piazza di pan di spagna

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Quelli che segavano in due le navi da crociera per aggiungerci un pezzo in mezzo per aumentarne la capienza e poi saldare il tutto e rimetterla in acqua come se niente fosse non sono nulla in confronto al progetto delle studio ingegneristico di grido che ha trovato la formula per risolvere i problemi di Roma.

“Roma Pan di Spagna” non è semplice da spiegare, un modello virtuale in 3D sarebbe più efficace di mille parole, ma proviamoci lo stesso.

Fase 1: si scava un solco – d’altronde, Romolo e Remo ci avranno pur lasciato un’eredità – lungo tutto il perimetro della città metropolitana di una profondità necessaria a non correre il rischio di trovare insediamenti o reperti archeologici in grado di arrestare qualunque iniziativa di ammodernamento. Solo terra, rocce e acqua. Niente trippa per tombaroli.

Fase 2: attraverso un sistema di talpe scavatrici smart comandate da superficie si scavano una serie di sottili gallerie in modo da creare un fitto reticolato di linee perpendicolari che vanno da nord verso sud e da est verso ovest.

Fase 3: ancora grazie alle talpe smart si conducono milioni di cavi di acciaio resistentissimo che partono dal solco periferico e si insinuano lungo le gallerie scavate in modo da formare una piattaforma a maglie strettissime in grado di sostenere il peso di tutta la città.

Fase 4: tramite un sistema di trazione realizzato ad hoc si tirano i cavi di acciaio dall’esterno in modo da sollevare tutta Roma come se fosse la metà superiore di un Pan di Spagna pronto per essere farcito.

Fase 5: ed eccoci finalmente alla farcitura del Pan di Spagna. Nel sottosuolo di Roma, al di sotto di tutte le stratificazioni urbane che si sono sovrapposte nei secoli, si spalma uno strato di infrastrutture hi-tech composto da una rete capillare di trasporto su rotaie e stradale, un po’ come si fa con il pavimento flottante degli uffici in cui si fanno passare sotto tutti i cavi in modo da non avere niente di intralcio.

Fase 5bis: mentre gli ingegneri farciscono il Pan Di Spagna, geologi e archeologi passano ai raggi x Roma dal di sotto e individuano ville, case, necropoli, templi e tutto quello che può essere portato alla luce e recare vantaggi turistici alla capitale.

Fase 6: si posa Roma sullo strato intermedio di infrastrutture, con tutti i crismi per collegare la farcitura con la superficie, e il gioco è fatto. Durante il processo di levitazione che solleverà la città metropolitana di almeno un centinaio di metri, si potrebbero avere dei lievi mutamenti climatici dovuti alla nuova altitudine, ma tanto la temperatura si è già alzata ovunque quindi qualche grado in meno non potrà che far piacere ai romani. E comunque Roma non sarà più la stessa. 

non c’è più religione

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Alle fasi dell’età evolutiva già accertate dai più blasonati psicologi da qualche tempo si annovera anche quel momento in cui nell’adolescenza sboccia la fase anarco/anticlericale e che va a collocarsi tra la prima canna e la dichiarazione di impegno alla ricerca di un lavoretto per mettere qualcosa da parte per le vacanze dell’estate successiva, oppure la ricerca di un lavoretto per mettere qualcosa da parte durante l’estate per l’imminente stagione invernale, ma che poi alla fine si concretizza in un buco nell’acqua e i ragazzi continuano a dare a fondo le risorse dei genitori.

Nel corso della fase anarco/anticlericale si radicano elaborate teorie secondo cui la chiesa dovrebbe liberarsi di tutti i beni mobili e immobili e distribuire il valore corrispondente in banconote ai poveri del pianeta al motto de “il primo vero comunista è stato Gesù” con la variante che riconduce il maoismo a San Francesco. Una teoria che gli studiosi pongono alla base di rielaborazioni in fase adulta come l’ICI dei beni del Vaticano e tutte le declinazioni delle invettive contro le scuole paritarie, fino ai picchi di giacobinismo del calibro di “se avesse vinto Napoleone oggi ogni chiesa sarebbe un granaio”.

Non sono pochi inoltre i giovani in piena fase anarco/anticlericale che si ribellano all’imposizione formale di non poter indossare abiti succinti per visitare la basilica di San Pietro. Ragazze e donne devono coprire spalle, petto, ginocchia e sedere ma non tutte si presentano ai cancelli provviste di burqa. La prima rimostranza si manifesta contro l’addetta alla misurazione della temperatura, come se lei o gli addetti alla sicurezza all’ingresso fossero direttamente responsabili della severa norma.

