noi due per sempre

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Preparate gli spaghetti, stappate il brunello, mettete sul piatto “Noi due per sempre” perché, davvero, non si sa mai. Al massimo, se volete sorprendere la ragazza spagnola che vi aspetta scosciata sul letto, potete dirle che in realtà “sta musica” che state per ascoltare insieme è un pezzo di Ennio Morricone e si intitola “Mariangela e la seduzione”. Magari Marisol è una collezionista di dischi come voi e va a finire che ci fate pure una bella figura. Flirtare parlando di musica non è una tecnica di seduzione ma il miglior modo per mettervi a nudo. Rivelare chi siete. Altro che nada, niente. E potete star tranquilli: nessun campanello squillerà a rovinare tutto.

estate? e stiamo.

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Ci nutriamo anche grazie a pietanze cucinate con ingredienti che siamo sicuri che non ci avvelenino, altrimenti entreremmo in conflitto con il nostro istinto di conservazione. Non ci pensate mai? Metti due mazzetti di basilico con i pinoli, il pecorino, l’olio e il sale grosso nel miscelatore e una reazione chimica inesistente in natura, ma attivata da un infinitesimale scarto spazio-temporale, e un composto impazzito e montato al contrario genera un qualcosa che, ingerito e digerito, risulta fatale. Questo perché, sostanzialmente, nel pesto ci va l’aglio che, in certi individui, ha altrettanta potenzialità nociva ma dicono che si tratti di un problema di metabolismo.

Io che ho sempre inseguito il sogno del pesto più digeribile e più incline alla socializzazione mi trovo in una fase della vita in cui non lesino sull’aglio. Tanto sto sempre a casa, vuoi il coronavirus e vuoi che ho superato i cinquanta, quindi chi se ne importa. Devo ammettere che tutto questo tempo a disposizione trascorso in tele-lavoro e tele-relazioni necessita di una organizzazione capillare. Gli studiosi sostengono che il rischio è di cadere in depressione e di ridurre la propria portata di attrazione nei confronti del partner. L’esperienza di Cinzia P., sotto questo punto di vista, è esemplare, anche se devo ammettere che nutro soggezione verso di lei sin da quando mi accoglieva alla reception della sede di un cliente che visitavo spesso per lavoro anni fa, un edificio nuovo di zecca e tutto in vetro. Il paradosso è che, già dopo pochi mesi dall’inaugurazione, la propensione allo smart-working aveva abbattuto drasticamente le presenze in quell’ufficio.

Forse era questo che spingeva Cinzia a intrattenersi in conversazioni con i visitatori come me mentre preparava e stampava il badge temporaneo per i non dipendenti. Il collega che mi accompagnava in quelle trasferte l’aveva addirittura sognata con i suoi capelli rossi tutta presa a distanziargli gli alluci doppi da ciascun piede. L’aveva persino immaginata in situazioni più intime ma il fatto di esercitare il ruolo di consentire o meno l’accesso verso la nostra principale fonte di sostentamento ne aveva accentuato – sono parole sue – il carattere autoritario e, di conseguenza, fortemente inibitori durante momenti così particolari.

Chissà che ne sarà delle comparse che il caso ci fa intravedere nella nostra vita e se sogni come questo di Cinzia e degli alluci sono la conseguenza di un piatto che Giallo Zafferano consiglia per chi è alle prime armi dietro i fornelli ma che poi la presunzione dei principianti, unita a una soggettiva interpretazione della ricetta, risulta complesso da smaltire durante le ore notturne, soprattutto in condizioni atmosferiche poco amichevoli.

controfigure

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Il distributore in cui di solito faccio il pieno di gpl stamattina era chiuso. Si trova sulla superstrada che percorro per andare a scuola ed è uno di quei posti nei quali ormai potrei entrare e chiedere il solito, come fanno nei film americani i protagonisti quando si siedono al bancone del bar prima di corteggiare un’avventrice o di scatenare una rissa al decimo bicchiere di whisky.

Potrei avvicinarmi al settore gas auto, scendere dal veicolo, porgere l’adattatore per il serbatoio e chiedere il solito, per intendere il pieno. A parte il fatto che non ho ancora capito perché in Italia il gpl non sia self service così, quando andiamo in Francia, eviteremmo di fare almeno la brutta figura di non saper maneggiare le pompe che già di brutte figure, noi italiani in Francia, ne facciamo a iosa, dicevo che, a parte questo, il benzinaio ormai capirebbe subito cosa intendo perché mi rifornisco lì un paio di volte al mese.

