città di s. città di m.

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Mi piacciono le storie nelle quali i luoghi in cui si svolgono sono i veri protagonisti e i protagonisti veri, nel senso delle persone inventate o descritte, appartengono ai luoghi e somigliano ai luoghi tanto che non potrebbero camminare o anche innamorarsi altrove. Di conseguenza le storie non potrebbero essere ambientate diversamente. Ho vissuto in più luoghi e mi sono affezionato ai luoghi in cui ho vissuto con intensità diversa. È difficile dire se fosse superiore o inferiore, l’intensità. Ogni città ha avuto un impatto a sé e complementare all’età che avevo quando vi ho abitato. Tutta questa confusione fa sì che non ricordi i percorsi, le scorciatoie, l’essenza dei quartieri e la loro composizione sociale. Nemmeno se ci sono negozi di dischi. E, soprattutto, non riuscirei ad ambientare un bel niente da nessuna parte. Tutto questo perché l’ultima volta che ho visto S. eravamo proprio nella città di S., una vera città di m., ma non saprei dire il nome della via in cui l’ho vista. Avrei potuto proporle di bere un bianco con le bollicine insieme ma chissà se da quelle parti, che non so nemmeno quali parti sono, c’è almeno un bar o un altro posto in grado di favorire le bollicine tra le persone. Perché nella città si S., una vera città di m., è tutt’altro che scontato che ci sia un bar nei pressi di qualunque posto.

Immagine di Edward Hopperhttp://www.artic.edu/aic/collections/artwork/111628, Pubblico dominio, Collegamento

boh

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Non si sa niente. Non si sa quando ricomincerà e, se ricomincerà, in che modo ricomincerà. Quanti saremo, dove saremo, in che modo saremo disposti, a quale distanza. Non sappiamo se saremo tutti insieme o metà in classe e metà a casa che ci seguono con il computer. Addirittura, nel caso, se ci seguiranno in streaming o in videoconferenza. Non sappiamo se faremo dei turni e, se li organizzeremo, quali criteri dovremo adottare. Ci dovremo basare su livelli di competenze oppure mescoleremo quelli più indietro – diciamo così – con quelli più avanti? Non si sa chi verrà in classe la mattina e chi al pomeriggio e che cosa faranno gli alunni esclusi dal turno in classe mentre i compagni sono in classe. Poi non si sa se torneremo definitivamente oppure se ci sarà un’altra diaspora preventiva per evitare il picco influenzale e, nel caso, se questa nuova serrata sarà a ottobre, a novembre, a dicembre, a gennaio, a febbraio oppure di nuovo a marzo. Non si sa se manterremo lo stesso assetto scolastico, se ci saranno postazioni nuove e singole, piccoli gusci che proteggeranno i bambini dai bambini e terranno fuori il bello della vita insieme. Non si sa se la mensa sarà in mensa o se i pasti si consumeranno in classe con i collaboratori che li distribuiscono al piano, proprio come negli ospedali. C’è chi propone che i pasti è meglio portarseli da casa. Non si sa se misurare la febbre all’ingresso metterà in crisi i genitori che portano i bambini a scuola anche con trentotto di febbre perché, a casa, non sanno come organizzarsi e, nel caso, come si organizzeranno non potendoli lasciarli a scuola. Serviranno dei libri o basterà Internet? E le attività manuali? E motoria? Non si sa se i docenti, in questi mesi, stanno ripensando metodo, didattica, prove pratiche, organizzazione delle lezioni in funzione del fatto che non si sa niente. Non si sa niente e dobbiamo essere pronti a tutto.

School Vectors by Vecteezy

un improvviso senso di libertà

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Un cane da canile rieducato alla vita domestico/cittadina, ma con gloriosi e purtroppo non documentabili precedenti da assistente all’attività venatoria outdoor, percepisce l’odore di un suino selvaggio ottimo con la polenta e, avvistata una via di fuga dalla porta/finestra di una casa vacanze in collina, si lancia nella macchia sottostante e non si trova più. Nelle storie di fantasia il protagonista ha sempre un amico come espediente narrativo a cui raccontare i segreti, le passioni, i progetti, i fardelli del passato e gli episodi come questi che potrebbero, rielaborati con la dovuta tecnica del mestiere, trasformarsi in romanzi best-seller. Nella realtà invece le conversazioni si limitano a essere spesso veloci e silenziosi soliloqui, anche se a onor del vero con la mascherina anti-covid calata sul viso nessuno si accorge quando parli da solo e poni delle domande a un interlocutore immaginario. Anzi, corri il rischio di fare la figura di fascinoso intellettuale.