C’è persino chi ha fatto di questo conflitto un modello di business posizionando la propria bancarella di foulard in prossimità dell’ingresso e ha messo insieme una fortuna a botte di tre euro al pezzo. Probabilmente paga una tangente a qualcuno che gli tutela la posizione di vantaggio rispetto agli altri ambulanti della Città del Vaticano. Non si spiega altrimenti il regime di monopolio.

brucia

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Esiste un patto occulto tra le forze armate e quelle disarmate ma comunque fondamentali a mantenere l’ordine e la sicurezza di questo paese. Non lo sostengo io né questo blog si assume la responsabilità di un pour parler che, dal mio punto di vista, non sta né in cielo né in terra. A prova di ciò è bene che sappiate che il padre di Ester faceva il vigile del fuoco e, anche ora che è in pensione, sembra potersi permettere il lusso di dare ordini a carabinieri, poliziotti e vigili urbani. Ester mi ha messo al corrente di quella volta in cui c’era un incidente in autostrada e suo papà ha redarguito una pattuglia, di stanza in un punto di controllo poco oltre, in quanto l’emergenza richiedeva la presenza degli agenti sul luogo dell’accaduto. Quello più alto in grado, incredulo da così tanta presunzione, ha preteso all’istante l’esposizione di un documento di identità e, di fronte al tesserino di ex componente del corpo dei pompieri, si è precipitato col resto della pattuglia a prestare assistenza agli automobilisti coinvolti e alle vittime.

Ester è così tanto dentro a questa storia che ha addirittura sposato un vigile del fuoco e io sono convinto che, sotto sotto, ci sia una sorta di disillusione da parte di una figlia di padre ingombrante nei confronti del genere maschile. Di certo uno scenografo, un cuoco o un musicista non portano dietro nemmeno le ciabatte a uno che spegne incendi e salva la gente prima che muoia abbrustolita.

Un aneddoto-spazzatura che, peraltro, suona strano a tutti quelli che invece pensano che ci sia una rivalità di corpo tra tutti i paladini della buona reputazione forzata del nostro tricolore.

C’era addirittura un coro da stadio di ultras di provincia che metteva sullo stesso piano carabinieri, celerini e controllori. Chi è, tra tutti questi, che garantisce la sicurezza e il decoro. Chi è la buoncostume, la guardia costiera, i forestali e la polizia ferroviaria. Chi ti fa il verbale se hai le gomme troppo lisce. A proposito, ho scoperto che ora, in barba alla dicotomia tra gomme invernali e gomme estive, esiste una varietà di pneumatici che si chiama quattro stagioni e che, quando l’ho sentita, ho pensato subito a delle ruote con i funghi a supportare l’autunno, il prosciutto e le olive in corrispondenza con l’inverno, i carciofi a figurare la primavera e infine i pomodori e il basilico in rappresentanza dell’estate. C’è chi dice che una pizza sia meglio di una parola, ma anche due, di pizze, se ben assestate. Ho avuto un batterista, una volta, che di mestiere faceva il pompiere e, come potete immaginare, meglio non scendere nei dettagli.

ragazzi di campagna

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A Fossano vive una una modella. Alta, con un taglio corto di capelli alla Isabella Rossellini ma chiari. Veste di nero dalla testa ai piedi ma non lo fa perché ascolta un certo tipo di musica, senza contare che nessuno conosce il suo nome. Si sa solo che è al terzo anno di filosofia ma va in facoltà solo per dare gli esami. La coppia di punk che rollano sigarette seduti sui marciapiedi della piazza della stazione incurante della sporcizia invece abita a Cortemilia ma ogni giorno scende in città con il pullman per frequentare il liceo artistico. Il punk dell’entroterra mantiene una matrice bucolica ma non per questo è meno radicale e distintivo e, soprattutto, si dimostrerà molto più propedeutico all’adattamento alle metropoli del nord Europa se si considera l’esperienza di quelli che denigrano i provinciali ma poi li ritrovi a cinquant’anni a rimpiangere le tradizioni locali sui gruppi Facebook e a portare a spasso il cane nello stesso parchetto dove sniffavano colla da adolescenti, in un contesto che è alle vette delle statistiche di vecchiume sociale. I punk di campagna sono previdenti ed è per questo che non si mescolano con i loro omologhi urbani. A Cairo invece c’è una discoteca che la domenica organizza serate di musica dark e new wave. Si possono trovare inviti rosa shocking nei negozi di abbigliamento di settore e alla cassa del parrucchiere specializzato in tagli alla moda. Vengono anche dalla città ed è facile scorgere in pista ballare i Lone Justice persino quella ragazza che è tornata da Londra dopo anni di sregolatezze con una cresta che si girano tutti a guardare. Dietro ai piatti c’è una dj che fa la giornalista su un quotidiano locale e, quando capita, scrive anche recensioni di concerti. A Cengio sono morti tutti per l’inquinamento e c’è poco da dire se non che a nessuno è venuto mai in mente di fare una serie tv come quella su Chernobyl.

