la cosa più triste di oggi, partecipa anche tu alla narrazione collettiva

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Mi scrive Vladimiro da Varese:

La cosa più triste di oggi l’ho letta su un post tratto dalle memorie di un partigiano del rhodense riguardo ad alcuni suoi compagni di lotta. Diceva una cosa tipo “Venanzio non lo rividi più. Fu catturato durante un rastrellamento sopra Laveno nel corso del quale riportò mortali ferite, fu ingessato, e trasportato in ospedale da dove fu prelevato da una squadra di fascisti e gettato nel Lago Maggiore”.  Ho provato a immaginare come possa essere morire in quel modo. Bloccato da un’ingessatura e lasciato affogare. Mi capita spesso di riflettere sulle vite interrotte dalle guerre e su tutte le persone che non hanno avuto una seconda possibilità. Osservo i corpi dei detenuti nei lager nazisti ammassati nelle fosse comuni e penso che nemmeno loro hanno avuto una seconda vita e la prima gli è stata strappata in quel modo. O magari l’hanno avuta ed è una possibilità che ci è data a tutti ma non ce ne rendiamo conto.

Questo invece è Luca dalla provincia di Rieti:

Non mi sopporto più. Mi guardo allo specchio e penso “Oh no, ancora qui?”. Ho solo quarantasei anni è già ne ho le tasche piene, mi chiedo che effetto mi farò quando ne avrò settanta o ottanta. Mi piacerebbe fare cambio con qualcuno, tu avevi scritto qualcosa a questo proposito. Gli scambisti di persona. Solo che c’è talmente tanta roba nel tuo blog che non riesco a trovarlo. Mi fai sapere se si trattava di una soluzione plausibile o devo arrendermi e andare in analisi?

La mail di Fabiana ha, come subject, “è tutto rovinato” e c’è un perché

Si è tutto rovinato. Tutto. Il mio telefono è rovinato, mi è caduto e lo schermo si è venato. Funziona ancora ma è venato e si è rotto anche l’attacco della cuffia. Non posso più sentire la musica in cuffia. Non mi piace quando le cose si rovinano e non è perché devo spendere per sostituirle con un modello nuovo. Allo stesso modo anche la vita si rovina. Non parlo più con Andrea, non abbiamo più un dialogo ed è una condizione che non ha nessuna via di uscita. Ci siamo innamorati ma poi tutto è finito. Si è tutto rovinato. La vita si è venata come lo schermo del mio smartphone. Funziona ma sarebbe da cambiare.

Dai miei lettori è tutto. Io invece vi rimando a un inquietante articolo de l’Internazionale che ho letto stamattina e che riguarda gli strani sintomi del Covid-19 che durano mesi.

Foto di www_slon_pics da Pixabay

a pagina 183

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Ho preso un treno, finalmente. Il mio primo treno post-pandemia. Un treno da Modena a Milano presentato come regionale veloce. C’erano i posti occupati, quelli liberi e i sedili sui quali non è possibile viaggiare per garantire una distribuzione dei passeggeri secondo le norme di sicurezza anti-contagio. La gente sul treno era proprio come la ricordavo: di tutte le razze, pendolari, turisti, giovani, vecchi, tutti presi dallo smartphone o mezzi addormentati. Ogni tanto qualche suoneria, ogni tanto qualche musichetta proveniente da una story su un social network, ogni tanto qualche annuncio di servizio che ricordava di attenersi alle regole del social distancing e che cosa si poteva fare e cosa no. Nessuno chiacchierava perché la sistemazione alternata dei posti utilizzabili non favorisce certo la conversazione. Ho immaginato così di svegliarmi dal sonno di un anno proprio su un treno da Modena a Milano e le reazioni vedendo me e tutti i passeggeri con la mascherina, uno scenario post-apocalittico che tra poco sarà sfruttato a profusione nella fiction. Forse ero il protagonista dell’episodio zero di una nuova serie. Tenetevi pronti. La cosa bella di tutto questo è che ho letto, finalmente. Durante l’intero lockdown non sono riuscito a iniziare nessuno dei numerosi libri che ero riuscito a portare a casa dalla biblioteca prima della chiusura. Il treno, invece, sotto questo aspetto non ha confronti. Ho fatto il pendolare per la maggior parte della mia vita e, se sono un forte lettore, lo devo proprio a questo. Grazie al viaggio da Modena a Milano sono arrivato a pagina 183. Sono molto felice.