Questo dalla parte degli umani. Dalla parte degli animali, invece, un cucciolo di pipistrello, probabilmente un pulcino di pipistrello, o come cazzo si chiamano i pipistrelli da piccoli, non sa volare e osservato dall’alto mentre striscia sulle piastrelle ricorda uno di quei marchingegni robot telecomandati impiegati nella tattica bellica come armi intelligenti di distruzione di massa dalle super-potenze mondiali a impareggiabile livello tecnologico. Il protagonista, imbeccato dalla moglie nel panico, si arma di scopa e paletta – l’imberbe chirottero non è stato ancora svezzato ai misteri del volo – per agevolargli una rampa di lancio più adeguata ma il pipistrellino si volta, spiega le ali come dispositivo di protezione degno di un Actarus qualunque e emette un verso sproporzionato per le sue fattezze ricordando i più riusciti episodi della letteratura horror. Poi, compresa la portata dello sforzo gratuito in odor di salvezza, fa leva sul supporto estemporaneo precipitando come un aeroplanino di carta fino a individuare il punto di raccolta più prossimo per trovare un riparo più alla sua portata.

Il testimone di questi improvvisi sensi di libertà – la citazione è tratta da una celebre canzone dei New Order – riconduce le più oscure interpretazioni etologiche alla recente esperienza onirica. La fresca brezza notturna, l’avvolgente abbraccio delle lenzuola, l’eco delle cicale, il primato delle alture sulla valle sottostante – una delle più antiche strategie di difesa dai malintenzionati – fino allo scampato pericolo di una manifestazione di ostilità nella natura. Libertà è pensare che c’è ancora spazio, ancora tempo, ancora vita.

Nadine Shah – Kitchen Sink

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La pressione sociale e le aspettative sul ruolo della donna alimentano la connotazione di uno stereotipo femminile difficile da sradicare nell’opinione comune. Non a caso, la donna che non sa stare al proprio posto – siamo contemporanei di gente del calibro di Pillon, non dimentichiamocelo – si complica la vita, senza contare i casi in cui la vita le viene sottratta a suon di ceffoni del marito/compagno/fidanzato prima e dai ceffoni dei media (che parteggiano spesso per il marito/compagno/fidanzato) dopo. Anche se qui parliamo di musica, non si è mai fuori luogo ricordando che lo scorso anno, in Italia, e non su Marte, sono state uccise 95 donne dal partner o dall’ex, quasi una ogni tre giorni.

Spero di non essere andato fuori tema a proposito di “Kitchen Sink”, il nuovo long playing di Nadine Shah. Non si parla espressamente di femminicidio ma è un disco che depotenzia la prospettiva maschile e ne mette in discussione la leadership trattando temi che conosciamo bene ma da una prospettiva femminile e solo con la poesia. Il fatto è che, in una relazione, è proprio questo il punto di non ritorno, ciò che accende la follia omicida del’uomo.

“Kitchen Sink” offre la possibilità di riflettere su una società che pretende cose assurde. Le prime due che mi vengono in mente? La donna acquisisce il cognome di un uomo per diventarne proprietà o deve fare dei figli per raggiungere l’obiettivo per cui è stata progettata. Oggi la questione femminile è di gran lunga la più urgente. E il fatto che il potere, l’economia e la religione siano maschili è un problema, con l’aggravante che la conduzione del sistema lascia fortemente a desiderare e, nonostante ciò, non sembra sussistere abbastanza margine per un cambiamento.

Dare il più possibile spazio a una voce critica sullo stato delle cose potrebbe sembrare, a questo punto, un contentino per risolvere il mio senso di colpa di appartenere al genere maschile. Invece non è così, ve lo assicuro, e per dimostrarlo facciamo finta che questa recensione cominci da qui. L’attenzione che “Kitchen Sink” merita non c’entra nulla con una strategia di quote rosa. Il nuovo album di Nadine Shah è a dir poco straordinario, e ora vengo al punto.

