pezzi di scuola

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Avete presente quei film americani in cui sono i ragazzi a spostarsi da una lezione all’altra e non gli insegnanti? Qui da noi è talmente tutto il contrario che addirittura ogni anno ci tocca fare armi e bagagli per traslocare in una nuova aula. Cambiare aria fa bene e movimenta un po’ le cose. E alla primaria ha un suo senso: banchi e sedie, in prima, hanno dimensioni diverse rispetto alle postazioni dei grandi. Senza contare che la mia scuola è su tre livelli e i più piccoli occupano il piano terra, e per motivi di sicurezza meno si muovono su e giù per le scale meglio è. Per dire, quando porto i miei bambini in laboratorio di informatica, all’ultimo piano, vedo che qualcuno è molto a disagio lungo le rampe.

Così, puntuale come la morte, arriva il momento dedicato alla sistemazione nella nuova classe, un giorno infausto di fine giugno che mantiene ogni volta la continuità per il caldo, l’afa, la polvere, le bidelle che urlano, le colleghe che dissimulano accumuli compulsivi.

Quest’anno, però, il D-Day ha avuto una connotazione diversa. La mia dirigente, come tutti i presidi italiani in questo periodo, non sa che pesci prendere. I decreti ministeriali sono secondi a facilità interpretativa solo ai calendari dei Maya e l’organizzazione scolastica si muove, giustamente, a cazzo. La novità quindi è consistita nel liberare, in ogni classe, tutto lo spazio possibile per permettere la sanificazione – che, detto tra noi, non riesco davvero a immaginare a cosa serva, considerando a scuola non entra nessuno dal 21 febbraio e che resterà vuota verosimilmente sino al 14 settembre – e per consentire il massimo contenimento di bambini possibili secondo le distanze di sicurezza.

Via tutti gli armadi e gli scaffali. Via tutto ciò che c’è sopra e dentro. Operazioni generiche ma in grado almeno di essere propedeutiche a qualunque destino venga pianificato per la scuola italiana. E per l’effetto di una sorta di principio di Archimede e del postulato dei vasi comunicanti, lo sgombero in classe senza alcuna organizzazione preliminare è sorprendentemente coinciso con il riversamento nel mio garage di tutto ciò per il quale non era stata prevista una collocazione alternativa e che non si poteva buttare. La mia collega ed io abbiamo fatto piazza pulita di cartelloni, lavoretti, maschere di carnevale interrotte dal Covid-19. Per il resto, però, il destino era ben chiaro sin dall’inizio, con buona pace dei consorti degli insegnanti.

La scuola rivoltata come un calzino dai docenti dà sempre vita a numerosi spunti narrativi per gli insegnanti più portati per la scrittura. Mi riferisco a una sacca contenente un paio di scarpe da ginnastica rimasta sugli appendiabiti in un corridoio. Possibile che nessun genitore ne abbia rivendicato la paternità? Una gomma con l’effigie di un eroe dei cartoni animati di qualche stagione televisiva fa, abbandonata in un cassetto di una cattedra, quindi frutto di una requisizione in conseguenza di un utilizzo non consentito.

Questo, e molto altro, è finito negli scatoloni per il ritiro degli addetti alla nettezza urbana, scesi (gli scatoloni) nell’apposito spazio antistante l’ingresso in prima persona dai bidelli proprio con questa inconsapevolezza dell’intransitività del verbo impiegato.

La morale è che le cose che si comprano durante la crescita dei bambini lungo il primo ciclo scolastico risultano coperti da una sorta di convenzione sancita dal diritto naturale in cui genitori e figli sottoscrivono un patto di non-affezionamento a beni illusori quanto un ghiacciolo quando si ha sete. Giochi e cancelleria si perdono, si guastano, si consumano, si prestano e nessuno li restituisce più. Sono solo gli insegnanti che tengono il registro (o, nella DAD, il file log) di tutte queste cose: chi le ha regalate a chi, quando si sono rotte, quante lacrime ha versato il proprietario non trovandole più.