la salsiccia al metro

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Il chiosco di Poldo se lo guardi da vicino è un furgone dalle volumetrie poco più ingombranti di un Apecar modificato – con le dovute licenze, è tutto regolare e ne ho le prove – per assolvere le funzioni di esercizio commerciale ambulante nel settore dello street food. Lo gestisce un mio conoscente che ha provato a laurearsi in architettura ma si è fermato agli esami più tosti di matematica, quelli in cui cadono tutti quelli che, se non cadessero, farebbero poi cadere i ponti autostradali, e così al posto del solito chiringuito che sono capaci cani e porci di renderlo redditizio si è cimentato in un settore molto chiacchierato.

Di sospetto c’è solo il brand che tira in ballo un personaggio dei fumetti di Braccio di Ferro, ve lo ricordate? Poldo Sbaffini – il cui nome originale inglese è J. Wellington Wimpy – va matto per i panini e il cibo tout court, per questo suppongo i traduttori abbiano optato per un nomen omen. Se girate l’Italia vi imbatterete spesso in molte insegne che richiamano film e cartoni animati in un modo che va ben oltre il tributo e la citazione in barba al copyright. Conoscevo l’autore di Calimero e la cosa – molto comune – lo faceva infuriare.

Comunque l’idea di business del chiosco di Poldo è piuttosto ingegnosa. Il gestore architetto mancato ha inventato una macchina con cui va ad approvvigionarsi nelle macellerie. Riesce a convincere i fornitori sul fatto che i suoi prodotti sono basati sull’idea di salsiccia al metro. Così il macellaio infila la salsiccia in un tubo e il paninivendolo gira una manovella che introduce la salsiccia nel macchinario e taglia la parte fuoriuscita all’altro capo del tubo quando sporge di un metro.

I macellai non sanno però che in realtà la macchina taglia la salsiccia in due punti: quella che vedono loro ma anche all’interno del tubo. Facendo così, altri 50 cm circa di salsiccia restano nel macchinario all’insaputa del fornitore. Con questo piccolo ma arguto raggiro il chiosco di Poldo può vendere fino a cinque panini con la salsiccia in più per metro di materia prima senza costi di partenza.

Con il suo furgone da street food il chiosco di Poldo fa la spola tra Liguria, basso Piemonte e bassa Lombardia. Il fatto è che sembra che la Milano-Sanremo, per problemi di mobilità, cambi percorso il prossimo anno. La classica di primavera costituisce una delle occasioni più remunerative per il venditore ambulante in quanto riesce a raggiungere più località attraversate dalla corsa ciclistica e, con un nuovo tragitto, la cosa potrebbe complicarsi e procurargli una perdita di profitti.

Leggevo questa notizia proprio ieri su un quotidiano locale ligure in cui il titolare del chiosco di Poldo è stato persino intervistato. Ero in visita da mia mamma che non vedevo da Natale (non sono un figlio degenere, semmai prendetevela con il coronavirus) e ho potuto approfondire la notizia perché mia mamma deve coricarsi dopo pranzo indipendentemente dal fatto che ci sia suo figlio in visita da Milano solo per qualche ora. A me non scoccia, figuratevi. Mica posso costringerla a rimanere in piedi se crolla dal sonno. Mi metto in cucina, apro il pc che viaggia sempre con me e scrivo qualcosa sul mio blog in attesa che si svegli.

ottimi maestri S01E01

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In un presente che vira tra il distopico e l’ucronico a seconda dell’umore dell’autore, Cesira è una bimba che ha appena terminato la scuola primaria e si appresta al grande salto nella secondaria di primo grado. In pieno regime del Partito dei Maestri, lo slogan “la scuola prima di tutto”, con cui è stato imposto il loro potere autoritario, è stato applicato alla lettera sino a cambiare radicalmente il sistema di istruzione in Italia, rivoltandolo come un calzino.

La scuola media dura sempre tre anni ma costituisce un ciclo che è completamente differente dal sistema che lo ha preceduto. Sono tre anni molto pratici e si sta pochissimo seduti sui banchi a rotelle, quelli acquistati a seguito dell’emergenza Covid-19. Cesira si appresta a seguire materie come educazione e igiene alimentare, in cui si sta in laboratorio (quello che i ragazzi chiamano cucina) a imparare quali sono i cibi di stagione, come si preparano le ricette, cosa è meglio mangiare e cosa no e tutti gli abbinamenti per crescere sani. Come si scelgono i prodotti al supermercato e che cosa è importante cercare sull’etichetta.