darkest S01E01

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In un 2020 distopico e, a causa di un refuso immediatamente corretto, anche dispotico, l’Ikea ha immesso in commercio una versione dell’Expedit dedicata agli appassionati di musica per conservare nell’aldilà, una volta defunti, il loro corposo archivio di dischi in vinile. Sono molti i collezionisti che hanno ottenuto il benefit di poter disporre del loro tesoro anche nella cosiddetta vita eterna e la multinazionale svedese ha fiutato subito l’opportunità. Come tutti i prodotti disponibili nelle showroom di tutto il mondo, anche l’Expedit per i morti – costruito con un materiale segreto proprio come la Coca Cola – è completamente modulare e scalabile a seconda della superficie a disposizione. In un comunicato stampa è l’amministratore delegato stesso a rivelare al mercato l’intuizione, sviluppata grazie anche allo spunto di un comitato di vedove oberate dall’ingombrante lascito dei loro mariti trapassati. Bob, un giovane musicista ligure, possessore di oltre mille trentatré giri di gruppi post-punk stipati in una di queste innovative librerie già pronte per quando sarà deceduto, va in cerca di funghi e si smarrisce nei boschi dell’Appennino. Nel tentativo di ritrovare la via di casa si addentra in una grotta che lo conduce verso una misteriosa porta che si scopre essere un vero e proprio varco temporale. Bob avvisa all’istante i membri della sua band, provetti strumentisti dalla tecnica sopraffina in grado di riprodurre alla perfezione le sonorità di Cure e Killing Joke ma con il valore aggiunto della loro condizione anagrafica di adolescenti. Insieme si lanciano nel cunicolo a cui la porta dà accesso nella ricerca dell’uscita per il 1980 ma, lì sotto, non c’è campo per Wikipedia tantomeno per Google TimeMachine e, così, sbucano a Salisburgo nella seconda metà del 1700, dove rischiano la vita per il loro aspetto eccentrico fino a quando un giovane Mozart accorre in aiuto convincendo le autorità a salvarli in cambio di una loro esibizione al festival dei clavicembalisti acrobatici.

il calendario più pazzo del mondo

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Quest’anno l’incertezza su quello che accadrà di qui a poco a causa di un eventuale recrudescenza del Covid-19 rende le cose ancora più impossibili. Di base, però, non è che in condizioni normali il sistema mostrasse tutta questa efficienza e, a osservare l’organizzazione scolastica con gli occhi di un non addetto ai lavori, non era difficile ammettere nemmeno prima che ci fosse qualcosa di radicalmente sbagliato. Si potrebbe scrivere delle cose che non funzionano nella scuola fino alla fine del tempo. Ho pensato però che se la questione del reclutamento fosse risolta in tempi utili, ci sarebbe un problema in meno da fronteggiare a settembre e ci si potrebbe dedicare a cosucce come quanti bambini per classe, quali sistemi di protezione, turni si/turni no, quali spazi non scolastici allestire, tempo pieno, mensa, didattica a distanza e molto altro anziché doversi scontrare con l’annosa criticità dell’organico a disposizione. Faccio un passo indietro: tra le svariate proposte che si alternano quotidianamente circa quello che sarà il prossimo anno scolastico, non ho ancora sentito nessuno ammettere che un sistema così macchinoso è completamente inadeguato e che la prima cosa da fare è proprio cambiarne i paradigmi. Vi faccio un esempio. Nella secondaria di primo grado del mio comprensivo su una rosa di 43 docenti solo 20 sono di ruolo e confermati per il prossimo anno. Questo significa che tra l’1 e il 14 settembre, sempre che si voglia partire con il piede giusto e sempre che si riuscirà a partire, dovrà essere nominata più della metà dei docenti necessari. Stesso discorso per trasferimenti, soluzione per i posti vacanti e tutto il resto. Ma la questione riguarda anche gli studenti e le famiglie. Da noi, alla primaria, le cedole per i libri di testo arrivano costantemente in ritardo e per almeno un paio di settimane occorre farne senza. Non è certo la fine del mondo, si inizia sempre con un ripasso di quanto svolto prima. Eppure, a studiare il calendario, il tempo c’è. Mi sfugge il motivo per cui le procedure e le operazioni di pianificazione del nuovo anno scolastico non possano essere svolte a giugno e a luglio come probabilmente accade in una qualsiasi struttura di un qualunque altro settore. Sarebbe utile entrare in possesso del meccanismo che regolamenta la scansione cronologica organizzativa della scuola e portarlo almeno due mesi indietro.