C’è una imprescindibile e a tratti radicale coerenza di fondo nella discografia di Nadine Shah. Il suo stile è sempre raffinatissimo senza compromessi, un’impressione restituita da fattori che, giunta al quarto album, ormai possiamo considerare una costante della sua musica. Una vocalità originalissima grazie alla quale l’artista inglese sfrutta potenzialità tecniche di matrice jazz con un timbro di una gelida cupezza degna di Siouxsie. Parole taglienti come schegge di bombe compositive esplose in prossimità delle coscienze degli ascoltatori. Timbriche che plasmano il meglio del meglio della musica in un genere tutto suo, per confezionare gusci perfettamente plasmati intorno al suo songwriting.

Sono passati appena cinque anni da quando me ne sono innamorato, studiandola sul palcoscenico nel video di “Fool”, stretta nel suo post-punk a cantare il suo disprezzo verso un deludente essere umano tutto preso a comporre rime scopiazzando Nick Cave e Jack Kerouac. Tre da quando, invece, Nadine Shah spediva cartoline da destinazioni improbabili per trascorrere vacanze molto poco ordinarie. Paesi meno fortunati del nostro e del suo da cui scappano, rischiando la vita, persone meno fortunate di me e di voi, protagoniste di storie dal finale tristemente ingombrante.

Oggi Nadine Shah è una donna adulta in un man’s man’s world che non smette di dare importanza alla sua età e in cui si presume che, oltre la puericultura e il cucchiaio d’argento al servizio della famiglia, non ci siano vie alternative alla realizzazione individuale femminile. Non siamo molto cambiati dai tempi rappresentati dall’estetica vintage dell’artwork di “Kitchen Sink”, un rimando a un periodo in cui l’unica stanza dei bottoni a cui una donna poteva aspirare era quella stipata di elettrodomestici e robot da cucina.

“Kitchen Sink” è un compendio di storie, la sua e quelle di moltissime altre donne con esperienze differenti ma dalla stessa matrice sessista. Un album musicalmente ineccepibile e a tratti volutamente ostico, surreale e grottesco. Per dire, appena è partito il tema di “Club Cougar” con il sax e quella specie di tastierona/sintetizzatore all’unisono e il ritmo alla “Slave to Love” (per dare qualche coordinata di riferimento, siamo alla traccia numero uno) al primo ascolto ho pensato alla faccia che farebbe Nadine Shah se qualcuno, per scherzo, si cimentasse a sostituire quella melodia con una sezione di archi, trasformando la canzone in un brano un po’ sexy-pop-retro di una Lana Del Rey qualunque. L’intento respingente e melodrammatico, tanto quanto il testo, è perfettamente riuscito.

E nell’insieme “Kitchen Sink” riprende e completa la varietà di stili di “Holiday Destination” attraverso composizioni e arrangiamenti eterogenei e completamente al servizio dei testi ospitati: il ritmo spezzato di “Ladies For Babies (Goats For Love)”, pronto ad accendere l’elettricità nel ritornello, l’ostentata cadenza di “Buckfast”, i vuoti di “DillyDally” contrapposti alla suadente completezza ritmica di “Trad” (la traccia migliore dell’album), gli ammiccamenti blues della titletrack, i voli spinti dal vento alt-folk di “Kite”, l’ebbrezza dark di “Ukrainian Wine”, la pungente quanto scarna “Wasp Nest”, per finire con la sguaiata ironia di “Walk” e la conturbante “Prayer Mat”, perfetta nel suo compito di chiudere l’album.

Il fatto è che “Kitchen Sink” è un disco tortuoso dotato di una personalità di cui è difficile essere all’altezza e impossibile da spiegare con parole semplici. E, da uomo, parlare della musica di Nadine Shah può risultare un’impresa inaccessibile. La complessità delle cose che pensa, scrive e suona può mettere in soggezione, far paura e aprire una falla nella radicata consapevolezza del ruolo dominante. Ma, come assicura lei stessa, nell’album non c’è solo crudeltà. Seguendola sui social network si ha l’impressione che di persona sia meno intransigente delle sue canzoni o, per lo meno, conceda una seconda possibilità. E, se così è, ti prego Nadine, dimentica tutto quello che ho scritto qui.