Stamattina però era chiuso e la cosa mi ha incuriosito perché nell’area del distributore c’era comunque un bel po’ di gente. Ho rallentato – cosa che facevano tutti – così ho potuto capire che stavano girando o uno spot o una scena di un film. Ho notato una fuoriserie con i fari accesi a fianco della pompa, le attrezzature tipiche dei set, un gazebo per tenere all’ombra le star, e l’immancabile corposa mole di addetti ai lavori facilmente riconoscibili. Quelli più anziani e robusti, che sono gli addetti alle maestranze e ai lavori più umili. Quelli più giovani e filiformi, che sono quelli che lavorano per la casa di produzione: addetti alla fotografia, gli operatori, i make up artist, il regista, gli assistenti vari, il fonico e così via, e che si riconoscono anche perché utilizzano un equipaggiamento sempre più curioso rispetto alla classiche telecamere di una volta.

Quando mi imbatto in un set – a Milano e dintorni è piuttosto comune – l’istinto è quello di fermarmi a dare un’occhiata. Sempre meglio che i cantieri, o no? Questo perché mi occupo anche di video aziendali, e mi considero così, nel mio piccolo, un addetto ai lavori. Mi piacerebbe sbirciare per verificare le inquadrature, le luci, le impostazioni della videocamera per controllare che sia tutto a posto.

Ovviamente non lo faccio perché gli intrusi sul lavoro degli altri recano sempre fastidio e sono di intralcio. I dilettanti come il sottoscritto costituiscono una scocciatura per i professionisti, questo l’ho provato sulla mia pelle perché, quando partecipo alle riprese, quelli più dilettanti di me che si avvicinano per osservare il modello di camera o di slider che impieghiamo per registrare poi si mettono a fare mille domande e non ti mollano più.

Questo approccio è comune anche tra i musicisti. Ho amici che si intrufolano nell’isola che i mixeristi si ricavano tra il pubblico per posizionare l’impianto di amplificazione e poi cercano di spremere al fonico i segreti del mestiere. L’ultima volta in cui mi sono trovato in una situazione del genere – non ero io a fare le domande, sia chiaro – il mixerista è stato però gentilissimo e si è prestato a dare tutte le risposte agli amici che erano con me. Nonostante questo ero io, a provare imbarazzo per i miei amici.

Così, stamattina, appena ho verificato che si trattasse di un set cinematografico, ho accelerato per non passare per uno di quelli che rallentano quando ci sono incidenti o situazioni anomale sulla carreggiata. E magari chissà, forse un giorno uscirà uno spot o un film in cui, in una scena in un benzinaio, si vede sullo sfondo una Opel Astra blu station wagon rallentare per poi schizzare via, con dentro una comparsa involontaria con la mascherina anti-contagio seduto al volante che, con il suo comportamento responsabile, ha confermato tutta la sua dignità.