In pratica è come se fossimo la bad company di questo sistema universale in cui la gente normale si precipita a passare al livello successivo mentre noi stiamo dietro le quinte a fare il lavoro sporco ma convinti di rendere l’esperienza indimenticabile quando invece, al primo prof di liceo che ti fa salire in piedi sui banchi, nessuno si ricorda più del maestro che ti prendeva in braccio in lacrime, strappandoti dalla mamma, e ogni fottuto giorno se ne doveva inventare una per farti capire che nessuno, in quell’ambiente, ti era ostile. Per questo ogni pezzo di scuola ha un significato ben preciso. Anche quelli di cui sembra che nessuno se ne curi più.

la fortezza, io, il vento

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Un giovane assistente del professore con cui ho sostenuto un esame di letteratura italiana all’università sosteneva, senza mezzi termini, che una buona parte della produzione poetica del genere umano sia stata scritta per portarsi a letto qualcuno. Io e l’amico Walter, che ai tempi eravamo inseparabili compagni di studi tanto che lo chiamavo il mio Walter ego, c’eravamo scambiati un’occhiata di intesa perché di poesie ne scrivevamo a getto continuo ma con scarsi risultati, sotto quel punto di vista. Comporre rime, più che prosa, era una vera e propria missione di tutti, ai tempi. A differenza di molti, però, Walter ed io non frequentavamo i bar nei pressi della facoltà con i nostri quaderni sottobraccio grondanti di inchiostro e di ispirazione con l’intento di sottoporre versi ad amici e soprattutto amiche. In ogni spazio ricreativo occorreva ingegnarsi per dribblare i numerosi lirici in erba che, sbrigate le formalità dei convenevoli, andavano subito al sodo proponendoti di leggere qualcosa scritto da loro. Una strategia che non ho mai adottato. Tutt’ora sono estremamente riservato, se pensate che non ho mai divulgato volontariamente a conoscenti, colleghi o amici il link a questo blog. E, per fortuna, di tutto quel ciarpame in rima composto da me ho perso traccia, probabilmente declassato a materiale da macero insieme ai vari supporti cartacei colmi di appunti delle lezioni, una volta conseguita la laurea. Invece, qualche giorno fa, ho riesumato un paio di volumetti di letteratura e pubblico nella Grecia antica per mia figlia e, scorrendo velocemente le pagine per verificare che non vi fossero chiose compromettenti, è saltato fuori un foglietto di uno di quei mini block-notes a quadretti, il formato che prima dell’avvento delle casse elettroniche e dei pos si usavano nelle trattorie per annotare il conto da sottoporre agli avventori. Su quel pezzo di carta c’era una poesia redatta con i caratteri boriosi che impiegavo per quel genere di composizioni: tutto maiuscolo e inclinato verso destra. L’ho letta e, come è facile immaginare, ho provato un forte imbarazzo. Ma l’esperienza genitoriale mi ha insegnato che non bisogna provare vergogna per le cose fatte nella fase precedente della propria vita, che solitamente è antitetica a quella che si sta vivendo, altrimenti non ci sarebbe stato bisogno alcuno di cambiarne le regole. Quando rammento un episodio a mia figlia accaduto quando frequentava le medie mi rimprovera di riportare a galla esperienze che vuole rimuovere dal suo vissuto. Io cerco di rassicurarla sostenendo che arriverà il giorno in cui tutto il passato, quello piacevole e quello che ci sarebbe piaciuto dimenticare, riuscirà a ripercorrerlo con maggiore indulgenza. Così, per coerenza, ho piegato nuovamente il foglietto con la poesia e l’ho messo a posto nel libro anziché fargli fare la fine che meritava, tanto per la storia della letteratura greca c’è ancora tempo. Poi si vedrà.

the wants – container

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[questo articolo è uscito su loudd.it]

Quello dei The Wants è un ottimo esordio e “Container” un disco come quelli che si facevano una volta. Un commento non molto appropriato per una band che suona un genere tutto sommato derivativo. La sostanza però è questa, e il risultato è sorprendente.

Se avete vissuto la quarantena da Covid-19 serrati in casa, oltre a comportarvi da cittadini coscienziosi, vi sarà risultato più facile trovare uno strato in più di riparo da qualunque contagio (meglio abbondare in sicurezza) negli agi della vostra comfort zone preferita. Per chi come me si è nascosto dietro ai bastioni in plexiglass del post-punk, quello dei The Wants è stato uno dei lanci di generi di sopravvivenza più riusciti di tutto il lockdown.