la terza stagione di dark

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Ero a conoscenza che sarebbe uscita, prima o poi, la terza stagione di Dark, la serie televisiva tedesca creata da Baran bo Odar che è un gustoso compendio mitteleuropeo di tutte le serie tv americane che incrociano fantascienza con gli anni 80 con una spruzzata di “Ritorno al futuro”. Una specie di “Stranger Things” con le Birkenstock e i calzini. Non credo di spoilerare scrivendo che l’intuizione della stessa persona che incontra e interagisce con il se stesso del passato e del futuro, e resa in questo modo, sia vincente. Il problema di fondo di Dark è che passa da un piano all’altro in modo repentino e non è per nulla semplice stargli dietro. In più, il fatto che le stagioni siano uscite a un anno di distanza l’una dall’altra fa sì che, approcciando la nuova, risulti impossibile ricordare quella precedente. Questi mesi di lockdown e tutto il tempo a disposizione che ci è stato concesso potevano essere sfruttati per rivedere le prime due stagioni, in attesa della terza. Io ci avevo pensato e mi ero pure ripromesso di mettermi davanti a Netflix con carta e penna per segnarmi tutti i passaggi da un tempo all’altro, i personaggi e tutto il resto. Occorre ammettere però che seguire trasmissioni così cupe e ansiogene in momenti di pandemia tappati in casa non è proprio il massimo. Alla fine ho talmente rimandato che l’altra sera, seguendo la prima puntata della nuova stagione, non solo non ci ho capito nulla ma mi sono pure addormentato verso il finale, con mia figlia che mi prendeva giustamente a gomitate per farmi stare sveglio. Ho deciso quindi di riprendere “Dark” da capo perché, secondo me, ne vale la pena. L’unica paura che ho è che, a forza di avere lo stesso personaggio prima, dopo e durante, alla fine si scoprirà che ce n’è solo uno che si muove come un ossesso per salvare l’umanità e che quindi la produzione avrebbe potuto risparmiare sul cast assoldando un buon truccatore e niente più. Certo, far le riprese sarebbe stato uno sbattimento, ma io ci avrei provato.

insoddisfatta della sua vita la riscrive da capo: leggi la storia che ha commosso il web

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In prima battuta l’idea era quella di mettersi a rivivere la vita a ritroso, partendo cioè dal giorno del cinquantesimo compleanno e andando all’indietro sino alla nascita, omettendo – per ovvie ragioni narrative – tutta la parte al buio che va dal parto all’insù fino al concepimento. Ma, Benjamin Button e il suo curioso caso a parte, il progetto editoriale risultava di scarso appeal commerciale. Fino a quando, un giorno, nella sua mente ha preso forma la risposta definitiva. Mettere in ibernazione il resto della sua esistenza per riscrivere tutto da capo, riscriverlo meglio, descrivere tutte le migliori opportunità, dilungarsi il più possibile per dilatare al massimo ogni respiro, curare i dialoghi, mettere nero su bianco rapporti e dinamiche interpersonali, poter saltare al capitolo successivo per spoilerare la trama che lo divide da quello precedente e, eventualmente, prendere gli adeguati provvedimenti. Interrompere i dialoghi scomodi con qualche espediente da scrittura creativa americana. Omettere i passaggi noiosi, le esperienze più difficili da raccontare – e quindi da vivere – e gli aneddoti più dolorosi per darli per scontato facendovi riferimento al passato, lasciando solo qualche riga vuota e considerandoli come cosa fatta e finita. Adottare i caporali al posto delle virgolette come convenzione sociale per definire i requisiti di una conversazione. Fare una correzione bozze doppia, tripla e persino quadrupla per non sbagliare nemmeno una virgola, nemmeno un refuso o una sbavatura. Non commettere nemmeno un errore. Ma ci pensate? Che vita perfetta, sarebbe. Il potere della narrativa è sorprendente.