festa in maschera

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L’uso della mascherina rende gli occhi più espressivi e se non capite quando gli sconosciuti vi parlano il problema è vostro perché siete vecchi e sordi. Ci sono benefici che mai avremmo immaginato quando questa consuetudine protettiva ci è stata imposta per ovvie ragioni di salvarci il culo. Se avete le orecchie sporgenti il vostro difetto non si nota perché l’elastico le rende un po’ a sventola a tutti. Così siamo tutti nella stessa barca è non c’è più nessuno che può prendervi in giro. Fate solo attenzione quando la togliete. Se le orecchie restano tali l’effetto sarà come quando sfilate il reggiseno imbottito e il vostro partner non capisce come sia potuto accadere di aver equivocato un seno così prorompente. Il mio amico Fabio, che incontra le donne conosciute su Tinder, non ha problemi a sporgere reclamo quando risultano ampiamente differenti dalle foto del profilo scattate quindici chili prima. Io non ci riuscirei perché ho paura di ferire le persone. La mascherina poi vi copre dal naso al mento e se avete nasi grossi, denti storti, labbra sottili e mento sporgente questo è il vostro momento. Mai come in questo periodo di emergenza siamo tenuti a dire tutto con gli occhi, e se siete capaci a farvi capire bene potete esser fraintesi per persone da un certo fascino. L’importante è saper quando mollare il colpo, in tempo prima che il flirt si trasformi in qualcosa di più consistente e vi sia chiesto di smascherarvi. E questo è l’altra cosa pazzesca: tutti i modi di dire basati sulla maschera fanno riderissimo. Gettare la maschera, ballo in maschera, ti conosco mascherina, la maschera di Zorro, cos’è questa mascherata, The Mask, la maschera al cinema e al teatro anche se cinema e teatri sono chiusi e le maschere sono in cassa integrazione. Tutto questo per cercare di trovare qualcosa di bello mentre ho questa specie di lenzuolo sulla faccia che mi appanna gli occhiali e mi fa respirare solo il peggio dei miei scarti di anidride carbonica. Per fortuna mi sono lavato i denti.

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mezza estate

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Dopo tanto tempo dedicato a fare la stessa cosa si corre il rischio di ripetersi. Dopo tanto tempo dedicato a fare la stessa cosa si corre il rischio di ripetersi. Ci riflettevo qualche giorno fa pensando a Ennio Morricone e ai grandi artisti che, paladini di uno stile unico, ogni volta in cui si sono espressi sono stati in grado di dare vita a qualcosa di nuovo e mai visto e hanno fatto centro. Una fotografia, un libro, un quadro, la musica per un film. Ed è proprio qui quello che differenzia una persona speciale da una mezza calzetta. La frustrazione più grande per un musicista è proprio quella di accorgersi di comporre sempre lo stesso pezzo. Alcuni dicono si tratti di una questione di tecnica: più sei allenato, più riesci a dar voce alla tua ispirazione mettendo le mani nei posti giusti dello strumento che pratichi. Anzi, spesso la tecnica si comporta come quei composti che servono a tappare i buchi, rimarginare le ferite, tenere insieme cose che non c’entrano granché. Ti manca l’accordo? Sei hai studiato armonia sai dove andare a parare. Se hai sprecato il tempo con il Subbuteo anziché preparare gli esami al conservatorio metti quello che sei abituato a mettere ogni volta che provi a creare una canzone nuova e alla fine spegni l’ampli, deluso da te stesso dopo l’ennesima hit naufragata nel mare delle banalità.

Per non parlare della scrittura. Se ci fosse un sistema per lanciare query sullo stesso argomento – lasciate perdere tag e keywords – sono certo che in certi pluridecennali blog si potrebbero razionalizzare il numero di post in non più di una ventina. Faccio per dire, eh, e non pensiate stia parlando necessariamente di me.

Ma qui entra in gioco anche la memoria. Capita a tutti di non ricordarsi di aver scritto una cosa e di riscriverla successivamente. Capita a tutti di non ricordarsi di aver scritto una cosa e di riscriverla successivamente. In realtà volevo solo dire che noi insegnanti milanesi siamo a casa da venerdì 21 febbraio e una persona normale, in tutto questo tempo, sarebbe riuscita a dipingere la cappella sistina, scrivere “Pastorale americana”, registrare almeno nove sinfonie per orchestra, scolpire una statua di Montanelli, piazzarla nell’omonimo parco e farsela imbrattare, trovare il metodo più efficace per aumentare il traffico sul proprio blog. Se solo ci fossimo messi d’impegno. Invece ci siamo trovati catapultati nel mezzo dell’estate – avete capito il motivo del titolo – senza aver combinato un cazzo di tutto questo, in alcuni casi con qualche chilo in più.

i trent’anni di Violator

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[questo articolo è uscito su Loudd.it]