Foto di Bokskapet da Pixabay

quindi vivi e lascia vivere nell’amore

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Ho fatto finta di non sapere quale fosse il letto di Mirko. Questo mi ha dato l’opportunità di rivolgermi a due diverse infermiere per chiedere informazioni anche se ero già stato un paio di volte nella stanza del reparto di chirurgia in cui era ricoverato. Purtroppo nessuna delle due era Ambra, che conosco dai tempi del liceo e il cui viso angelico mi è apparso per primo al risveglio dopo l’operazione a cui mi ero sottoposto anni prima, tantomeno Simona che è facile da individuare tra tanti camici bianchi e verdi perché è alta quanto me e, pur conoscendoci reciprocamente dall’82, nemmeno ci salutiamo, ma vi prometto che la prossima volta farò io il primo passo. Anzi, ciao Simona, come va? Comunque Tatiana, che è la fidanzata di Mirko e che ammiro soprattutto per i suoi pantaloncini da ciclista attillati – siamo nell’88, giusto per darvi la possibilità di ambientarvi prima di arrivare al dunque – gli ha portato qualche rivista di architettura (si sono conosciuti in facoltà) e quando faccio capolino si alza per lasciare libera la sedia, così ne approfitto per spingerla sulle spalle scherzosamente per farle riprendere il suo posto e mi posiziono all’altro lato del letto. Mirko sta conversando con un compagno di degenza la cui faccia non mi è nuova. Si tratta del papà di un ragazzo che ha qualche anno in meno di me e che ai tempi di “Too shy” si era fatto i capelli come il cantante dei Kajagoogoo, un palese gesto di rottura con la società conformista malgrado non avesse ancora finito le medie. Il papà di questa specie di Limahl di provincia vorrebbe convincere noi ventenni sul sex appeal di Marisa Laurito, ma con me casca male perché l’idea che ho di lei che fa la testimonial della pasta Voiello mi trasmette tutt’altro che erotismo, una sensazione che sarà confermata l’anno successivo quando salirà sul palcoscenico di Sanremo per cantare la canzone del babà. Tutto questo rimescolamento di cose e ricordi mi fa tornare in mente una sera alla festa dell’Unità quando ancora era la manifestazione collettiva di una città che votava a larga maggioranza il PCI. Il padre di Simona, l’infermiera alta che non mi saluta ma magari da oggi in poi lo farà, era un ferroviere iscritto al partito e si dava da fare tra i tavoli di uno dei tanti ristoranti. Io invece mi trovavo con due compagni di liceo a sentire il concerto di una cover band locale, anche se ai tempi non si chiamavano mica cover band, che aveva in repertorio “Lifeline” degli Spandau Ballet ed è per questo che, quando la ascolto ancora oggi, mi sento male al pensiero di quanto fossimo giovani allora.

questione di etichette

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Una cosa che abbiamo imparato da tutto questo digitale in cui siamo immersi è che è importante attribuire le categorie giuste per riuscire a trovare velocemente quello che cerchiamo. Categorie e tag sono alla base dell’organizzazione dei contenuti ai tempi dell’Internet, un fattore che ha definitivamente sancito il primato della semplificazione ai fini archivistici. Il paradosso è che abbiamo inventato etichette per definire cose che, prima dell’Internet, c’erano già nella realtà ma che, probabilmente, non avevano un nome. E il paradosso dei paradossi è che sono stati introdotti neologismi per dare un nome alle etichette che ci servono per qualificare categorie sempre esistite ma che prima probabilmente nessuno aveva mai sentito la necessità di definire. Oppure, nel migliore dei casi, si attinge dall’inglese – la lingua ufficiale del web e della tecnologia in genere – perché quella sì che è una lingua utile per operare delle sintesi. Pensate a concetti come friendzone con cui oggi si intende la categoria (soggettiva) di persone che vorrebbero trombarti ma che tu ipocritamente mantieni nel limbo dei confidenti, quello che una volta di riduceva a “ti vedo come un fratello/sorella” e niente più, perché il prospect (nel senso di potenziale in questo caso partner, altra categoria introdotta di sana pianta) non ti attizza. Chi si occupa di musica avrà assistito al fiorire di generi, sottogeneri e varianti di stili introdotti dalle webzine proprio per stemperare il più possibile il database di articoli e impedire che band e dischi di generi tangenti non si sovrappongano tra di loro, disilludendo i lettori più rigorosi. Per non parlare del porno, ma mi spiace, non sono molto ferrato in materia. La riflessione che ci impone questo fenomeno è quanto il web stia mutando i processi cognitivi, la nostra memoria e il modo in cui organizziamo i ricordi. E, molto più superficialmente, il modo in cui sistematizziamo le nostre conoscenze per abbreviare i percorsi con cui raggiungere i file che abbiamo accumulato nel corso delle esperienze vissute. E, ancora, pensate all’urgenza con cui cerchiamo di definire il genere che ci rappresenta e, malgrado tutte le sfumature accertate, quanto sia ancora difficile, per taluni, sentirsi identificati correttamente. Quanto si è trasformata questa necessità da quando siamo online?