I The Wants vengono da New York e suonano bene la musica di fine 70/primi 80. Rock-wave, disco-punk, new wave, chiamatela come volete tanto non c’è genere più attuale e nessuno mi convincerà del contrario. Della band fanno parte Madison Velding VanDam (voce e chitarra) e Heather Elle, entrambi in forza a un altro gruppo del circuito indie newyorkese ma molto meno bravi, i Bodega, con in più Jason Gates dietro alla batteria.

“Container” è un disco come quelli che si facevano una volta, intendo quando Wire, Suicide e Cabaret Voltaire (citati qui tutt’altro per caso) erano sulla cresta dell’onda alternativa. Un tempo in cui i long playing erano concept, prima che materiale da riempire il più possibile di canzoni. L’approccio dei The Wants è interessante perché conferisce eguale dignità a musica e voce, brani strumentali e cantati, alternati in un modo intelligente e audace. Una tracklist pensata per aumentare la curiosità per ciò che riserva il brano successivo, se quello che stiamo ascoltando è così trascinante.

Mi riferisco al modo in cui la rumorosa “Ramp” chiama la geometrica title track “Container”, un workspace creativo in cui i Devo collaborano con i Sonic Youth. E al linguaggio macchina di “Machine Room” che sanifica l’ambiente da ogni residuo sonoro per la travolgente “Fear My Society”, l’inno della modernità suonato come avrebbero fatto i Talk Talk. A parte qualche parola declamata nel ritornello, possiamo considerare anche “The Motor” uno strumentale synth-wave, seguito dal consueto intermezzo elettronico.

Si ricomincia con qualcosa di più melodico subito dopo con“Ape Trap”, in quota dark-wave questa volta, grazie al riff di chitarra che gioca su un intervallo di semitoni strettissimi. “Waiting Room” è la sala d’aspetto di “Clearly a Crisis”, un funk-punk dal groove rallentato, che lascia il posto alla nervosissima “Nuclear Party”. Per “Hydra” possiamo tirare in ballo i Chameleons, ma giusto per farvi capire di cosa i The Wants sono capaci e cogliere le loro numerose sfumature, caratteristica confermata dalla vena industrial del finale di “Voltage”.

Se non vi siete persi lungo questi cambi di direzione repentini, le canzoni fatte e finite non sono così tante ed è un bene, per un genere che necessita comunque della massima concentrazione in fase di ascolto. E se riuscite anche a ballarlo, tanto meglio per voi. Al netto delle incursioni nel noise artificiale, l’esordio dei The Wants è una piacevolissima sorpresa in questo nefasto anno bisestile. Le loro performance dal vivo disponibili in rete, inoltre, restituiscono l’impressione di una band vera composta da strumentisti che mettono la tecnica al servizio dell’originalità. Artisti da seguire con interesse che speriamo di vedere in concerto anche dalle nostre parti, nel breve periodo.

icone del nostro tempo

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L’amico Ted non riesce a immaginare come sia la vita dalle nostre parti. Vi ricordo che vive sul pianeta Dante 01 e che un giorno dei loro corrisponde a dodici anni dei nostri e quindi, quando si sveglia la mattina e mi chiama per fare quattro chiacchiere o anche solo per un saluto, mi ci vuole almeno una settimana per raccontargli a grandi linee come vanno le cose. Non vi dico quando mi chiede se ci sono novità. D’altronde se le rispettive reti trasmettono su protocolli differenti non è affar mio. Se ci fosse un minimo di collaborazione – anche solo per fini opportunistici, voglio dire: a tutte le economie del mondo farebbe comodo un mercato così vasto come il loro – non dovremmo ricorrere a questi sistemi inventati per comunicare e rimanere in contatto. Non vi dico quando ha saputo della pandemia da Covid-19. Da loro, lo sapete, le malattie sono state vietate da più di un secolo (dei loro) e – inquinamento a parte – se la cavano piuttosto bene. Comunque da quando abbiamo trovato il modo di scambiarci qualche foto è tutto molto più facile. Il problema è stato fargli capire che cosa guardare, in un’immagine. Un concetto che a noi sembra banale ma a loro, con tutte quelle dimensioni, risulta piuttosto primitivo. Poi però ha trovato un convertitore da un rigattiere ed è riuscito a installarlo in uno dei milioni di dischi fissi di cui è composto il suo organismo. Io non ho ancora trovato il modo di visualizzare le sue (ci vorrebbero tutti gli elaboratori della Nasa, altro che grid computing) e Ted ha capito che, in quanto a digitalizzazione, sulla Terra siamo un po’ indietro. In cambio ho pensato a qualcosa di veramente iconico. Gli ho mandato questa cartolina e lui mi ha detto di aver riso di gusto (cari amici di Getty Images, se non posso pubblicarla ditemelo che la levo senza creare problemi).