Poi c’è un’altra materia che ai pre-adolescenti piace molto. Una sorta di economia domestica in cui si imparano tutti i lati pratici della gestione delle proprie risorse. Come si pagano le tasse, come si fanno gli investimenti, simulazione di mutui e lettura dei contratti delle utility, quindi tutto quello che serve per vivere in autonomia. Ma anche i cicli della lavatrice e come tinteggiare le pareti quando si è stufi dello stesso colore. Fare i buchi nel muro con il trapano e mettere i tasselli. Poi si va persino in officina a studiare il codice della strada, imparare a guidare auto e moto e a sporcarsi le mani sul motore. Magari non tutti diventeranno meccanici, però saranno in grado di occuparsi delle operazioni basilari per la cura dei propri mezzi.

Nella scuola di Cesira poi si fa tantissima geografia, sia fisica che politica che umana. Tutti imparano a orientarsi nel mondo tanto quanto nel posto in cui vivono. Per non parlare dei piccoli trucchi per cavarsela nelle situazioni difficili che sicuramente non capiteranno mai, ma nel caso, perché nel frattempo non imparare a dormire all’aperto, accendere il fuoco come i primitivi, riconoscere gli animali, le piante, le stelle e tutto il resto?

Ci sono anche tante ore di sport. Si impara a nuotare, quello è obbligatorio, e una specie di percorso di orientamento fa capire a Cesira e ai suoi compagni lo sport più divertente, quello per cui sono più portati e che possa essere praticato anche con passione.

Le arti, poi, sono al centro delle esperienze dei ragazzi. La musica, innanzitutto, libera dal flauto dolce e dalla musica classica più pallosa, oggi si vive come va vissuta nella contemporaneità e con gli strumenti più appaganti, quelli che ti fanno venire voglia di continuare a suonarli. Sale prove, auditorium per concerti, ballo, danza e ascolti collettivi. E poi pittura, scultura, fotografia, video. Il tutto, naturalmente, si poggia su materie più tradizionali – italiano, lingue straniere, matematica, storia, scienze – utili a fornire una componente teorica e disciplinare al resto delle esperienze vissute.

La prima stagione si chiude senza esami e senza voti, tanto ci sarà già il futuro a premiare i migliori. Se volete, ecco piuttosto un spoiler della seconda: Cesira ha deciso di iscriversi al liceo delle scienze umanistiche, linguistiche e letterarie, una specie di liceo Classico dove però, al posto di greco, latino, matematica, fisica, scienze e chimica si studiano le letterature contemporanee italiana e straniere, si fa scrittura creativa, si impara a usare tutte le dita per scrivere sul pc e a formattare un foglio Word, si studiano le tecniche di comunicazione online e televisive, si fa pratica di giornalismo, sceneggiatura, saggistica, si imparano le lingue, si fa storia del novecento e tantissima attualità. Speriamo che la seconda stagione esca presto e che ce ne sia una terza: siamo tutti curiosi di sapere cosa farà poi Cesira da grande.

da dieci anni ogni giorno sui vostri schermi preferiti

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Cosa spinga la gente a tenere ancora un blog ai tempi degli influencer e dei selfie agli Uffizi non mi è ben chiaro. I blogger. Cosa avranno da raccontarci, poi, ogni giorno. Così egoriferiti, sempre a inventare stupidaggini, a onorarci del loro parere su qualunque argomento, a tentare di far passare per verità delle stramberie che nemmeno i bambini della primaria ci cascano più. Principalmente a proporre se stessi da tutte le angolazioni possibili, come se interessasse davvero a qualcuno.

Ci sono quelli dalla personalità così extralarge che non ne basterebbero due, di domini, a contenere tutto quello che scrivono. Ci sono quelli che trasudano autorevolezza in dosi omeopatiche. Una pillola e poi qualche giorno di tempo affinché il principio attivo sia rilasciato in lungo e in largo sull’Internet. Massimo rendimento con il minimo sforzo. Beati loro. Ci sono poi quelli che sono gli strumenti a essere cambiati. I canali. Come tutti i mestieri anche questo si trasforma velocemente, considerando che ogni stagione c’è un nuovo social che impone di ripensare il modo in cui distribuire i contenuti. Ci sono quelli che se ne fottono e scrivono e basta, convinti che la letteratura sia una questione di allenamento proprio come quelle app che ti spuntavano dal nulla in pieno lockdown per spiegarti come si poteva rimanere in forma su un tappetino di gomma di un metro quadrato.

