bentornato a casa

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Dell’esperienza alla visita dell’Università di Nizza, o Conservatorio di Jazz come lo chiama mio papà alla fine del sogno, non mi è rimasto granché. Si è trattato di un sopralluogo di qualche giorno in un campus statunitense – malgrado, si sa, Nizza sia nel sud della Francia ma probabilmente è uno degli scenari di località all’estero più definiti che ho nella memoria, o comunque è il primo luogo al di fuori dei confini nazionali che ho visitato in vita mia – per verificare se studiare e prendere la laurea (la seconda, probabilmente) lì potesse risultare la scelta migliore. Di sicuro ho potuto appurare che ci si impegna, e parecchio. Le materie sono quasi tutte afferenti alla psicologia dell’età evolutiva e, come molti degli ambienti di formazione che ho frequentato da studente, è popolato per la maggior parte da ragazze. Ne ho incrociate tantissime e di tutte le età mentre facevo su e giù per le scale, visitando la scuola. Me ne sono reso conto verso i titoli di coda, quando ho cercato il bagno per fare pipì prima di accomiatarmi dalla struttura. I bagni erano tutti femminili ed è stato difficile trovare un punto in cui poter liberarmi. Che poi, nei sogni, è una scena sempre rischiosa, tra realtà e finzione, quindi prima di girarla accertatevi che non vi scappi veramente. Non solo. Erano i bagni della mensa e li ho utilizzati all’ora di pranzo. Trascinare il trolley in quell’ambiente non certo sporco ma, comunque, molto frequentato mi metteva in difficoltà e controllavo di non attraversare con le rotelle della valigia pozze di liquido dalla dubbia natura. C’erano però studentesse che mangiavano sdraiate sul pavimento utilizzando uno di quei vassoi bianchi divisi in settori, però inclinati proprio come il tavolinetto Ikea per usare il notebook a letto, non so se avete presente. Proprio come da bambino non vedevo l’ora di tornare a casa, anche se devo ammettere che anche adesso che sono anziano il rientro costituisce una delle fasi migliori di qualunque viaggio. Però, nella scena iniziale, quando ho piagnucolato con mia mamma mentre mi accompagnava dalla macchina sino all’ingresso del campus, la nostalgia era mescolata alla curiosità della nuova esperienza. Questo contraddittorio stato d’animo è provato dal fatto che, prima lasciare la scuola definitivamente, io mi imponga un’ulteriore visita nei luoghi più frequentati dai ragazzi per cogliere la vera essenza di un’università straniera e di ciò che avrei potuto trovare laureandomi lì. Quindi mi appresto ad abbandonare il campus. Devo chiamare mio papà, che sta tornando a prendermi, al telefono per prendere accordi sul posto in cui incontrarci. Il fatto è che non so nulla, a partire dal nome della via. Valuto anche l’idea di chiamare mia nonna, al posto di mio padre, considerando che se sta guidando potrebbe non rispondermi. Chiedo consiglio a mia mamma, che inspiegabilmente si trova insieme a me nella hall gremita di persone – ricorda la stazione di una grande metropoli – che però mi dà una risposta evasiva e si concentra sul fatto che fuori, proprio ora che devo uscire, è scoppiato un temporale. Le ricordo che negli USA, anzi a New York questi repentini cambi di condizioni meteo sono piuttosto frequenti. Mia madre mi saluta, augurandomi buon viaggio, e torna a impersonare la protagonista di una pubblicità in un display da digital signage cilindrico collocato intorno a un’edicola ubicata proprio appena fuori dall’ingresso, una scena che ricorda Blade Runner. Penso che la cosa migliore, non conoscendo l’indirizzo, sia di prendere accordi con mio papà per vederci sul litorale. Nizza ha un lungomare incantevole e il fatto che a sud ci sia la spiaggia è l’unica coordinata geografica affidabile sulla quale si possa contare. Mentre sto per comporre il numero sullo smartphone – nel frattempo ha anche smesso di piovere – sento la voce di mio papà che mi chiama dall’altro lato della via. Ho un po’ di difficoltà a passare tra le auto parcheggiate con il trolley e, mentre attraverso la strada, cerco con lo sguardo quale possa essere l’auto che ha noleggiato per arrivare sino a lì, pensando che è meglio se guidi io al ritorno, considerando che è molto anziano e sarà già stanco per essere arrivato sino qui. Finalmente lo vedo, è proprio come nella foto che abbiamo scelto per la lapide, scattata in un momento della sua vita in cui era ingrassato e, per questo, un frammento che non gli rende giustizia. Oltre alla gioia di rivederlo mi sorprende la scelta del mezzo, un furgone Volkswagen California di colore scuro, lo stesso che mi piacerebbe comprare se non costasse un occhio della testa. Ora che ci penso avrei potuto sbirciare il numero di targa per poi giocarlo al lotto ma non sono così pronto a trarre vantaggio dalle situazioni, sia che sogni o che sia desto. Mentre mi avvicino, dalla portiera anteriore aperta, esce persino un cane, un bellissimo golden retriever già adulto. Seduto al volante, imposto Google Maps per trovare il percorso più veloce, e non devo nemmeno scrivere l’indirizzo completo perché ho già memorizzato, tra le opzioni presenti, il pulsante che mi porta direttamente a casa.

