

Oltre alla faccenda dell’interruzione dello sciopero, avrete anche letto sui giornali che di Colapesce e Dimartino, oltre alla musica, mi piacciono molto proprio i testi ed ĆØ un dettaglio che ha dell’incredibile. Amo molto anche la loro sicilianitĆ  ed ĆØ un aspetto che si ĆØ consolidato quest’anno proprio durante le vacanze estive che ho trascorso in Sicilia. Il primo disco di Colapesce Dimartino (il nuovo ĆØ uscito solo a novembre) ĆØ stata la colonna sonora del viaggio e si ĆØ prestato molto perchĆ© i richiami alla Sicilia sono assai frequenti. Se lo conoscete, per esempio c’ĆØ una delle tracce piĆ¹ famose – si intitola “Luna araba” – e vede il featuring di Carmen Consoli. Il testo ĆØ centrato proprio sul fascino che esercita la Sicilia sui turisti, sui suoi abitanti alle prese con i turisti (che sono sempre di piĆ¹) e anche sulle contraddizioni di quella meravigliosa terra. C’ĆØ poi un passaggio che trovo molto toccante. C’ĆØ un verso che dice

Dove sei rimasta ad aspettarmi tu
Sicuro c’era il mare

Non so quale immagine volessero trasmetterci i due autori ma l’idea che mi sono fatto io ĆØ che quei versi cantati con quella specifica melodia siano stati scritti pensando ai numerosissimi giovanissimi siciliani che vengono a lavorare al nord – ce ne sono svariati tra i miei colleghi a scuola – e che lasciano nella loro terra i loro affetti e devono attendere per tutto l’inverno le vacanze estive per riabbracciarli, magari proprio in un posto di mare come quello della canzone.

Questo mi fa riflettere sul legame indissolubile che abbiamo con la terra in cui siamo nati e il ritorno alla quale, se ce ne priviamo, aneliamo per tutta la vita. Anch’io, nel mio piccolo, sono emigrato anche se solo di 150 km. Potrei tornare in Liguria ogni fine settimana, se volessi e se non lo facessero simultaneamente milioni di milanesi, che poi tornano simultaneamente a casa il giorno successivo. Per anni addirittura tornavo ogni sera pur lavorando a Milano. Con una manciata di altri folli come me praticavo il pendolarismo estremo e quotidiano sparandomi Genova – Milano andata e ritorno in giornata in treno tutti i santi giorni, pur di non trasferirmi quassĆ¹ e rientrare nella mia casetta di Castelletto.

Che poi in realtĆ  io sono nato a Savona, cittĆ  che da qui ci si mette qualcosa di piĆ¹ per raggiungerla e alla quale invece mi sento un po’ meno legato perchĆ© ĆØ piuttosto deprivata e deprimente. Nonostante il rapporto amore-odio che mi lega a lei, ne seguo comunque le vicende sui social in quei gruppi che vanno per la maggiore in cui si parla di parcheggi, merde dei cani, microcriminalitĆ  locale, dileggio del PD e foto amatoriali a scorci discutibili con suv in primo piano. ƈ proprio da una di queste pagine che ho appreso che Savona, seguendo un trend piuttosto diffuso in Italia, ha addobbato le proprie vie in occasione del Natale con quella tecnica di creare luminarie contenenti versi tratti dai testi di brani di cittadini illustri divenuti pop star nazionali grazie alle loro canzoni. A Savona le luminarie riprendono frasi delle canzoni di Annalisa, a dimostrazione che ĆØ proprio vero che ogni cittĆ  ha il Lucio Dalla che si merita.