La storia dei Depeche Mode è costellata di pietre miliari, momenti di svolta, azioni di rottura e vere e proprie resurrezioni. Possiamo elencare, a memoria, il forfait di Vince Clark, l’ingresso di Alan Wilder, l’introduzione dell’Emulator che affiancò nel loro sound il campionamento digitale ai synth, il momento buio di Dave Gahan, l’uscita di Alan Wilder, il riconoscimento mondiale nel nuovo secolo come una delle principali icone di quello precedente. Alti e (a dire il vero pochi) bassi che collocano la band di Basildon nell’olimpo della musica che bene o male piace a tutti, in tutte le generazioni. Fate una prova: salite in macchina, accendete la radio e, lungo un viaggio di un’oretta, passando da una stazione all’altra, state pur certi che almeno una canzone degli U2, una dei Queen e una dei Depeche Mode da qualche parte la sentirete.

Uno dei fattori chiave di questo successo va ricondotto principalmente a due canzoni dei Depeche Mode, “Personal Jesus” ed “Enjoy the Silence”, rispettivamente traccia 3 e traccia 6 di “Violator”, disco di cui quest’anno ricorre il trentennale. E il fatto che, “Just Can’t Get Enough” a parte, il più noto gruppo di synth-pop sia annoverato tra i padri fondatori della musica per le masse grazie a due canzoni costruite su riff di chitarra, è paradossale. Uno smacco senza precedenti per i seguaci dell’elettronica.

D’altronde il vero punto di non ritorno dei Depeche Mode è stato quando qualcuno ha messo in mano a Martin Gore quella cazzo di chitarra che, da allora, imbraccia in studio e live con orgoglio. A onor del vero, e a sua discolpa, ci tocca ammettere che Martin Gore la suona come suonerebbe un synth, ma non mi è chiaro se tutta questa indulgenza nei suoi confronti derivi dal fatto che considerare i Depeche Mode dalla nostra parte, quella dei suprematisti tastieristi, ci fa più che comodo e nessuno ha voglia di cedere al rock un pezzo da novanta come loro. A chi dovremmo lasciare il posto sul gradino più alto del podio? Ai Kraftwerk e i loro notebook sul palco che li fanno sembrare quattro (anzi tre, purtroppo) impiegati in ufficio alle prese con le tabelle pivot di Excel? Ai New Order con i loro ostinati eccessi di cassa in quattro degni di un cocoricò qualunque? O a quegli inutili poppettari melensi dei Pet Shop Boys e al loro discutibile inno dei frequentatori del Burghy di Piazza San Babila?

E poi non è da tutti confezionare un album con due brani come “Personal Jesus” e “Enjoy the Silence”. Due composizioni che, per la loro essenza guitar-based, colpiscono immediatamente perché così accattivanti e azzeccate da poter essere eseguite da qualunque formazione priva di tastiere, sempre che le formazioni prive di tastiere possano avere una dignità.

Anzi, sono così belle proprio perché l’elettronica di cui sono farcite è concettualmente marginale, in secondo piano rispetto al nucleo blues-gospel della prima e al temperamento da ballad rock della seconda. Non a caso, “Personal Jesus” la ritroveremo re-interpretata magistralmente da Johnny Cash, uno di quegli esperimenti in cui la copia supera di gran lunga, in quanto a bellezza, l’originale. Oppure provate a digitare, come chiave di ricerca, “Enjoy The Silence” + cover su Youtube e prendetevi almeno una settimana di ferie per ascoltarle tutte. Almeno una versione per ogni genere, a partire dal revamping nu-metal di Mike Shinoda. Ci sono stati anche tributi ufficiali con brani dei Depeche Mode eseguiti da band tradizionali, ed “Enjoy The Silence” – pensate alla versione dei Failure presente nella compilation “For The Masses” con gente del calibro degli Smashing Pumpkins – ha una perfezione compositiva da risultare oggettivamente più di una spanna sopra sempre, in qualunque contesto.

Con “Violator” i Depeche Mode furono anche precursori delle più moderne tecniche di marketing non convenzionale. Il lancio di “Personal Jesus” fu preceduto da una campagna di teasing con manifesti pubblicitari completamente anonimi, posizionati nelle città del Regno Unito, che esortavano i lettori a chiamare il proprio Personal Jesus. Chi ci cascava, al posto della voce del salvatore poteva ascoltare – a sua insaputa e in anteprima – il nuovo singolo della band.