ROME, ITALY – MAY 28: A man wearing a face mask uses an electric scooter to commute in downtown Rome, Italy, on May 28, 2020 Italian main cities’ authorities are promoting combined use of public transports and alternative means as the government eased restrictions of the lockdown imposed to curb the coronavirus (COVID-19) pandemic. (Photo by Riccardo De Luca/Anadolu Agency via Getty Images)

è finito il mondo mentre preparavo la pasta con le sarde

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E pensare che non era nemmeno la fine del mondo, una volta assaggiata, la pasta con le sarde, perché non avevo il finocchietto e non l’ho messo. Se state ancora leggendo malgrado l’eresia gastronomica è bene che sappiate che in compenso i vicini di sotto sono proprietari di un dondolo sul balcone che cigola per un livello di fastidio inimmaginabile e la loro figlia è rimasta seduta lì sopra tutta la mattina sino all’ora di pranzo, e mentre cucinavo con questo sottofondo ritmico ho pensato che se la nuova data dell’apocalisse, quella del 21 giugno, è stata ricalcolata da una rilettura dei Maya, chi è che spreca il proprio tempo dedicato alla lettura a leggere i Maya? Potrei elencare almeno un centinaio di romanzi che preferirei o anche libri di poesia, disciplina a cui mi sono riavvicinato per motivi che non vi sto a dire. Uno su tutti è Clemente Rebora, il suo avvampato sfasciume e il gonzo pecorume dei ragazzi di scuola, con le loro teste a palloncini. E, vi assicuro, il suo non è un riferimento alle feste di compleanno di bambini come quelle che si svolgono – fin troppo spesso – nei giardini delle villette a schiera qui davanti, le stesse in cui ogni due per tre suona l’allarme antifurto ma dalle quali, pur affacciandomi prontamente al balcone, non ho mai visto nessuno fuggire con il sacco pieno di argenteria e la mascherina – non quella anti-contagio ma quella della Banda Bassotti – sul volto. Ecco uno dei tanti limiti del lavoro da casa. Un’amministrazione comunale seria dovrebbe imporre un giorno solo al mese in cui tutti i proprietari di giardini possono accelerare a manetta con il loro tosaerbe in modo che il danno acustico resti circoscritto. Il giorno degli sfalci e delle potature. Altrimenti, davvero, ogni dannata mattina c’è qualche pensionato che si dà da fare nell’accudimento della proprietà privata. Se avessi una villetta con giardino probabilmente nel giardino avrei una giungla e, con il clima degli ultimi tempi, sono certo che sarebbe rigogliosissima e popolatissima di animali selvaggi.

filastrocca di fine anno

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Ci sono molte gag con cui far divertire i vostri alunni in videoconferenza e se volete ve ne racconto un paio. Il prof di filosofia di mia figlia, al termine dell’ultima lezione dell’anno, ha messo su Zoom uno di quegli effetti che fanno la gioia dei più nerd e ha fatto finta di essere risucchiato in una dimensione digitale, per poi chiudere la trasmissione all’improvviso come se, davvero, fosse stato sbalzato chissà dove. Uno scherzo molto appropriato perché si tratta di un insegnante precario che, probabilmente, il prossimo anno sarà altrove e, con questa uscita di scena, ha avuto una trovata davvero azzeccata perché nessuno della classe lo vedrà più. Il fatto è che mia figlia ha preso nove all’ultima interrogazione, quindi un po’ mi spiace che ora sia imprigionato nel misterioso sottosopra delle Graduatorie Provinciali. Io invece ho riproposto un adattamento della scenetta di “Eccezzziunale veramente” con Abatantuono che finge l’interferenza nella telefonata dicendo “Gulash! Gulash!” che, anche se mi vergogno a dirlo, mi fa piuttosto ridere. Nella mia versione, durante una lezione di matematica da remoto mi sono prima bloccato e poi ho iniziato a muovermi a scatti nemmeno fossi David Zed, simulando uno dei problemi di connessione come ne abbiamo visti tanti. Anzi, pensavo di esibirmi di nuovo in questo sketch a settembre, se davvero torniamo tutti in classe. Inizierò a far lezione e ad un tratto mi bloccherò, inizierò a esprimermi a singhiozzo, non dirò Gulash Gulash ma mi comporterò come se fossi stato catapultato nella realtà da un mondo digitale.