l’ultima di agosto, la prima di settembre

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Da ragazzo vivevo nella convinzione che i nostri bioritmi seguissero le stagioni dell’anno e ci fosse un legame diretto tra ciò che siamo, le condizioni meteo e le convenzioni sociali, le ferie per esempio, che si adattano alle condizioni meteo. Poi però ho capito che non era proprio così e l’aspetto paradossale è che ne ho avuto le prove proprio mentre appuravo che un sacco di gente matura questo tipo di certezze e programma la propria vita facendo attenzione al calendario. Comunque, se volete saperlo, io facevo parte di quelli toccavano il fondo da ferragosto in poi, accumulavano energie e riflettevano sul da farsi a settembre per poi manifestarsi in tutto il loro splendore da ottobre a gennaio. Seguivano le grandi gesta a cui l’avvento della primavera induce, ma credo sia un exploit comune a tutta la natura, per poi toccare la vetta in giugno, vivere di rendita sino a luglio e infine ripiombare nella depressione dell’ottavo mese, come ogni anno. In realtà, da ragazzo, non avevo molti soldi per permettermi vacanze in agosto e, così, mentre gli amici se la spassavano a Barcellona, qualche linea di tristezza ci stava eccome. Non a caso, quando poi mi sono omologato al sistema, mi sono trovato un lavoro come tutti gli altri e mi sono adattato alle ferie di massa, ho constatato che la depressione di agosto non ha affatto interrotto il suo corso ma, con il mare della Sardegna davanti, per esempio, risulta molto più sopportabile.

a questo punto se ne riparla dopo Natale

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In un futuro distopico ma dalle sconcertanti sfumature ucroniche una pandemia globale ha messo in ginocchio un intero sistema sociale ed economico e, di conseguenza, scolastico.

A seguito di una serie di efficaci provvedimenti di distanziamento sociale e di best practice di profilassi il contagio subisce un brusco rallentamento. Euforia ed entusiasmo dilagano tra la popolazione. Con l’approssimarsi della bella stagione la gente torna a riversarsi nelle strade e verso le località di villeggiatura in segno di rottura con le limitazioni alla libertà di movimento subite nel corso del lockdown vissuto lungo i mesi dell’emergenza.

L’autunno successivo riprendono persino le attività didattiche in presenza ma, vista l’urgenza e il continuo alternarsi di priorità, in modo piuttosto rocambolesco. L’espediente narrativo è alla base della sceneggiatura di ogni episodio di questa avvincente serie Netflix che presenta un finale diverso a seconda del provvedimento preso dal Ministero dell’Istruzione, secondo il trend imposto dalle fiction più seguite. Ecco l’elenco delle puntate della prima stagione:

1. Tutti gli studenti con la mascherina?
2. Non più di dieci studenti per ogni classe?
3. Dieci studenti in classe con la mascherina e gli altri dieci a casa?
4. Gli altri dieci a casa senza mascherina seguono le lezioni a distanza?
5. Si fanno i turni?
6. Non si fanno i turni?
7. Ci vogliono i banchi più piccoli?
8. Sul banco non ci sta il Castiglioni-Mariotti?
9. Le versioni si fanno solo da casa?
10. Si usa il vocabolario sullo smartphone che occupa meno spazio?
11. E i bambini della primaria?
12. E quelli che vanno in prima quest’anno?
13. E allora quelli dell’infanzia?
14. E il sistema scolastico finlandese?