quanto prendi

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Al desktop della collega Assunta ho scattato persino uno screenshot che, se l’avessi divulgato sui social, avrebbe sicuramente fruttato il pieno di like. Ero connesso al suo pc da casa con Teamviewer per un intervento di routine, il solito problema del driver del microfono che hanno alcuni notebook Lenovo. Quando mi si è presentato il desktop mi ha assalito la stessa sensazione che avevo provato quella volta in cui ho spalancato la porta di accesso alla camera da letto di un parente affetto da una di quelle malattie di accumulo ossessivo compulsivo sulle quali gli americani fanno i programmi trash che poi rivendono alle tv che vediamo sul digitale terrestre. Il desktop di Assunta era completamente sommerso da icone di file di tutti i tipi.

Le ho chiesto come facesse a trovare il materiale in quella discarica digitale e da allora non mi stupisco più di nulla. La posizione di default per i file che scarica dal web è proprio il desktop, e quando le occorre aprire qualcosa visualizza la cronologia dei download di Chrome ed effettua la ricerca del materiale che le serve. Ho trovato questa procedura ai limiti della follia ma, si sa, sul pc ognuno è libero di comportarsi come cazzo gli pare.

La collega Assunta a settembre andrà in pensione. Nonostante questo ha dato fondo ai rimasugli della sua carta del docente per un portatile nuovo di zecca. Pur non conoscendoci nemmeno, se non per quell’intervento di help desk agli albori del lockdown, mi ha inviato un messaggio Whatsapp per chiedermi se potessi aiutarla nella configurazione del nuovo dispositivo. Stamattina ero a scuola per coprire le LIM con i teli in previsione di una serie di lavori sui caloriferi, così mi sono offerto di prestarle supporto. Non lo aveva nemmeno estratto dall’imballaggio, quindi sono partito proprio da capo, quando c’è Cortana che cerca di fare la simpatica ma sa perfettamente che, la prima cosa che farò, sarà installare Chrome, mettere Edge in cantina e dire no grazie, non mi serve One Drive.

Assunta non si ricordava la password dell’account di Windows e ha digitato il codice di recupero premendo un tasto per volta con l’indice della mano destra coperto dal guanto. Non si era nemmeno accorta di aver acquistato un modello privo di lettore DVD. Si è presentata con il cd di installazione della sua stampante. Abbiamo rimediato scaricando il driver dal web e non si capacitava del fatto che i DVD non li usa più nessuno se non la scuola italiana. Le ho installato e configurato anche Office 2016 con tanto di licenza scoperta grattuggiando l’inchiostro con la chiave, come si fa con il gratta e vinci.

Alla fine, come sempre, tutto funzionava alla perfezione. Le ho spento il PC e Assunta ha estratto il borsellino. “Quanto ti devo?”, mi ha chiesto. Avevamo la mascherina entrambi e quindi pensavo stesse scherzando. Poi ha insistito e allora ho capito che faceva sul serio. Non so con chi abbia a che fare nel quotidiano, la professoressa Assunta che a settembre andrà in pensione, né se trasmetto l’idea di uno che arrotonda nel tempo libero facendo il tecnico informatico per utenti che scrivono usando solo l’indice della mano destra. Le ho detto di no, ci mancherebbe, mica voglio essere pagato. “Ma hai usato il tuo tempo”, mi ha incalzato. Si sbaglia: ero a scuola, in una giornata lavorativa. Ma anche se fosse stato ferragosto avrei provato lo stesso imbarazzo. Per fortuna che, in Italia, il caffè salva sempre la situazione. “Mi offri un caffè la prossima volta”, le ho risposto. Ma a settembre la professoressa Assunta andrà in pensione e la mia consulenza informatica potrà tornare, a tutti gli effetti, nella categoria dei favori che si fanno perché si fanno e basta, e non c’è altro da dire.