Mi sono chiesto se esistano altri lavori, oltre quello dell’insegnante durante una pandemia, in cui ci si può permettere di fare il cretino e di sfoggiare tutto il proprio background di cultura trash o per lo meno superflua. Ma anche il nostro è una forma di telelavoro di cui, a scuole chiuse o quasi, mostriamo i segni dovuti alla fatica ed è inutile che vi mettiate a darvi di gomito perché gli insegnanti hanno quattro mesi di vacanza, che poi sono a malapena due.

Quindi, una volta cliccato sulla cornetta per interrompere la lezione, tutto il nostro ufficio nella stanza ripiomba nel silenzio, lo stesso che vigeva prima a parte la moglie che ha la postazione in sala e la figlia che ha la classe in camera sua. Io ho avuto la cattedra vacante ma non come il prof di filosofia di mia figlia perché io, a differenza sua, sono di ruolo e trasmettevo un po’ in cucina, un po’ nel salotto in accordo con mia moglie, ultimamente sul balcone e vi assicuro che è una figata.

Termina la lezione e non resta nulla se non la fantasia nell’immaginarci i bambini dall’altra parte che hanno visto volatilizzarsi il maestro, lo hanno seguito fino a quando è sparito insieme alla finestra che lo ritraeva nella sua casa, con i libri, i dischi, la gatta, la moglie e la figlia. A scuola invece non potevo contare sugli effetti speciali. Quando suonava la campanella lasciavo che facesse l’ingresso la collega che mi succedeva nell’orario e poi salutavo tutti e tutti salutavano me. Ci vediamo domani, ci dicevamo. Ci mandavamo i baci nemmeno ci fossimo trovati loro su un treno e io sul binario della stazione. Questo per dire che stare a casa a lavorare è bello. Ma dopo un po’ rompe i maroni.

indiscipline

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Per esperienza posso assicurarvi che non vi sia nulla di più divisivo in una coppia del progressive. Sul jazz si può litigare e il vostro/la vostra partner può offendervi dicendo che ascoltate musica da vecchi. Ci sta. Se siete metallari mi metto dalla parte lesa, perché non potrei vivere mai a fianco di una persona che ascolta un genere tanto kitsch. Mettere un disco di progressive invece è come dire che si ha voglia di litigare. Il vostro/la vostra partner si sentirà tradito/a di fronte a una scelta così scellerata. Non avete idea di quante crisi sono nate al non-ritmo di una canzone dal tempo dispari.

Ma c’è di peggio, perché flauti, organi hammond e composizioni strumentali da venti e passa minuti, quello che possiamo ricondurre all’idea che la gente tra virgolette normale ha del progressive, equivale a quando portate in casa, su dalla cantina, un cimelio di un’epoca che non c’è più con tutta la sua puzza di muffa proprio mentre il vostro/la vostra partner ha appena versato nel diffusore di aromi la sua essenza preferita. Vi sfido così a mettere “Discipline” dei King Crimson, un meraviglioso quanto inspiegabile ibrido che riunisce, in una manciata di tracce, la no wave dai tratti di peggiore incomunicabilità con la vocazione estremista e isolazionista del progressive. Divorzio assicurato.