E finalmente il colpo di scena, il primo giorno di scuola dopo settimane di dibattito. Giannino fa la quinta primaria e ha la mamma insegnante nella stessa scuola. La mamma a fine agosto ha superato con successo il test sierologico imposto dal ministero e si appresta a un nuovo anno scolastico pieno di incognite ma privo del personale per garantire non solo eventuali turni o imprevisti ma lo svolgimento regolare, quello a cui i cittadini erano abituati prima della pandemia.

Giannino – come molti bambini – ogni anno comincia con la bronchite a ottobre e gli passa a maggio. Il secondo giorno di scuola, dopo la mensa, gli viene misurata la temperatura che risulta di 38,5. La mamma/maestra è in servizio, per fortuna di Giannino ma per sfortuna di entrambe le classi. Il sistema sanitario mette in quarantena Giannino e tutta la sua classe con il corpo docenti, la mamma insegnante con i docenti colleghi e i bambini della classe in cui insegna.

I genitori degli alunni delle due classi, che avevano diffidato la Dirigente a spostare negli spazi dedicati all’isolamento i figli febbricitanti abboccando a una bufala diffusa su Facebook, vengono sottoposti a uguale trattamento dalle aziende in cui lavorano. Nel frattempo Google revoca la gratuità della piattaforma di didattica digitale che aveva messo a disposizione delle scuole e, con il sottofondo di una celebre hit heavy-metal, scoppia la rivoluzione.

la prima a sinistra

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Adoro quando mi chiedono indicazioni stradali perché, di base, mi piace se qualcuno mi pone una domanda e mi fa sentire importante. Chiedere come si fa ad arrivare in posto è una pratica sempre più rara ai tempi di Google Maps. Eppure non è raro che automobilisti e motociclisti si rivolgano a me in situazioni di difficoltà. A onor del vero devo dire che mi succede quando vado a correre, perché corro in orari in cui in giro non si incontra mai nessuno e lungo percorsi in cui non c’è mai anima viva. Non si dovrebbe interrompere l’allenamento di un runner perché facilmente sta superando un primato con se stesso e, fermandolo, svanisce l’incantesimo. Ma in me prevale la cortesia sull’affermazione del mio lato atletico così rallento, sfilo gli auricolari, mi avvicino al finestrino, mi metto in ascolto, mi concentro sul percorso più efficace, me lo visualizzo lungo una piantina immaginaria, quindi inizio a descrivere accompagnando il racconto con gesti chiarificatori, ripetendo il tutto almeno due volte perché, si sa, quelli poco sicuri di sé tendono ad assicurarsi che l’interlocutore comprenda al meglio quanto hanno da dire perché temono di essersi spiegati male.

Ho pensato di inaugurare così, a partire da oggi, un nuovo appassionante passatempo da spiaggia per i lettori di questo blog. Scriverò qui sotto le indicazioni stradali che ho dato poco fa. Provate a indovinare da dove è partita per arrivare a destinazione la coppia di vecchine che si è rivolta a me:

– tornate indietro e alla rotonda voltate a destra
– proseguite sempre dritto superando tutte le rotonde che incontrerete
– incrocerete perpendicolarmente la Rho-Monza: voltate a sinistra in direzione Rho
– uscite al primo svincolo, voltate a destra e seguite verso il centro di Bollate
– proseguite sempre dritto fino alla prima rotonda, alla quale girate a sinistra
– proseguite ancora sempre dritto sino all’incrocio perpendicolare con la Varesina (c’è un semaforo)
– voltate a destra e seguite la Varesina sino all’Esselunga di Garbagnate
– troverete una rotonda, girate a sinistra e guidate sempre dritto sino ad arrivare al Centro Commerciale di Arese.

Provate a seguire il percorso a ritroso e troverete il punto di partenza. Comunicherò personalmente il premio al vincitore. Speriamo che sia una vincitrice. E speriamo che le due vecchine siano arrivate a destinazione.

The Psychedelic Furs – Made of Rain

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[questo articolo è uscito su Loudd.it]

«Dove ho già sentito questo cantante?» è la domanda che, immaginiamo, si sia posto il popolo millennial dell’indie/post-punk all’uscita di “Don’t Believe”, primo singolo tratto da “Made Of Rain” e pubblicato dai The Psychedelic Furs alle soglie del lockdown.