che palle

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L’essenza del Natale, nella sua accezione laica – ammesso che ne abbia una – ĆØ che gli sforzi dell’umanitĆ , almeno di chi puĆ² festeggiarlo, si concentrano intorno a un palinsesto dedicato ad alcuni temi che negli altri periodi dell’anno non ci ĆØ possibile seguire per svariati motivi: la nostra natura, il lavoro che facciamo, il clima stesso, i fatti di attualitĆ  e il solito tran tran. Fino quando poi sopraggiunge dicembre – che, non so se avete notato, ĆØ lƬ che ci aspetta puntuale sin dal giorno in cui rientriamo dalle ferie estive – e tutti ci sintonizziamo piĆ¹ o meno sullo stesso canale e ci impegniamo a favorire le condizioni per cui l’unico scopo e il solo pensiero siano finalizzati a un motivo conduttore condiviso che, banalizzando, ĆØ riconducibile a far di tutto per fare stare bene il prossimo e, di riflesso, esporci in modo tale che il prossimo faccia stare bene noi, una versione con renne e slitte e festoni e canti ad hoc della strategia win-win, quella in cui tutti hanno la percezione di aver raggiunto gli obiettivi inizialmente prefissati.

Ed ĆØ impossibile sottrarsi a questa narrazione a meno che non viviate nella striscia di Gaza, in qualche paese del terzo mondo, nei territori in guerra o in qualunque area del pianeta devastata da una catastrofe naturale. Probabilmente la scansione del tempo – che a volte ci sembra una convenzione sociale ma poi, studiando rotazione e rivoluzione terrestre in scienze ci sono ben chiari i motivi per cui non dipende da noi – ĆØ stata pensata proprio per consumare fino al loro esaurimento i pattern ricorrenti (giorni, mesi, stagioni e anni e mi fermo qui, dai secoli in poi ĆØ tutto ampiamente fuori dalla nostra portata) intorno ai quali conduciamo la nostra esistenza. Se a sera ci addormentiamo sul divano al tg di Mentana, se non arriviamo alla fine del mese con lo stipendio e se a dicembre giungiamo stremati ci sarĆ  un motivo. Voglio dire, probabilmente la natura ci dĆ  il suo clic in cuffia, proprio come succede negli studi di registrazione, e noi viviamo seguendo quel ritmo. Questo per dire che siamo tutti uguali di fronte all’albero di Natale addobbato e ci abbandoniamo a quel mix agrodolce di pensieri che poi sublimiamo – alcuni la sera della vigilia, altri al pranzo del 25, ecco, in questo siamo diversi – nel convivio con gli appartenenti alla nostra specie piĆ¹ prossimi al nostro vissuto. Il punto ĆØ: ĆØ nato prima il natale o prima l’insieme di tradizioni che seguiamo rigorosamente ogni anno seguendo una check list consolidata da secoli? Prima dell’anno zero, a natale come passavate il tempo?

In casa, per le strade, alla tele, nei centri commerciali ĆØ impossibile sottrarsi allo stato d’animo diffuso. A scuola, poi, che ĆØ un concentrato di bambini che, del natale, costituiscono il core business, non ne parliamo, ed ĆØ sconsigliatissimo adottare deterrenti a questa sorta di pensiero unico. Quest’anno il consueto lavoretto di natale che purtroppo non posso decidere in autonomia ma ĆØ di competenza della collega piĆ¹ brillante in ambito bricolage e fai-da-te (se potessi decidere io farei un’infografica con Canva) consiste in una casetta costruita con le palette per spalmare la cera, che poi se le cercate su Amazon scoprirete che fungono anche da abbassalingua, spero non prima di averle lavate. Io, che con le attivitĆ  manuali sono una frana, ho trasmesso tutte le mie perplessitĆ  sul tempo perso a realizzare male qualcosa che poi finirĆ  nella spazzatura a feste finite ai miei alunni che, di conseguenza, a parte i soliti primi della classe che approcciano qualunque proposta con lo stesso invidiabile eccesso di zelo, ĆØ venuto una merda.