Foto tratta da Database Vectors by Vecteezy

nemici pubblici – classifica aggiornata al 19 luglio

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Chissà se all’idea di noi che hanno gli olandesi hanno contribuito i milioni di giovani turisti italiani che, da decenni, si concedono uno di quei viaggi ad Amsterdam di cui, al ritorno, non ci si ricorda granché. Se fosse così, caro sig. Mark Rutte, ti chiedo scusa della mia vacanza mordi e fuggi che ho fatto a vent’anni. Ma ti posso assicurare di esserci tornato una seconda volta non molto tempo fa, che non ho messo piede in nessun coffee shop, e che – anzi – è stata tutta turismo intelligente e cultura, Van Gogh incluso. Non solo: ho trascorso persino qualche giorno nell’affascinante e avveniristica Rotterdam e il viaggio ha compreso persino una tappa a Delft in cui è sepolto il pittore Johannes Vermeer, ho mangiato alici a colazione e ho scoperto un delizioso negozio di dischi che si chiama Plexus a cui ho persino proposto di intrecciare un rapporto di e-commerce con l’Italia senza successo, nel senso che volevo acquistare da qui alcuni vinili che non avevo avuto il coraggio di comprare sul posto ma poi non se n’è fatto più nulla. Questo per dire che, da parte mia, qualche tentativo di dare delle sicurezze agli olandesi c’è stato.

Anzi, l’Olanda da sempre è uno dei miei punti di riferimento di civiltà, insieme ai berlinesi (ma diciamo anche tutti i tedeschi) e ai danesi. E grazie alla loro nazionale, che ci ha sbattuto fuori ai mondiali del ’78 con due gol da distante al vecchio Zoff, ho messo una pietra sul calcio e, da allora, non ho mai più voluto interessarmene, tanto meno nelle competizioni con le nazionali.

Il fatto è che, di questi tempi, gli olandesi sembrano essere il nemico pubblico numero uno, da queste parti del meridione d’Europa. Per fortuna che è bastata una semplice visita agli Uffizi di Chiara Ferragni per ribaltare tutte le priorità, scalzando dal podio gente guardata in ultra-cagnesco del calibro della famiglia Benetton sino alla sesta generazione, esponenti della classe politica sulla bocca di tutti come il ministro Lucia Azzolina e il sottosegretario Laura Castelli, quelli di Atlantia e l’idea di capitalismo statalista che incarnano, la curva del nuovo ponte di Genova – tanto per restare in tema – e persino quel maledetto limite dei 70 km/h che ci impedirà di schiacciare a tavoletta per raggiungere le amene località della riviera di ponente.

Ma, se siete della mia parrocchia, nessuno ci toglierà dalla testa che il vero nemico pubblico degli italiani siamo noi stessi, e l’idea che ci presta dei soldi abbia qualche pretesa di controllo sulla nostra capacità di spenderli nel modo più adatto (noi che siamo i più corrotti dell’universo) non ci sembra così scandalosa. Va bene il gezellig e tutto quanto, ma fare i rilassati non significa essere fessi.

le canzonette

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Di ritorno da Firenze, oggi mia figlia in auto ha messo dal suo account Spotify premium una manciata di secondi di “Never gonna give you up” di Rick Astley per poi passare a “Love will tear us apart”. Il 18 luglio del 1980 la Factory Records pubblicava il disco postumo dei Joy Division “Closer”, quello con la foto della tomba appartenente alla famiglia Appiani scattata al cimitero monumentale di Staglieno, Genova. A casa, poco dopo, prima di coricarmi, ho cercato su Rai Play le puntate di “Techetechetè” che ho perso durante questa breve vacanza in Toscana, quelle dedicate alle canzonette italiane, quelle di Sanremo e dei varietà degli anni ottanta. Il tutto mentre sto consumando il nuovo disco dei Protomartyr, “Ultimate Success Today” di cui devo scrivere una recensione, un album di una cattiveria e di un pessimismo cosmico senza precedenti. Qual è il filo conduttore di questa bizzarra compilation di cose apparentemente scollegate? Spero che anche a voi capiti che a volte sembra che i suoni prendano il posto delle nostre cellule. Abbiamo tessuti, organi e apparati con funzioni diverse, corretto? Bene, secondo me basta essere sufficientemente accomodanti per scoprire che c’è posto per tutto quello che ascoltiamo. Il fatto è che a volte corriamo il rischio di esser scambiati per superficiali, per pericolosi perditempo, per scialacquatori di emozioni o gente prodiga di vita per finalità superflue. Così è facile sentirsi in colpa. Quando succede a me, anche se sono da solo e queste canzonette me le ascolto di nascosto, cerco di trovare i difetti in questo sistema di cose per dimostrare a me stesso che fa acqua da tutte le parti e che sarebbe più proficuo fare altro. Per esempio, stasera ho provato i brividi anche mentre Memo Remigi cantava “Innamorati a Milano” con un balletto in bianco e nero sullo sfondo di una Piazza del Duomo con la nebbia che non esiste più almeno dall’inizio del Global Warming. Era un programma TV della fine degli anni sessanta e Memo Remigi somigliava tantissimo a un cantautore con cui ho suonato per molto tempo, da ragazzo. Un cantautore che aveva lo stesso timbro e lo stesso modo di scrivere testi melensi. Ho dovuto così ammettere con me stesso che, più che essere composti al 60% di acqua, siamo una specie di soluzione di parole in rima che, quando sono nella nostra lingua, ne comprendiamo il senso, ci vergogniamo di riconoscerci anche quando sono delle sciocchezze, e facendole nostre non riusciamo a tenere a bada la pelle d’oca. Questo nel migliore dei casi. Nel peggiore, a me è successo con “Anna e Marco” di Dalla, ci commuoviamo pure. Non so perché ci sia stato il bisogno di inventare tutte queste canzonette e di farle durare nel tempo anche quando la nostra civiltà va avanti e c’è gente che ne inventa delle altre, sempre tutte uguali ma con parole diverse per dire poi chissà che cosa.