Ce li figuriamo, questi giovani con la t-shirt di “Unknown Pleasures”, darsi una manata sulla fronte – proprio come quando troviamo la soluzione al tarlo che ci arrovella e non dà tregua – ed esclamare una qualsiasi formula di eureka per aver finalmente scoperto l’archetipo che più di una delle band sulla cresta dell’hype dei nostri giorni ha adottato come marchio di fabbrica, un’alternativa meno vincolante e scontata al timbro di Ian Curtis. Richard Butler è proprio quella voce lì, così iconica per gli anni ottanta come per il duemila e rotti, perfetta tanto per “Pretty in Pink” quanto per “Stranger Things”.

E chissà se è tutta questa attenzione per gli anni ottanta ad aver spinto i The Psychedelic Furs a rimettersi in gioco, se alla base ci sia un desiderio di riscatto per ricordare al mondo che la splendida musica che c’è adesso deriva da un nucleo di padri fondatori che vede proprio loro occupare i primi anelli di una ancestrale catena sonora.

Ma anche se fosse tutto premeditato – un calcolo interessato per sincerarsi che il mondo ha ancora voglia di spendere soldi in dischi, riproduzioni di singoli sulle piattaforme di juke-box virtuali, partecipazioni con mascherina ai concerti live perché, tutto sommato, qualche soldo ai ragazzi del nuovo millennio e ai cinquantenni che arrivano da quello precedente lo si può ancora scucire – chi se ne importa.

Dei The Psychedelic Furs non si avevano novità dall’uscita di “World Outside” nel 91 e dall’impiego della cover di “How soon is now?” dei The Smiths ad opera dei Love Spit Love – band guidata da Richard Butler con il chitarrista Richard Fortus, confermato in “Made Of Rain” in veste di produttore – come sigla della serie tv “Streghe”, a cavallo tra i due secoli.

Facile quindi immaginare il mix di entusiasmo e perplessità alla vigilia dell’uscita di “Made Of Rain”. I sessantenni fanno rock per i sessantenni perché le nuove generazioni sono – giustamente – interessate ad altro e a volte non darsi pace perché – ancora giustamente – sei attaccato alla vita e non vuoi toglierti di mezzo può risultare, come minimo, patetico.

Non è certo il caso dei The Psychedelic Furs. Delle tre vie – 1. tornare a ruggire con lo stesso vigore dei vent’anni con il rischio di dover abbassare di almeno due toni tutte le canzoni e di alzare almeno di due misure la taglia dei pantaloni in pelle; 2. presentarsi in versione acustica come vecchi nostalgici con la sbronza triste che il pubblico si ferma ad ascoltare per pietà come si fa con il nonno che racconta per la trecentesima volta lo stesso aneddoto – hanno scelto la più saggia: i suoni sono gli stessi di sempre, il genere si sente che è suonato da persone non più giovanissime, la forza emotiva è il risultato di chi vuole aumentare la propria arte con il valore aggiunto della maturità, consapevole che essere anziani e rockettari (nel caso dei nostri, post-punkettoni) può risultare, tutto sommato, una condizione dignitosissima.

Un’esperienza vissuta in prima persona, descritta in “I Am The Boy That Invented Rock ‘n’ Roll”, la traccia che introduce “Made Of Rain”, raccontata in versi come “The breathless air the frozen tide / The greenless spring the timeless night / The suicidal drunken dance / The sense that things will fall apart”.

E chissà che la pioggia, elemento di cui è composto questo nuovo lavoro, non sia proprio la stessa che scendeva copiosa nel video di “Heaven”, un evergreen da chissà quante centinaia di migliaia di copie vendute, uno dei brani più rappresentativi degli anni ottanta che ha contribuito alla fama mondiale della band inglese. Di sicuro, seppur privo di un singolo da hit parade di altrettanta portata, “Made of Rain” è ricco di canzoni di indubbia qualità a partire dai singoli che hanno anticipato l’uscita dell’album: “Don’t Believe”, con il suo manto psichedelico, la romantica “You’ll Be Mine”, “Come All Ye Faithful” costruita tutta su un solo accordo e soprattutto “No One” e la sua atmosfera dark-wave. A completare la varietà degli ascolti contribuiscono canzoni come “Ash Wednesday”, un sofisticato lento piuttosto anomalo per la band di Butler e certe reminiscenze eigthies come “Wrong Way” o “Turn Your Back On Me”.