E, di fronte al giudice o, nel migliore dei casi, al cospetto di un buon analista in una seduta di terapia di coppia, pentiti di esservi lasciati tentare da quel disco dalla copertina così ostica, punterete il dito contro Adrian Belew e Robert Fripp, innanzitutto. È tutta colpa del loro modo presuntuoso di incrociare le chitarre. Ve la prenderete con le linee vocali completamente fuori di testa e la pesantezza e l’oscurità dei testi. Tirerete in ballo quel cazzo di Chapman Stick di Tony Levin o il modo di andare per la sua strada, indipendentemente dal contesto, di Bill Bruford. Altro che bestie di satana o dischi suonati al contrario. Qualcuno deve aver sovrapposto per errore le tracce di “Red” e di “Remain In Light” e ha evocato l’anticristo in persona.

Ma, su tutto, chiederete i danni per avervi rovinato la vita a “Indiscipline”. “Quando è iniziato il brano ho avuto paura che mio marito/mia moglie mi uccidesse”, vi sentirete dire. Sarete accusati di aver oltraggiato il comune senso dell’ordine e della regolarità, di aver traviato menti alla follia nell’impossibilità di comprendere il principio e la fine di un brano e di contare prima i quarti poi gli ottavi e persino i sedicesimi per riportare una canzone a un tempo conosciuto. Si ricorderanno persino di quella voce allucinata che, dal nulla, parlava di una cosa incomprensibile, frutto di ore di impegno, da portarsi in giro, da osservare, in grado di coinvolgere. Un mantra da ripetere sotto stress. Una sensazione che, alla fine, piace. Forse un pezzo che parla del pezzo in sé. Una sega mentale.

Ma, anche se trascorrono gli anni, il culto pagano per “Indiscipline” non invecchia e il suo principio attivo resta sempre maledettamente nefasto. La gang colpevole della strage si ripresenta in formazioni diverse, si succedono componenti, si separano le vite, il passato si fa sempre più indistinto.

Fino a quando incontri per caso, decenni dopo, il tuo/la tua ex. Gli/le chiedi di salire a bere qualcosa e, mentre lui/lei contempla le foto sul camino della nuova vita che ti sei fatto dopo che ti ha lasciato/a, vai su Youtube e metti a tutto volume la versione di “Indiscipline” dei King Crimson tratta dal “Live in Mexico City” del 2017, quella con i tre batteristi davanti. Vendetta è compiuta.

ehi tu parco levale le mani di dosso

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Una volta non si chiamavano Giardini Montanelli e non c’erano statue di giornalisti dal passato imbarazzante da imbrattare. Si chiamava Parco Palestro, prima era addirittura sede di un zoo ma l’unico animale che ci ho visto è stato un gigantesco topo morto e no, non sto parlando di un fascista. Lavoravo a due passi e la parte di nord-ovest, quella che dà su Piazza della Repubblica, era la mia succursale della sala da pranzo. Mi portavo la schiscetta da casa e all’una, nelle giornate di bel tempo, mi piazzavo su una panchina per tutta l’ora di pausa che mi spettava. Mangiavo velocemente quello che mi ero preparato la sera prima, o la focaccia che mi portavo da casa (vivevo ancora a Genova e mi recavo quotidianamente a Milano), poi aprivo il libro e dopo nemmeno una pagina già dormivo. Forse mi è capitato persino di sdraiarmi sulla panchina per sfruttare al meglio il relax del contesto ma potrei confondermi con qualche altro parco. Quella volta del topo morto è stato facile localizzarlo perché l’intera area era resa impraticabile dal tanfo e la statua di Montanelli non l’avevano ancora messa. Era una pantegana gigantesca e, per fortuna, hanno chiamato gli addetti del municipio che l’hanno rimossa. Non c’è stato bisogno di dibattiti sui social. Poi ho cambiato azienda e ufficio e, qualche tempo dopo, il Parco Palestro è diventato Giardini Montanelli con tanto di statua. Probabilmente l’hanno chiamati Giardini perché, se l’avessero chiamato Parco Montanelli, prima o poi qualche blogger deficiente avrebbe storpiato il nome da Parco in Porco considerando che, ai tempi dello zoo, magari c’erano anche i maiali. O forse i maiali li hanno messi dopo. Di sicuro i topi di fogna ci sono stati sempre.