team picture – the menace of mechanical music

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[questo articolo è uscito su Loudd.it]

A metà anni 80 la 4AD costituiva quasi un genere a sé, con quel modo onirico di interpretare il soft-gothic e quelle voci – a partire da Lisa Gerrard ed Elizabeth Fraser – che facevano a gara a conquistare la mela destinata alla più eterea. Alcuni aspetti dell’evoluzione della new wave introspettiva che ha caratterizzato un periodo così fondamentale per la musica li troviamo in chiave post-pandemia nel nuovo lavoro di una band dei giorni nostri, artisti agli esordi ma dalle idee tutt’altro che confuse.

I Team Picture si definiscono “a 6 piece music outfit who live in the north of England”, probabilmente Leeds. Hanno pubblicato un mini-album dal titolo “Recital” nel 2018 e, a partire dallo scorso inverno, si sono messi al lavoro sul primo disco, “The Menace of Mechanical Music”, uscito in questi giorni per la Clue Records. Il loro sound è un moderno compendio di Cocteau Twins – alleggeriti dalla gravità degli effetti con cui la band di Robin Guthrie mandava in orbita le loro composizioni lontano dal mondo degli esseri fatti di carne e ossa – con un po’ di Sugarcubes e qualche eco di Prefab Sprout.

Per tenere a bada gli ascoltatori più nostalgici però è bene sottolineare quanto la musica dei Team Picture sia attuale, una sorta di Arcade Fire senza incursioni nel superfluo o di The Cure che ripercorrono la vita al contrario, come quel racconto di Francis Scott Fitzgerald. Vecchi esponenti del dream-pop che vivono nel corpo di gente che a malapena avrà venticinque anni. Facili reminiscenze derivanti dal continuo passaggio di microfono tra femminile e maschile, voci alternate che potrebbero essere strumenti come tutti gli altri, tanto sono rarefatte e musicali.

Il paradosso è che “The Menace of Mechanical Music” è anche il titolo di un saggio del compositore e direttore di banda John Philip Sousa, che dagli USA di inizio secolo scorso metteva in guardia contemporanei e posteri contro la minaccia nella musica fatta con le macchine. E, cento anni dopo, la proposta di un genere indubbiamente fuori dagli schemi come quello dei Team Picture ci rassicura. Nessuna intelligenza artificiale soppianterà quello spleen tipico di noi umani che ci fa sedere depressi davanti a un sintetizzatore – vi concedo anche una chitarra elettrica – a cantare i nostri dispiaceri esistenziali.

“The Menace Of Mechanical Music” è un disco che dovete letteralmente consumare. Ogni traccia contiene una sorpresa: la languida matematica di “Baby Rattlesnake”, gli acuti femminili che si fondono negli archi artificiali di “Sleeptype Auction”, gli echi di Kate Bush di “Flower Pots, Electric Beds”, il folk-prog circolare di “this is the”, l’erotismo di “Handsome Machine”, il dark di “Compartment(s)”, il post-country di “(Diffuser)”, il synth-pop di “Rock Hudson Tragedy”, i Cars di Ric Ocasek di “Keep Left”, la melodia soul di “Slowest Hype”, che mai penseresti di trovare in un gruppo come questo, per finire con il folle spoken-word di “Quit Reading”.