Meno graffiante dei tempi d’oro ma molto più autentico di analoghe iniziative di altri artisti ultra-sessantenni, “Made of Rain” si candida a costituire l’album del ritorno in grande stile per una delle band che ha influenzato di più i gruppi dell’attuale rinascimento post-punk, gli stessi nei quali abbiamo riposto tutte le speranze affinché al rock sia conferito il lustro che merita. I The Psychedelic Furs, anziché tentare una sconveniente operazione nostalgia della band che ci faceva ballare ai tempi di “Talk Talk Talk”, dimostrano di saper guardare avanti senza rinnegare le radici, reinterpretando da grandi, anzi, da anziani il genere che li ha resi unici, consapevoli di aver già detto tutto sul loro personalissimo ed eclettico post-punk allora.

in vacanza in un altro tempo con techetechetè

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Non ci sono serie Netflix, dirette Facebook e anteprime Youtube che tengano. Il vero binge-watcher boomer è lo spettatore che, dopo aver seguito l’episodio del giorno, cerca su Raiplay tutte le puntate trasmesse nella settimana precedente in cui, in viaggio o in vacanza, non ha avuto a disposizione una tv o una connessione decente per ricorrere all’app sullo smartphone. Mi riferisco alla trasmissione “Techetechetè”, oramai un appuntamento fisso degli anziani soprattutto per le puntate della categoria “Jukebox” o “Sanremo” che, come è facile immaginare, riguardano passaggi di cantanti e gruppi italiani in programmi musicali e varietà del passato.

Gli appassionati oramai sanno che, con una cadenza abbastanza regolare, ogni uno o due episodi di “Techetechetè” dedicati al cabaret è la volta degli speciali sulle canzonette e alle 20.30 circa, in coda al TG1, monopolizzano la tele e non ce n’è per nessuno. Le mogli e i figli osservano compassionevolmente questo ulteriore passo nei meandri della terza età del partner che, fino a pochi anni prima, si dichiarava un progressista estremista e radicale, tutto quattro punto zero e proiettato in avanti verso i linguaggi del nuovo millennio. Ora è sufficiente un istante di Antonella Ruggiero con un taglio new wave che mima il playback di “Elettrochoc” per mandarlo in estasi. “Techetechetè” ha solo tre limiti: su Raiplay ci sono solo le puntate degli ultimi sette giorni, passano poco band come Le Orme, la PFM e gli Area e, soprattutto, non ha me come selezionatore del materiale dagli archivi Rai. Rinnovo la mia disponibilità ai dirigenti della tv pubblica a occuparmi di questo progetto, nel piedino della pagina trovate l’email a cui contattarmi. Non costo molto. Vale ancora, ovviamente, la mia proposta (l’ho già dichiarato da qualche parte) di allestire un canale satellitare Rai in cui trasmettere h24 interi palinsesti tv quotidiani degli anni precedenti sulle reti pubbliche. Il 18 agosto del 2020 passare quanto andato in onda il 18 agosto del 1976, per esempio. Spero di essermi spiegato. Anche per questa iniziativa, naturalmente, potete contare su di me.

la lista

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Ho trovato una lista di cose da fare che qualcuno deve aver scritto da poco perché è introdotta da un’intestazione comprensiva della data di ieri. Pensavo di fare una foto del foglio e poi condividerlo sui social, capita spesso che, con il passaparola, chiavi e oggetti smarriti ritrovino il loro proprietario. Alcune voci però mi sono sembrate molto personali non appena ho notato l’elenco abbandonato sull’asfalto del parcheggio del supermercato e non mi è sembrato il caso di divulgarle. Non si trattava nemmeno di una lista della spesa, considerando il contesto. Per non incorrere in esperienze di questo tipo è da anni che mi segno le cose da fare su Google Keep che, a meno di non rimanere senza carica sullo smartphone o di perderlo o romperlo proprio quando ti serve risulta, alla fine, la cosa migliore.