C’ĆØ poi Leonardo, che quest’anno ĆØ davvero al centro delle attenzioni di tutti, a cui invece il natale fa l’effetto opposto. Odia tutto e tutti molto piĆ¹ di quanto non esprima per il resto delle stagioni e l’insieme dei cambiamenti volti all’omologazione generale verso l’estetica e l’etica delle festivitĆ  lo mandano in bestia con una frequenza maggiore del solito. Ogni pretesto ĆØ buono per far volare banchi e sedie in aria e, davvero, non sappiamo piĆ¹ che pesci prendere. Ci sono poi le colleghe che mi vogliono bene perchĆ©, alla fine, riesco a collegare sempre le loro stampanti di classe al pc dopo gli aggiornamenti che lasciano partire involontariamente, o anche solo perchĆ© hanno messo il cavo usb nella presa di rete del portatile. Sanno che mi piace il genepƬ e cosƬ, a dicembre, mi faccio la scorta per tutto l’anno.

Tra i membri del team dell’interclasse ci facciamo sempre un pensierino, una candela, un segnalibro o qualche altro oggetto originale acquistato ai mercatini di natale. Il primo anno in cui ho preso servizio non lo sapevo, venivo da un ambiente professionale in cui il fattore umano non era certo al primo posto, e cosƬ sono stato l’unico a presentarsi a mani vuote ma, per fortuna, l’appartenenza al genere maschile mi ha sollevato dalla figura di merda. Sei un uomo, non ti preoccupare, mi ha detto la mia collega di classe. Da allora ogni anno mobilito mia moglie per supportarmi nella scelta delle cose piĆ¹ adatte da acquistare per il consueto scambio dei doni all’ultima riunione di programmazione di interclasse prima della pausa natalizia. Non che io non sia in grado di scegliere, ma solo perchĆ© vivo nella convinzione che, se acquistati da una donna, i regalini possano corrispondere di piĆ¹ all’idea che le mie colleghe hanno di me, un uomo che si affida a una donna per le cose da donna.

Bleach Lab – Lost in a Rush of Emptiness

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Quello dei Bleach Lab ĆØ uno splendido dream pop basato sulla chitarra di un chitarrista che, a ridosso della pubblicazione dellā€™album di esordio della band (il disco di cui sto scrivendo) ha mollato il colpo.

Ve lo dico perchĆ© avevo appena sistemato lā€™attacco per questa sorta di recensione e faceva piĆ¹ o meno cosƬ: Jenna Kyle e Frank Wates dei Bleach Lab passeranno alla storia come una di quelle coppie voce e chitarra che il destino ha voluto far incontrare apposta per rendere immortale la reciproca complementaritĆ . Stavo addirittura per tirare in ballo Morrissey e Johnny Marr, o Elizabeth Fraser e Robin Guthrie. Poi (ĆØ stato per puro caso) mi hanno insospettito delle riprese di un live dei giorni scorsi, pubblicate su Youtube, e una foto promozionale che accompagna il disco: le facce dei chitarristi sono oggettivamente diverse.

ƈ stata sufficiente una ricerca sul loro profilo Facebook per recuperare il post dellā€™annuncio della separazione, risalente ai primi di ottobre, a farmi riflettere sul fatto che il prossimo disco sarĆ  piĆ¹ che una prova del nove per questa talentuosa band londinese. Mi chiedo infatti quanto sia stato determinante lo stile dellā€™ormai ex-chitarrista Frank Wates per il suono nativo che mi ha catturato cosƬ tanto da farmi innamorare di loro e per il valore che ha aggiunto ai Bleach Lab. Se il futuro secondo trentatrĆØ giri dei Bleach Lab funzionerĆ  allo stesso modo di Lost in a Rush of Emptiness, e ce lo auguriamo con tutto il cuore, e il chitarrista che lo rimpiazzerĆ  sarĆ  piĆ¹ di un mero turnista, significa che ci troviamo al cospetto di un band con una personalitĆ  incredibile e sufficientemente forte e matura a prescindere dalle individualitĆ  al netto di Jenna Kyle, la cantante, che, forte del suo ruolo, ha piĆ¹ voce in capitolo di tutti.