donne che sanno stare un passo indietro anche nello spazio

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In questi giorni di grandi dibattiti sul sessismo, tipici di un momento storico caratterizzato dal sessismo, mi è capitata sottomano la celebre “Placca dei Pioneer”, che, come recita Wikipedia, è una delle

effigie presente sulle placche commemorative in alluminio anodizzato con oro, che furono posizionate a bordo delle sonde Pioneer 10 e 11 rispettivamente nel 1972 e nel 1973. Nell’eventualità che le due sonde venissero intercettate da esseri extraterrestri, le placche mostrano le immagini di un uomo e una donna nudi attorno alle quali si trovano vari simboli che hanno il fine di fornire informazioni sull’origine delle sonde.

Il fatto è che, a guardarle bene, l’uomo è in primo piano rispetto alla donna e, per di più, è lui a dare il benvenuto agli extraterrestri alzando il braccio in segno di saluto. Probabilmente chi le ha disegnate ha pensato che l’uomo dovesse stare davanti perché non si sa mai, magari gli alieni fraintendono il gesto e con la forza di un’arma che noi umani non possiamo nemmeno immaginare prima disintegrano il maschio e poi si occupano della femmina. In realtà mi sembra più la riproduzione di un modello culturale rodato, quello di presentatore e valletta, per intenderci. Mike Buongiorno che dice “allegria!” al pubblico a inizio Rischiatutto e Sabina Ciuffini sullo sfondo ad aspettare che qualcuno l’autorizzi a parlare. Che poi, in realtà, sono sempre le mogli a chiedere informazioni quando le coppie sono in viaggio perché l’orgoglio tipico degli uomini ci impedisce di ammettere che si è smarrita la strada, anche nello spazio. Cari marziani, date informazioni alla donna disegnata e fateli tornare indietro, così ci sarà data una seconda occasione per non far capire all’universo che siamo profondamente maschilisti.

ristorante etnico

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C’era una bella consuetudine, alle feste della classe di mia figlia alla primaria, un’usanza che non si è mai più verificata negli ordini scolastici successivi. Ogni famiglia portava qualcosa, una pietanza tipica del paese o della regione italiana di origine. Si tratta di convenzioni possibili solo quando i bambini sono più piccoli perché poi, alla secondaria di primo o secondo grado, le feste con genitori e figli insieme non si fanno più ma se si facessero i figli si vergognerebbero delle loro radici come solo i ragazzini di quell’età sanno fare. Fahim veniva dal Pakistan, e la cosa curiosa era che abitava distante anche da scuola, sembrava cioè che la famiglia si fosse trasferita dal paese di origine ma non si fosse fermata sufficientemente a ridosso dell’istruzione del loro figlio. In più non avevano un’auto a disposizione e il bambino era piuttosto cagionevole di salute. Per tutto questo insieme di concause bastava un po’ di pioggia o qualche grado in meno di temperatura o un po’ di vento che Fahim veniva lasciato a casa. I genitori, però, alle feste di classe cucinavano e portavano sempre cose buonissime. Mentre tutti si affollavano sulle solite specialità del sud Italia e la menavano con cose tipo la nduja, io mi avventavo su quel tripudio di spezie e riso basmati. Adoravo il loro cibo, e tra le delizie del Pakistan e quelle che preparava la mamma di un altro bambino etiope, altrettanto ottime, facevo il pieno di cibi etnici. A quelle feste mia moglie ed io ci trovavamo però in difficoltà perché non sapevamo mai che specialità condividere. Forse in un’occasione in cui c’eravamo completamente dimenticati abbiamo addirittura comprato un vassoio di salatini alla Coop di fronte alla scuola. Un’altra volta abbiamo fatto una torta salata di verdura dall’aspetto così poco gradevole che è rimasta integra e che, dovendo riportare a casa con la teglia, abbiamo conservato in frigo e consumato a pranzo, il giorno successivo, vergognandoci un po’. Alle feste della classe di mia figlia partecipavano anche le maestre. Arrivo quindi al punto. In prima quest’anno ho avuto un cinese, una senegalese, un rumeno, una ecuadoriana e due egiziane. L’emergenza Covid-19 ci ha tolto la festa di fine anno e il piacere della scoperta che, l’usanza di cucinare piatti del paese di origine, sia tutt’ora in uso in ogni scuola primaria italiana. Ma ho grandi aspettative per la festa della seconda.