aziendalista

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Le aziende migliori le riconosci perché i dipendenti sono i primi ambasciatori del brand all’esterno e, vi assicuro, non c’è pubblicità più efficace. E non c’entra nulla il fatto che lavorare nell’azienda x ti consente di avere a prezzi stracciati i prodotto dell’azienda x. Non credo che meccanici, magazzinieri o impiegati della Ferrari abbiano una Ferrari in garage. Non dovete confondere però questo aspetto con una delle tecniche di vendita più sfruttate che quello della riduzione all’esperienza diretta e individuale di un servizio/prodotto per convincere l’acquirente che, se lo usa/lo ha comprato chi lo conosce da vicino, significa che funziona, con la variante vado nel ristorante cinese frequentato da cinesi perché sicuramente si mangia bene. Altri esempi sono gli spacci interni, o i parenti dei ferrovieri che, almeno un tempo, potevano viaggiare sui treni senza biglietto. A me capita spessissimo. La commessa di Tigotà che, per pura combinazione, usa la stessa crema abbronzante sulla quale sei indeciso e sente il bisogno di dirtelo. Il venditore di auto che, guarda un po’, ha acquistato lo stesso pacchetto assicurativo per il figlio neopatentato. E questo solo nell’ultima settimana. Una strategia che su di me fa l’effetto contrario perché l’ingenuità con cui viene utilizzata fa molta tenerezza e, se invece fosse davvero così, a conferma di un’affermazione così forte bisognerebbe portare con sé le prove.  Nessuno crede di essere così speciale al mondo da risultare protagonista di coincidenze che hanno dell’incredibile, altrimenti se fosse così passerei il tempo a fare il tour delle rivendite di gratta e vinci per diventare miliardario senza lavorare. Un momento: i tabaccai hanno i gratta e vinci gratis? Beati loro. Incontro spesso alla Coop, invece, una cassiera dell’Esselunga e, ogni volta, vorrei complimentarmi con lei per aver rotto gli schemi.

in adorazione

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Le ristrettezze di movimento imposte dal lockdown hanno paradossalmente allargato la soglia di sopportabilità televisiva. La gravità della situazione ha reso infatti necessaria la quantità di sistemi di alleggerimento dello stato d’animo e, si sa, in quanto a piallamento e normalizzazione di menti brillanti la TV non ha eguali, l’uso acritico di Internet a parte. C’è un settore dei canali del digitale terrestre che è il massimo, da questo punto di vista, perché propone format statunitensi – manco a dirlo – centrate su quel fai da te impensabile per le persone normali (o da quelle parti) come me che, stravaccate sul divano, possono osservare con interesse la gente fare cose che da questa parte dello schermo nessuno sarebbe mai in grado. Per me il top sono i meccanici che rimettono in sesto auto del passato, quelli che vanno a vivere nelle case in miniatura e la coppia di architetti marito e moglie che ristrutturano case. Passerei ore a seguire trasmissioni se non fosse per l’ossessione con cui i traduttori dei dialoghi, e di conseguenza i doppiatori, rendono in italiano le migliaia di volte in cui i protagonisti del programma dicono “I love” e “I like” con “adoro”. Trattandosi di programmi basati sullo stupore della gente di fronte ai risultati, è ovvio che manifestino in continuazione il loro apprezzamento. Il fatto è che l’inglese parlato standard non offre molte possibilità. Per cui è tutto un adoro il modo in cui hai dipinto le pareti, adoro il legno che hai scelto per il camino, adoro il rubinetto, adoro il soppalco. Ti piace la lampada? La adoro. Adoro di qui, adoro di là. Dice mia moglie che è un’usanza linguistica piuttosto in voga anche da noi. Non mi stupirebbe se fosse dovuta proprio alla sovraesposizione alle traduzioni pigre dei programmi televisivi. Mi sono messo persino a contare tutte le volte in cui lo sento, in ogni episodio, per avere una riscontro scientifico. E, quando i traduttori ci cascano, penso che si potrebbe alternare con mi piace, che bello, figata, pazzesco, che storia, che sballo, da urlo, incredibile, fantastico, super, wow. Tanto, si sa, non è un problema riordinare la costruzione di una frase con un doppiaggio non sincronizzato, quelli – per capirci – che mantengono la lingua originale in sottofondo. Adoro queste trasmissioni. Un po’ meno i dialoghi.