Ci sono per fortuna anche quelli che offrono un servizio utile, avvisandoci di cose vere e dimostrate e rilanciando notizie altrettanto autorevoli di blogger come loro. Questi ultimi dovreste leggere, ma sono sicuro che lo fate già. Io ne seguo alcuni e, di questi tempi in cui anche i quotidiani sembrano allentare la morsa sulla verità, imparare i fatti da punti di vista meno istituzionali può risultare decisivo.

Ecco, vedete, tutti questi modi di intendere la scrittura su Internet sono da tenere in considerazione perché non troverete nessun nuovo Steinbeck – un genere di scoperte che vi raccomando di continuare a fare con i libri di carta – però, nella dimensione della conversazione, non credo che nella storia dell’umanità ci sia mai stato qualcosa di simile. Avrete notato come sui social non si sviluppino dialoghi ma, piuttosto, confronti, e saprete meglio di me quanto siano due modi differenti di interagire. Il confronto si fa usando i simboli di maggiore, minore e uguale e anche quando c’è l’uguale è perché c’è stato poco prima un tentativo di capire se uno dei due contendenti sarebbe riuscito a prevalere. Il dialogo invece è, appunto, una conversazione con domande e risposte e poi risposte ad altre domande e così via.

La stessa cosa avviene per strada, nei luoghi di aggregazione e persino al telefono. L’intenzione con cui ci si esprime verbalmente può condizionare l’interlocutore. La parola scritta al contrario non intimidisce perché, nel caso necessiti di una reazione, comporta una reazione asincrona e mediata dal mezzo.

Scrivevo qualche giorno fa – perdonatemi l’autocitazione – che mi piace girare a piedi, in bici e in auto con la mascherina anche quando non c’è bisogno perché, con metà faccia coperta, posso parlare da solo come mi pare e piace tanto nessuno se ne accorge. Qui, su questo blog che oggi compie dieci anni – già, dieci anni dal primo post – mi sento un po’ allo stesso modo. Ho la massima libertà di dire, cantare, fare versi come voglio, tanto chi mi legge non mi vede mica.

Alcuni aneddoti dal mio futuro, a dieci anni di distanza, si conferma il mio alter ego. Quello che sono e che non sono. Quello che sono stato e che vorrei essere e forse anche quello che sarò tra dieci anni, quando rileggerò il post del 28 luglio dell’anno del Covid-19. Ho avuto persino un’altra vita su un altro blog che poi era più un sito che aggiornavo in maniera rudimentale perché era il 99 e non c’erano piattaforme evolute come questa. Ma si è trattata di un’esperienza un po’ così. Bella, perché vivevamo nell’Internet primordiale. Modesta sotto tutti gli altri punti di vista, principalmente perché, quando mi rileggevo, non trovavo niente di Steinbeck.

Quando sono tornato alla carica qui, nel 2010, ho abbassato le aspettative, e ho preso la cosa così come sarebbe venuta. Uno di quei box dove gli esseri umani, nel tempo libero, esercitano i propri hobby. Io mi chiudo qui una mezz’oretta al giorno e parlo da solo, proprio come quando esco con la mascherina anti contagio. E niente. Ci sono stati alti e bassi, periodi di grandi commentatori, picchi di letture, giorni in cui sarebbe stato meglio se avessi fatto dell’altro ma poi, davvero, chi se ne importa.

Ogni tanto penso a come sarebbe organizzare una convention di lettori di “Alcuni aneddoti dal mio futuro” e poi mescolarmi nella sala tra i partecipanti giusto per capire davvero chi è che legge le cose che ci sono qui. Magari lo farò, un giorno, e prometto che ci sarà anche un buffet, alla fine.

Foto presa da Vettori di invito di Vecteezy

Protomartyr – Ultimate Success Today

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[questo articolo è uscito su Loudd.it]

Potrebbe esser peggio: potrebbe scatenarsi una pandemia globale. Composto a cavallo del coronavirus, il nuovo album dei Protomartyr suona bene lo stesso anche nel pieno dei contagi, una lugubre sigla di coda di una società a stelle e strisce che non era messa tanto bene nemmeno prima.

Che sia frutto di un esperimento maldestro o di un errore di laboratorio, che si tratti di un inquietante presagio della natura che si prende le sue rivincite o di una subdola scaramuccia batteriologica tra superpotenze commerciali, la pandemia da Covid-19 è un 11 settembre che riguarda tutto il pianeta. E, come l’attacco alle torri gemelle per i newyorkesi, il coronavirus si impone inesorabilmente a ogni latitudine come lo spartiacque tra un prima e un dopo, nella vita come nella letteratura e nella musica. Artisti, scrittori e band ne racconteranno le speculazioni nelle loro opere, d’ora in poi, ed esporranno con rigore i loro severi bilanci mettendo a confronto la vecchia spensieratezza con la nuova inquietudine. Il passato con una pietra tombale sopra, il presente che non sarà più quello di una volta, il futuro con i giorni contati.