Deeper – Auto Pain

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[questo articolo è uscito su Loudd.it]

Giunta al secondo album, la band di Chicago mescola in un nervoso concept le ispirazioni de “Il mondo nuovo” di Huxley con la stessa matrice post-punk del primo disco, per un risultato convincente sotto tutti i punti di vista.

“Il mondo nuovo” è uno di quei romanzi di cui abbiamo aspettato per anni un adattamento per una serie Netflix o Amazon. La distopia è pane quotidiano per i binge-watcher, pensate al successo di trasposizioni di storie come “La svastica sul sole” o “Il racconto dell’ancella”. Ma mentre è prevista per metà luglio la prima puntata di “Brave New World” su SkyOne in UK, a noi che non abbiamo sottoscritto l’abbonamento tocca accontentarci dell’ispirazione che il più celebre libro di Huxley può dare alla musica. E così, dopo gli omaggi degli Iron Maiden e, dalle nostre parti, di “Fetus” di Battiato, è la volta dei Deeper, formazione di Chicago giunta al secondo album dal titolo “Auto-Pain”.

La linea del nuovo disco è molto coerente con l’album omonimo d’esordio, un nervosissimo e visionario post-punk reso con suoni elettrici e qualche incursione nei sintetizzatori e nei tappeti di tastiere. Sono le chitarre a suonare loop, frasi e riff con suoni puliti e sfuggenti.

Per usare i soliti paragoni con i padri della new wave, siamo dalle parti dei Gang of Four e dei Wire misto a un pizzico della geometria dei Talking Heads, con un timbro vocale che in alcuni passaggi ricorda quello di Robert Smith. Non lasciatevi però ingannare dalle similitudini, chi scrive di musica le sciorina un po’ per farsi capire ma, soprattutto, per tirarsela con la sua inutile cultura rock. Ogni band ha una storia sofferta a sé e merita di essere ascoltata. I Deeper, a cavallo tra i due dischi, hanno perso il chitarrista Mike Clawson. Il genere che suonano incarna perfettamente questo disagio e non c’è sostanza euforizzante più della loro arte, altro che la soma che Huxley spaccia nel suo best seller.

Il risultato è un disco ricco di spunti, uno di quei long playing in cui, a ogni canzone, si ha l’impressione di voltare pagina in una raccolta di racconti, più che in un romanzo. “Esoteric” e “Run” ci danno il benvenuto nel mondo dei Deeper, due brani da cui traspare la volontà di mettersi in mostra con tutte le stranezze di cui gli artisti sono capaci, qui però rilasciate con la giusta misura e un temperamento molto controllato.

Uno stile che però si spoglia di tutto questo lecito rigore già con il terzo brano, “This Heat”, una canzone che sembra uscita dalla b-side di un singolo tratto da “Three Imaginary Boys”. “Willing” è palesemente no-wave, mentre “Lake Song” vira il registro dell’album verso i toni dark. “Spray Pint” e “4U” risaltano per quel modo isterico di suonare la chitarra elettrica con brevi strappi ripetuti a loop, stile che piace molto ai seguaci del post-punk e fortemente di moda tra gli strumentisti a sei corde che non se la sentono di essere scambiati per dei rockettari qualsiasi.

Con “V.M.C” ci spostiamo al 1985 di “The Head On The Door” ed “Helena Flowers” passerà alla storia per la trovata di interrompere il brano a metà con un applauso da sala da concerto. Seguono la straordinaria “The Knife” e, per chiudere, l’ipnotica “Warm”.

Confermando il posizionamento dichiarato con il primo disco, i Deeper dimostrano di essere una band dalla forte personalità. “Auto-Pain” non ha sbavature, è divertente e intrigante allo stesso tempo. Serio e faceto, riflessivo e disordinato, non c’è dubbio che dentro a questo secondo disco ci sia della stoffa e che risulti frutto di un gruppo pronto a fare il salto di qualità verso qualcosa di ancora più convincente.