Ma, almeno per ora, godiamoceli cosƬ. I componenti dei due classici della musica che ho citato poco fa non sono stati tirati in ballo a caso e non solo per lo stile in sĆ©. I Bleach Lab sono veri maestri nel restituirci (con sobrietĆ  e poesia) emozioni catturate con una sensibilitĆ  che rimanda ai The Smiths nella loro versione piĆ¹ sommessa e trascurabile e ai Cocteau Twins meno intransigenti e piĆ¹ alla mano (quindi a glossolalia rottamata) di Heaven or Las Vegas. Due riferimenti colti nella loro dimensione da b-side (un richiamo alle rispettive hit suonerebbe stucchevole) attraverso rimandi accennati e riscritti secondo i canoni della percezione della musica da vecchi che ha la generazione millennial. Che poi non ĆØ proprio cosƬ: la storia del dream jangle indie pop ĆØ piena di chitarrine pulite e riverberate a fare da culla a voci eteree femminili in ogni decennio, lascio a voi (dai The Sundays ai Mazzy Stars ai Daughter) il piacere della speculazione nelle similitudini.

E il bello di Lost in a Rush of Emptiness, titolo riconducibile alle liriche postume di Leonard Cohen, va individuato nella sfida a smarrirsi per non ritrovarsi lungo il confine impreciso in cui si amalgamano proprio canto e accompagnamento musicale, quello spazio in cui lā€™uno si confonde egregiamente nellā€™altro e viceversa. Un aspetto sorprendentemente convincente (e molto piĆ¹ a fuoco di quello che lascerebbero intendere dalla foto di copertina del disco) per una band agli inizi come i Bleach Lab. Sono proprio loro, nelle interviste a supporto dellā€™uscita del disco di debutto, a dichiarare di aver lavorato meticolosamente e con professionalitĆ  alla sua realizzazione.

Non a caso Lost in a Rush of Emptiness suona come una bomboniera artigianale da prima comunione se paragonato al clamore dei chiassosi cotillon musicali a cui siamo sempre piĆ¹ esposti, aspetto che si intuisce sin dalle prime note di ā€œAll Nightā€, il brano introduttivo del disco: nessun incipit dā€™effetto o crescendo mozzafiato, ma solo un fill di tamburi da prima settimana di lezioni di batteria. Essenziale ma efficace, la prova della mancanza di spazio per gli individualismi in un progetto di questo tipo, a tutto vantaggio delle loro composizioni.

E a marcare la differenza con le tematiche mainstream, lā€™approccio in punta di piedi dei Bleach Lab ĆØ una boccata d’aria fresca. La gentilezza e la sensibilitĆ  come linguaggio prestato a tradurre in canzone disfunzioni intime, a partire dalle relazioni claustrofobiche e velenose, il dolore e le angosce dā€™amore, lā€™isolamento, la dipendenza dallā€™alcol e persino un tema urgente come quello delle molestie sessuali. Una tracklist colma di spleen in cui ĆØ prevista la redenzione finale, un brano in cui la band canta con pochissima convinzione che ā€œLife Gets Betterā€, la vita migliora. Ma chi volete prendere in giro, con quei suoni e quel mood lƬ? Lost in a Rush of Emptiness ĆØ lā€™ennesima prova del fatto che non ha senso ascoltare musica che non sia deprimente.

E, da questo punto di vista, ĆØ davvero difficile trovare un difetto in un disco come questo. Il pop shoegaze dei Bleach Lab impone tempi dilatati alle canzoni e, di conseguenza, ci lascia tutto lo spazio per bearci della malinconia e del disagio, sentimento del quale, anche nei momenti piĆ¹ di successo della nostra vita, un poā€™ di scorta abbiamo sempre da qualche parte. Un disco che raccoglie gli insegnamenti di un filone perfetto per crogiolarsi nel malessere e continuare a far finta, almeno per lā€™ascolto dellā€™album, che lo stiamo accettando, ci stiamo convivendo e stiamo provando (ā€œguarda un poā€™ā€, raccontiamo a noi stessi) a trovare persino una via dā€™uscita. Ed ĆØ una fortuna (lā€™unica) che dischi come questo durino poco.