“Ultimate Success Today” dei Protomartyr è uno dei tanti dischi già in odor di pubblicazione prima del lockdown che, dopo il lockdown, potrà sembrare una testimonianza a caldo di come andassero male le cose già prima che peggiorassero. Anche liberi dall’epidemia negli USA c’erano Trump, le diseguaglianze sociali, il muro ai confini con il Messico, i disastri naturali, il suprematismo con i muscoli, la polizia con le ginocchia sul collo degli afroamericani senza respiro sull’asfalto, i vecchi WASP a dare il benvenuto con le armi da giardino.

Prima che la diffusione senza confini del virus ridefinisse la scala delle priorità, i Protomartyr avevano già pronto l’epitaffio per il mondo come lo conoscevamo. Non fa così tanta differenza, quindi, se le dieci tracce della band di Detroit siano state composte a priori o a posteriori rispetto al ricovero del Paziente Zero. Possiamo leggere nell’amara e tetra poesia di Joe Casey, ispirata dalla paura della morte e dalla volontà di lasciare un testamento politico ed esistenziale, il primo resoconto dell’umanità che ha un motivo in più per sentirsi vulnerabile, un manifesto della società FFP2 che, con le mani unte di gel igienizzante soffocate nei guanti monouso, raccoglie i cocci di un tetro malessere atavico nato quando, per distanziamento sociale, si intendeva il rispetto di ben altre lunghezze e spazi metaforici.

Sarà una coincidenza, ma in questo annus horribilis il post-punk è stato estremamente produttivo. E l’ibridazione garage dei Protomartyr, al momento, ne risulta forse la variante più radicale, fiorita in una stagione tutta da dimenticare ma si sa, la storia è piena di cose bellissime nate dalle macerie. Il fatto è che anche se il Covid-19, rispetto ad avvenimenti come la Seconda Guerra Mondiale, è una gita a Gardaland, viviamo in tempi poco rassicuranti e dischi come “Ultimate Success Today” ne sono la colonna sonora più adatta. Possiamo dire che i Protomartyr musicalmente sono la fine del mondo, ma meglio non portare sfiga più di quanta già ne abbiamo intorno. Anziché perdere tempo in una rilettura dei Maya, è sufficiente analizzare i testi del nuovo album dei Protomartyr per capire che cosa ci aspetta.

Joe Casey ha dichiarato di esser stato poco bene, prima della diffusione del coronavirus. Stress, spossatezza e crisi da mezza età. La degenza, unita alla recente ristampa di “No Passion All Technique”, il disco di debutto della band, ha influito su una riflessione circa lo stato delle cose. Il malessere cambia la prospettiva sulle vicende del mondo, o è quello che si legge sui social che ci mette angoscia? Mutano i fattori ma non il risultato: le liriche dei Protomartyr, ancora una volta in “Ultimate Success Today”, non lasciano speranza.

Ma la band non è solo Joe Casey che, un po’ crooner e un po’ declamatore, biascica intonando i suoi flussi di coscienza da una stagione all’inferno, perché Scott Davidson (basso), Greg Ahee (chitarra) e Alex Leonard (batteria) ne costituiscono il vero apparato di amplificazione, un megafono in grado di potenziare con un muro di suono l’effetto struggente delle parole, un rumoroso ed entropico dedalo sotterraneo di strumenti elettrici, archi e fiati in costante competizione con l’incedere straziante del cantato per la conquista dell’attenzione dell’ascoltatore.

Il valore aggiunto al suono, questa volta, è dato dalle improvvisazioni del sassofonista Jemeel Moondoc, dalle incursioni di Izaak Mills alle ance e di Fred Lonberg-Holm al violoncello, e dal cameo vocale di Half Waif. L’effetto è lo stesso che ci aveva trasmesso “Blackstar” di Bowie: metti in mano a qualcuno che mastica un po’ di jazz una traccia su cui improvvisare e allora sì che ci sono possibilità di ottenere, all’istante, un vero ultimate success. Basta invertire i paradigmi dell’approccio: un po’ meno passion e un po’ di technique in più. E, nell’insieme, lo stile musicale dei Protomartyr conferma il mix tra post-punk e noise rock, con la stessa alternanza di dissonanze e puzzle armonici a cui la band di Detroit ci ha già abituato.