In poche parole, l’impressione è che i Team Picture abbiano svuotato tutte le bottiglie di musica liquida degli scorsi quarant’anni nella loro sala prove per lasciarla evaporare come si fa come quei diffusori per ambienti, e respirarla con l’ausilio di strumenti elettrici (sempre puliti) ed elettronici, a supporto di voci sopraffine. “The Menace Of Mechanical Music” è indubbiamente una delle novità più convincenti di quest’anno.

che cosa significa essere in vacanza

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A. sostiene che la vacanza sia un tempo prezioso di pausa per ripensare se stessi senza bulimie, una cura d’amore per ritrovare il proprio centro. V. però non riesce a mettere a frutto questa opportunità perché nel suo centro sta arrivando un temporale. Persino Google meteo gli ha messo sulla sua foto profilo una nuvoletta con le gocce che cadono e i fulmini e le saette per diversi giorni del suo soggiorno in campagna. Che poi il viaggio è spostare interi progetti umani da un luogo ordinario a una località più amena, più o meno. Gente abituata ad abitare location scadenti alle prese con il Rinascimento, con il barocco e persino con cumuli di silenziose pietre di qualche civiltà pre-romanica. Se le app anti-pandemia non prendono piede, quelle per rintracciare la propria identità sommersa fanno il pieno di connessioni. Una specie di Tinder pensata per riaccoppiarsi con certe espressioni del sé così remote che si ricordano solo gli altri, come quando qualcuno ti tagga in momenti così periferici della tua vita che li hai rimossi subito dopo lo scatto della foto. Ci sono cuori malinconici che passano il tempo affacciati alla finestra di questo ennesimo villaggio glocale, questa volta, nell’attesa che qualcuno si metta sulle loro tracce. Siete mai stati vittime di ricerche affannose sull’Internet? Scoprire che ci sono vecchi ricordi che guglano il tuo nome, addirittura tra virgolette, per sapere che fine hai fatto ma se non sei uno da social e il risultato è solo il numero di telefono dell’ufficio tecnico del Comune in cui lavori è difficile dare un seguito a una storia di questo tipo. A meno che non siate scrittori e, nel caso, abbiate pianificato una trama avvincente. Nel dubbio, provate a chiamare, sentite chi risponde e state a vedere che succede.

Foto di Free Photos da Pixabay

d’oro

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Trascorrevamo le pause pranzo a Berna. Era comodo: prendendo il volo da Linate delle 12.50 all’una io e i colleghi mettevamo le gambe sotto il tavolo in una trattoria tipica svizzera. Il tempo di sentire in aereo quella pressione del decollo che ti schiaccia contro lo schienale che già era il momento dell’atterraggio. Nel sogno non facevo caso al menù. So solo che dopo il caffè, vestiti in business casual di tutto punto, gironzolavamo per il centro commerciale perché, a differenza di quelli italiani, ospitava brand e negozi mai visti nei nostri. La cosa strana è che proprio quel giorno, sceso dal volo di ritorno esattamente un’ora dopo, dovevo rientrare in classe perché non avevo ancora terminato gli studi, c’erano lezioni da frequentare e soprattutto dovevo prepararmi per sostenere l’esame di maturità scientifica. Seduto al mio banco attendevo l’ingresso dell’insegnante di scienze dei materiali e, scorrendo il libro di testo, mi accorgevo di non aver studiato mentre il mio compagno – uno dei migliori – mi ricordava che, quel giorno, il prof avrebbe interrogato. Erano i primi giorni di scuola e un’impressione negativa correva il rischio di pregiudicare l’impressione che il prof avrebbe avuto di me. Come sempre mi sforzavo di comprendere perché, pur avendo già conseguito una laurea, fossi ancora lì a farmi cogliere impreparato da un docente di una materia così superflua per il mio lavoro. Peccato che scoprire la risposta coincideva con il risveglio. Tutto sommato una giornata così mi piacerebbe trascorrerla ancora. Una soltanto, non di più.

Foto di 愚木混株 Cdd20 da Pixabay