Se ascoltate integralmente “Violator” – cosa che non ho dubbi abbiate fatto milioni di volte dal 1990 ad oggi – vi accorgerete però che un giudizio basato solo ed esclusivamente sulle due super hit di cui sopra è riduttivo e fuorviante. Come gli altri album della band, la tracklist è saggiamente spartita tra le voci dei due cantanti, da sempre le due anime dei Depeche. In quota Gahan, che con il suo timbro graffiante interpreta il ruolo del master, oltre ai due singoli ci sono la splendida “World in My Eyes” (standard depechemodiano fino nel midollo, con una forte vena di ricerca in formule innovative, una sorta di antesignano delle ritmiche dubstep dei decenni successivi), la seducente “Halo”, un vero electronic/rock-blues come “The Policy of Truth” e la ruvida “Clean”, con quella linea di basso all’inizio che, fino a quando non parte la batteria, sembra un campionamento di “One of These Days” dei Pink Floyd.

I palati più romantici possono invece sentirsi soddisfatti grazie all’ugola eterea (e servant) di Martin Gore, in “Violator” impegnato in “Sweetest Perfection”, la splendida “Waiting For The Night” e l’ispirata “Blue Dress”, una sfumatura pantone di outfit diversa rispetto a “Dressed In Black” ma basata sullo stesso tempo in sei ottavi.

L’ascolto di “Violator” nella sua interezza è una delle tante prove che, nel 1990, esattamente trent’anni fa, gli ottanta ormai erano fuori tempo massimo e i Depeche Mode, che già si erano liberati del synth-pop dall’album precedente e dai bagni di folla americana di “101”, puntavano a ben altri obiettivi che tenere un multipista a bobine sul palco e a giocare al noise industriale percuotendo in playback lamiere metalliche vestiti in pelle nera.

“Violator” risulta, ad oggi, il disco più venduto dalla multinazionale di Andrew Fletcher, con oltre 15 milioni di copie in tutto il mondo e con 3,9 milioni solo negli USA. Presto, oltre al tradimento di Martin Gore con la sei corde, il gruppo opterà addirittura per un batterista vero sul palco, infliggendo la pugnalata definitiva ai filologi della materia, cresciuti con una sensibilità da “Get The Balance Right!”.

Ma sapete come funziona, nella vita. Siamo giunti più che cinquantenni alla ricorrenza di un disco che, ai tempi, avevamo ascolticchiato giusto perché “Enjoy The Silence” lo mettevano persino i dj più dozzinali e, certe sere, risultava impossibile sottrarvisi. Oggi, però, sull’onda emotiva del passato, la rosa rossa in campo nero della copertina di “Violator” è più che una bandiera con cui, fieri e orgogliosi, ci arroghiamo la conquista e la colonizzazione di un vero e proprio continente culturale. Un’estetica globale basata sulla computer music di cui i Depeche Mode risultano ad oggi i campioni insuperati, e a cui qualunque smanettone dotato di un virtual synth craccato non può non esimersi dal dimostrare la riconoscenza che merita.

decomposizione

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Credo che la musica di Ennio Morricone rifletta perfettamente l’idea di colonna sonora e non lo dico perché è morto ed è imprescindibile che ogni pubblicazione gli debba tributare un coccodrillo. Oggi una colonna sonora per un qualunque video costa, nel più oneroso dei casi, cinquanta dollari. Avete mai notato come le immagini e le illustrazioni per la comunicazione e la pubblicità siano spesso uguali? Con lo stesso modello di business ci sono siti dove si possono acquistare musiche e, a meno di non sborsare cifre più alte per una scelta in esclusiva, non è raro trovare lo stesso brano per la pubblicità della mozzarella e dell’assorbente interno. D’altronde, chi lo nota? E anche se qualcuno ci facesse caso, non sarebbe un problema. Siamo pieni di cose tutte uguali, un’emozione clonata in più che differenza fa?

Il valore aggiunto della colonna sonora è quello di reagire chimicamente con la parola, con il gesto o con l’immagine e sprigionare al massimo tutto il potenziale emotivo di ciò a cui si accompagna. Per questo è importante comporre musiche ad hoc, nate proprio da ciò che il compositore vede nella parola, nel gesto e nell’immagine che sta per commentare. Il fatto è che poi la musica originale va pagata e il budget, spesso, non lo consente. Quindi oggi parlare di colonne sonore è davvero fuori contesto come tante altre cose che non esistono più.