L’album si apre con “Day Without End”, un’introduzione senza fine che cresce orfana di una risoluzione, un climax che toglie il fiato. “Non posso essere raggiunto”, esordisce Casey, e non importa per quante volte l’half sister dell’ultima di traccia di “Relatives in Descent” ci avesse provato. “An empty space/That’s the whole of me” è la constatazione lapidaria della natura del cantante e, allo stesso tempo, un ponte sospeso sul nulla con il disco precedente. In “Processed by the Boys” i Protomartyr mettono al centro del dibattito la trasformazione degli USA in uno stato di polizia e le crescenti limitazioni alle libertà civili. La distruzione non avrà nessun carattere hollywoodiano, tanto meno non sarà nessuna malattia esotica a fare piazza pulita. La realtà è molto meno scenografica e ha il volto sorridente degli agenti federali dell’ICE (la polizia statunitense che si occupa del controllo della sicurezza delle frontiere e dell’immigrazione) che ti processano per decidere il tuo destino. I colpi di chitarra suonano come pugni in faccia sferrati dall’autorità precostituita per liberare il campo al clarino basso, agile a insinuarsi e lenire le ferite.

Quindi una parte di Casey scende dal palco e inizia ad osservare – con approccio da stalker – quello che ne rimane sopra in “I am you now”, mentre in “The Aphorist” lo spoken word lascia spazio finalmente a un po’ di melodia, almeno fino a quando il brano si impenna in un furioso bridge post-grunge. Dopo è lo spettrale incipit di voce femminile a condurci nel pieno dei fastidi dell’estate in città. È il “June 21” ed è tutto un frinire di cancelli arrugginiti e ventole, a tempo sul pezzo più post-punk dell’album. Il mulo della copertina, l’animale che proverbialmente più di tutti incarna il lavoro duro senza ricompensa, fa capolino in “Michigan Hammers”, insieme al violoncello che doppia una veloce frase di chitarra. Il suono dei Protomartyr torna a essere decisamente allarmante in “Tranquilizer”, a dispetto del titolo, un testo sul disagio fisico caratterizzato da un latente fastidio di sax che culmina in picchi di noise a dare la scossa, per virare sul punk di “Modern Business Hymns” e sulla cinica descrizione del presente, in cui ritorna il titolo dell’album: “The past is full of dead men/The future is a cruelty/Resign yourself/Hey, have you heard them say/Ultimate Success Today?”.

Il disco così si avvia alla fine, con il concentrato di emozioni di “Bridge & Crown” e il lugubre commiato di “Worm in Heaven”, una canzone con cui Casey ci dice addio e nella quale, in uno star-system di cantanti suicidi, forse dovremmo cogliere un campanello di allarme.

In un momento di carestia di ottimismo, di certo “Ultimate Success Today” non è la soluzione a meno che, come ci hanno abituato questi quattro testimoni dell’angoscia da Detroit, non ci resti nessuna alternativa che spegnere i riflettori, chiudere gli occhi nell’oscurità e godere dei contorni dell’ultima immagine che ci rimane, prima di perderla per sempre nel buio. Se già “Relatives In Descent” era un album superlativo, “Ultimate Success Today” si colloca una tacca sopra e va a conquistare l’ingombrante ruolo di perfetta soundtrack per questo momento in cui, crogiolandoci pigramente su un’amaca intessuta di spleen, non sappiamo ancora bene che cosa accadrà, se ci sarà un album nuovo più avanti dei Protomartyr, se saremo ancora qui ad ascoltare dischi.

quando la vita ti mette due meno meno

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Non bastavano gli spot sulla micosi delle unghie all’ora di cena. Ora, attraverso un efficace modello digitale in 3D, possiamo vivere un’esperienza di rimozione di cerume virtuale dall’interno di un orecchio gigantesco. Certo, le dimensioni e quindi l’effetto dipendono dalla risoluzione del vostro televisore e certo, è sufficiente spegnerlo mentre si mangia tutti insieme perché nella convivialità non c’è spazio per gli spot trash ed è molto meglio fare conversazione. Mia figlia è tornata da una delle numerose settimane di vacanze che ha trascorso insieme a un gruppetto di compagne di classe a casa dell’una e dell’altra. L’unica che non ha una sistemazione di villeggiatura in cui ricambiare il giro di ospitalità potete immaginare chi sia. Ero proprietario di una cascina sull’appennino ligure prima che mio cognato e mia sorella me la sottraessero con un raggiro ma questa è un’altra storia. Comunque non era un posto adatto a loro, tutt’altro che comodo per delle ragazze senza macchina e troppo isolato. Sono protettivo in eccesso? Leggevo poco fa a proposito di figlie che non riescono a trovare un partner degno di sostituire il ruolo ricoperto dal padre nella loro vita. Se così fosse, spero di non esser così bravo in modo da non essere di ostacolo alla sua felicità. Per farvi un esempio, quando lo scorso anno la prof di scienze le ha messo due sulla verifica di chimica mi sono irritato moltissimo. Poi, a freddo, ho ripensato a quando avevo preso due meno meno in latino, un voto che ci sta tutto se sbagli il novantanove per cento dei verbi da tradurre perché hai studiato poco. Io non metterei mai un voto così umiliante, piuttosto farei recuperare le verifiche dopo aver convinto lo studente a comportarsi un po’ meno da asino. Potrei anche far passare questa presa di posizione contro i due meno meno come un flash mob contro la casella di posta che il ministero dell’istruzione mette a disposizione dei docenti. Avete capito bene: nel duemila e venti un ministero fornisce una casella di posta @istruzione.it, che peraltro sta diventanto @poste.istruzione.it al personale scolastico. Questo ai tempi di gmail e degli strumenti di ERP. Pensate che, addirittura, esiste una piattaforma ministeriale dal nome SOFIA – Sistema Operativo per la Formazione e le Iniziative di Aggiornamento la quale eroga corsi dedicati ai docenti ma che consente esclusivamente la registrazione – di conseguenza la fruizione – agli account @istruzione.it. A me sembra una cosa folle, da due meno meno ma forse anche di meno. Così niente, cerco di aggiornarmi su altri canali meno obsoleti e aspetto che, almeno con lo SPID, le cose cambino. Che già, di per sé, lo SPID è un’assurdità, ma pazienza.

due pale così

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Gli esseri umani di genere maschile si suddividono in diverse categorie che potete facilmente sistematizzare introducendo, come argomento di conversazione, il fatto che avete comprato le pale da soffitto per la camera da letto. Intanto la macro-differenziazione di base si genera a seconda se l’avete montate e installate in prima persona (CAT 1) o se vi siete avvalsi di un elettricista o comunque un tecnico (CAT 2). Qui siamo alla definizione degli archetipi, una categorizzazione che si perde nella notte dei tempi anche quando l’elettricità non era stata ancora inventata, tanto meno cose come le pale da soffitto. I modelli da CAT 1 sono maschi solitamente alfa ma i modelli da CAT 2 non è detto che non lo siano perché tale categoria si suddivide tra quelli che hanno chiamato una terza persona perché abbienti (CAT 2.1) e quelli più inetti che hanno fatto ricorso al lavoro di altri perché poco portati per i lavori manuali (CAT 2.2, il peggio che c’è sul mercato). Seguono gli uomini che ti chiedono quanti tasselli hai usato (CAT 3), a loro volta distribuiti tra quelli che ne impiegano quattro (CAT 3.1) e quelli che ne impiegano sei (CAT 3.2) indipendentemente dal raggio della rotazione, dal peso dell’articolo e dalla velocità con cui il motore fa girare le pale. Attenzione: non è detto che gli appartenenti alla 3.2 siano superiori in quanto ad affidabilità: è vero che con sei tasselli la pala è assicurata più saldamente al soffitto ma si tratta di un’accortezza che potrebbe anche denotare eccessiva ansia e non esser frutto solo di prudenza. Al contrario, aver piantato solo quattro tasselli può costituire il riflesso di una forte sicurezza di sé, razionalità, capacità di rispondere a problemi con soluzioni e avvedutezza nella gestione delle risorse.

Ci sono poi quelli che sono interessati ad aspetti commerciali o a dati di benchmarking (CAT 4) e ti chiedono o quanto l’hai pagata (CAT 4.1) o dove l’hai comprata (CAT 4.2), categoria a sua volta divisa tra quelli che si sono affidati a brand del monopolio del fast-faidate come il Leroy Merlin (CAT 4.2.1), riconoscendo quindi il primato di quelli che ci lavorano (CAT 4.2.1.1, categoria che un giorno dominerà il mondo), a cui si aggiunge la categoria di quelli che hanno esplorato di persona in lungo e in largo il territorio per individuare il modello più adatto alle proprie esigenze (CAT 4.2.2) e quelli che hanno acquistato le pale su Amazon (CAT 4.2.3), che dagli esemplari di tutte le precedenti categorie sono l’equivalente della sabbia negli occhi.

A queste si aggiunge la categoria di quelli che hanno operato la scelta in base a criteri pratici (CAT 5) come la lunghezza dell’attacco, in modo da evitare inopportune oscillazioni durante l’utilizzo (CAT 5.1), rapporto tra lunghezza delle pale e volumetrie (CAT 5.2, spesso laureati in ingegneria), consumi e classe energetica (CAT 5.3, spesso sono grillisti), materiale di costruzione (CAT 5.4) e infine quelli che, indipendentemente dai consigli degli uomini appartenenti alle categorie precedenti, molto più ferrati in materia, si sono esclusivamente basati su fattori estetici come design e colore (CAT 6). E voi, a quale categoria appartenete?