Il modo più appropriato per celebrare degnamente il maestro Morricone appena scomparso è restituire dignità alla musica e all’importanza che ricopre nella nostra vita, perché la musica è la colonna sonora della nostra vita e il merito è solo di colui che la crea, la arrangia, la suona, la interpreta. Possiamo decidere anche che non possiamo più permettercela, e allora è meglio finirla qui.

Ho anch’io un aneddoto su Morricone da raccontare. Una volta un cliente dell’agenzia di comunicazione in cui lavoravo, e nemmeno uno dei più deficienti che ho avuto, voleva che contattassimo Morricone per chiedergli di comporre la sigla di un evento aziendale, una sorta di baracconata organizzata come kick-off, avete presente la situazione. Voleva che chiedessimo a Morricone di comporre la colonna sonora di un evento e che il maestro Morricone in persona si prestasse ad eseguirla sul palco, con tanto di orchestra.

Se avessi avuto le palle gli avrei detto quello che meritava, e cioè che era un cretino a pensare non solo di permettersi Morricone, ma anche che uno come Morricone fosse disponibile a comporre e dirigere la sigla di un kick-off di un’azienda come la sua. Ma nel marketing piace sognare in grande, per poi, al momento dei conti, rendersi conto di potersi permettere a malapena la musica da cinquanta dollari sul sito dove le comprano tutti, per poi ascoltarla come jingle della pubblicità della mozzarella o degli assorbenti interni. Tanto nessuno ci fa caso.

nonne anti-rock

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C’è stato un momento in cui il reggae era un genere molto di moda, grazie anche a Bob Marley che sarebbe morto di lì a poco. Io facevo le medie e i miei amici sfoggiavano berretti con i colori della bandiera etiope creati a mano dalle loro madri o nonne. Anche mia nonna aveva la passione degli aghi e della lana, così quando le chiesi un berretto rasta non ci mise molto ad accontentarmi. Il fatto è che non fui probabilmente così preciso nei dettagli e diedi per scontato che il berretto sarebbe stato a cupola, passatemi il termine. Invece mia nonna si ispirò ai berretti da sciatore e il risultato, fatto a punta, fu un disastro. Hai mai visto un giamaicano sugli sci?, avrei dovuto dirle.

Quarant’anni dopo ho chiesto a mia suocera novantenne, ma in gambissima, di ricavare una mascherina anti-covid da una mia vecchia maglietta un po’ rovinata di “Unknown pleasures”. Le ho mostrato il disegno sul davanti della t-shirt e mi ha confortato sapere che ci fosse sufficiente tessuto per ricavarla. Probabilmente mia suocera non è una fan dei Joy Division, malgrado ai tempi del loro blasonatissimo disco d’esordio fosse più giovane di me nel momento in cui le ho fatto questa richiesta da adolescente. Non essendo lei propriamente una dark ha utilizzato lo scampolo della maglietta con il disegno ruotato di 90 gradi in senso anti-orario, con le celebri pulsazioni elettromagnetiche messe in verticale anziché orizzontale, forse pensando che la disposizione non avesse importanza. Ho dato per scontato che avrebbe realizzato la mascherina come la maglietta ma forse di trattava di un’istruzione necessaria.

Malgrado ciò, non ho rimproverato mia nonna ai tempi e né farò notare l’errore a mia suocera oggi. Dev’essere una prerogativa delle persone anziane quella di non capire l’amore per il rock dei giovani come me e la serietà con cui prendiamo queste cose. Probabilmente, quando sarò nonno io – se mai lo sarò – non avrò problemi di questo genere intanto perché non so lavorare a maglia o con il cucito e poi perché la mia competenza musicale non lascerà spazio a errori così grossolani. Posso stare tranquillo: la sensibilità dei nipoti che avrò non è a rischio.

il made in italy è così

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Nel giro di qualche ora sono passato da “Modern Love” a “Made in Italy” ed è difficile trovare un termine di paragone efficace per descrivere la faglia che separa le due serie televisive. Se la prima fosse una rubrica settimanale pubblicata dal New York Times (e infatti è tratta da una rubrica settimanale del New York Times) la seconda potrebbe essere un articolo dedicato ai controlli sulla movida sull’edizione del rhodense di Settegiorni. Non c’entrano nulla l’una con l’altra, sia chiaro. L’unica cosa che hanno in comune è che sono disponibili su Prime Video, che sono serie tv divise a episodi e che, al momento, è disponibile una sola stagione di entrambe. L’aspetto che le colloca agli antipodi è facile da immaginare. “Modern Love” parla di amore ed è americana, “Made in Italy” parla della moda ed è italiana. Non solo. Sono arrivato per caso a “Made in Italy” premendo per errore l’icona sul menu di Prime Video e sia mia moglie che io abbiamo deciso di arrivare sino in fondo. Di “Modern Love” invece ne avevo letto benissimo, l’ho scelta con fermezza ed è volata via nella sua perfezione narrativa lasciandoci in lacrime nell’apoteosi finale, per questo non voglio aggiungere altro. Dovreste guardarla tutti perché, davvero, è una delle cose più belle mai viste.

Non ci resta quindi che parlare male di “Made in Italy”, che è un po’ come sparare sulla Croce Rossa. Sicuramente sarà il solito problema che i confronti tra un’industria fatta da professionisti (la fiction americana) contro un genere praticato da dilettanti (la fiction italiana) non si possono fare, un po’ l’annosa questione delle partite dell’NBA contro il sopravvalutato basket maschile locale. Ma la filiera di cose sbagliate inizia probabilmente da lontano. Occorre risalire ai problemi che hanno gli italiani con i film e le fiction sugli anni 70 come “La meglio gioventù” o “Buongiorno notte” e ripercorrere tutta la filiera che rende le produzioni cinematografiche e televisive italiane di così infima qualità.

C’è un problema di stereotipizzazione che abbatte completamente il livello di credibilità di ciò che il telespettatore guarda. “Made in Italy” ne è pieno. Ci sono stereotipi sullo sfondo, come gli spacciatori di droga con un look che nel 76 sarebbe stato degno di una festa di carnevale. E poi l tossico, l’omosessualità, i cortei e la lotta armata. Ci sono stereotipi protagonisti del mondo della moda, della comunicazione e della pubblicità.

C’è anche un clamoroso errore sulla stereotipizzazione della musica, cannata di quasi dieci anni e davvero non si capisce cosa c’entrino le canzonette anni 60 in quel decennio successivo così distante. Il ricorso ai temi di sottofondo che richiamano al limite del (voluto) plagio le melodie in auge trasmette ancora di più l’effetto di vorrei ma non posso permettermi i diritti delle canzoni originali.

Poi c’è Milano che è una città diversissima dall’epoca di “Made in Italy”, ed è difficile riprendere gli ambienti esterni senza incorrere in qualche grattacielo, qualche torre, qualche bosco verticale. Per questo si vedono solo edifici e monumenti ripresi dal primo piano in su, per evitare l’effetto ritorno al futuro della mobilità in condivisione, e la skyline con la Torre Velasca che restituisce solo una parte della metropoli, sempre la stessa e davvero poco rappresentativa.

Gli attori sono terribili e non si capisce se sia dovuto al fatto che dialoghi e sceneggiatura non sono assolutamente credibili, e quindi si fa troppa fatica a recitare, o sono loro come attori a essere dei cani. Su tutti Maurizio Lastrico che mi spiace perché apprezzo come comico ma dietro alla telecamere e in quel ruolo risulta assolutamente inadatto. A questo si aggiunge l’annosa questione della registrazione in presa diretta senza doppiaggio che ci rende incomprensibili buona parte dei dialoghi ma qui potrei essere io a essere sordo. Però, per dire, in “Modern Love” ho capito tutto. I dialoghi sono tradotti bene perché di partenza erano già scritti bene, i doppiatori li recitano da dio e il risultato riesce sotto tutti gli aspetti. In “Made in Italy” non si capisce un cazzo e quando si capisce ci si vergogna di scambi di battute così fuori luogo e quando non ci si vergogna di scambi di battute così fuori luogo ci viene voglia di spegnere tutto perché gli attori fanno pena.

La morale è che la fiction italiana fa cagare, che non ha senso di esistere, che non ha senso di perdere tempo a guardarla e che la peggiore delle comparse di un film di serie zeta americano è ampiamente più brava di Raoul Bova. Al cast, al regista e a tutti coloro che hanno lavorato alla realizzazione di “Made in Italy” rivolgo una domanda: in tutta coscienza e sincerità, voi guardereste mai una serie così?