Il fatto è che ho letto i punti elencati su quel foglio e ho riconosciuto diverse incombenze comuni, cose che devo affrontare anche io e al più presto. Anche io ho diversi toner della scuola chiusi in uno scatolone riciclato da Amazon in garage da portare in discarica. Anche io devo sostituire il telefono fisso perché chi mi chiama trova sempre libero e invece non squilla. Ci sono poi i libri di testo nuovi da acquistare, anche se è meglio aspettare sino all’ultimo per capire che cosa succederà con la pandemia. Rimettere in ordine gli spazi domestici prestati allo smart working, una voce che mi ha fatto venire in mente come tenevo la scrivania quando lavoravo in ufficio. Poi ho pensato agli scaffali in cui conservo il materiale didattico a casa e, purtroppo, non c’è molta differenza. Anche io devo quindi decidermi a scegliere un nuovo notebook per mia figlia, nel caso si riparta con le lezioni da casa, e, soprattutto, anche io devo far fronte all’impegno a cui non posso più sottrarmi e con il quale ho deciso di inaugurare questo ritorno dalle vacanze, preludio alla partenza del nuovo anno con il piede giusto. L’anonimo compilatore della lista smarrita ha cerchiato, con un pennarello verde e proprio come avrei fatto io, il cambio di pneumatici per l’auto della moglie. Mi è sembrato un ottimo suggerimento e ho inteso il fatto che l’evidenziazione, rispetto alle altre voci dell’elenco, corrispondesse a una maggior urgenza di esecuzione.

Il ritrovamento della lista è stato quindi provvidenziale. Ho prenotato anch’io il cambio gomme perché mi piace quando non sono tenuto a decidere le priorità ma se ne occupa qualcuno in mia vece. E chissà, forse io e il mio alter ego ci incontreremo lo stesso giorno alla stessa ora nella stessa officina e, come un contatto involontario tra materia e antimateria qualunque, l’universo esploderà.

anacronismi

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Ci troviamo sempre più a disagio con le storie alla tv e nei libri scritte prima dell’avvento degli smartphone perché molte delle cose che accadono potrebbero andare diversamente con un telefono connesso a Internet, alle app e ai social network. Non è che film e romanzi ambientati prima del 2007 non possano essere avvincenti. Il fatto è che siamo talmente abituati alle persone con la testa chinata e l’iPhone in mano che la vita analogica, oltre a essere preistoria, ci sembra impossibile quanto immaginare un mondo senza elettricità, cinema e sistema fognario. Da qualche tempo mi capita di sorprendermi al cospetto dei programmi alla tele in cui i protagonisti sono senza mascherina. Donne e uomini di ogni età che camminano, lavorano, dialogano e si amano senza nessuna protezione anti-Covid, perché scritti e realizzati prima di febbraio 2020 o (raramente) dopo la fase due. La mascherina ci è di ostacolo nei comportamenti più naturali, con il caldo dà fastidio e respirare il proprio alito non credo sia piacevole per nessuno. Il fatto è che può salvarci la vita. Avvocati che parlano in tribunale, poliziotti che corrono dietro a malviventi, astronauti che viaggiano nello spazio, ragazzi che si aspettano fuori dalla scuola e, appena si vedono, si baciano. Azioni quotidiane che, con la mascherina, sono tutte da ripensare se inserite nelle fiction. Visto come vanno le cose, però, forse è ora di inventarsi qualcosa e adattare lo storytelling alla realtà, anche se non ci piace.

le canzoni dell’estate

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Nel 1984 Luca Carboni mi dava la stessa sensazione della sabbia nei calzini quando ritorno dalla spiaggia libera e non c’è nemmeno un rubinetto per sciacquarsi i piedi prima di rimettersi le scarpe e sì, vado al mare con le scarpe e i calzini perché le infradito mi danno la stessa sensazione che mi dava Luca Carboni nel 1984 e poi, se si tratta di guidare, non ci sono molte alternative. Invece adesso, guarda un po’, lo ascolto volentieri anche se è da due o tre singoli che pubblica lo stesso pezzo.

Ascoltate prima qui


poi qui

e infine qui

ma che ne importa, mi direte, intanto è dal 1984 che Luca Carboni non sbaglia un discolo.

penisola

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Se leggete che i contagi sono in aumento forse conta anche il fatto che non siamo stati abbastanza diligenti, nel corso di queste vacanze che volgono al termine. Qui in Puglia, dove ci troviamo tutti, la ressa nei vicoletti che si snodano tra le tipiche case bianche imporrebbe l’uso della mascherina ma, a dire il vero, la percentuale di chi la indossa è molto bassa. Facendo due calcoli tutti quelli che stanno vivendo l’estate in modo così irresponsabile potranno cominciare a lamentarsi della nuova stretta sulle libertà di movimento già dai primi di settembre perché, in una situazione di promiscuità così evidente, che il virus proliferi mi sembra il minimo. Per chi, come me, lavora nella scuola, l’allarme provocato dall’escalation dei dati negativi a cui assistiamo ogni giorno aumenta in modo esponenziale la già conclamata incertezza circa quello che ci aspetta al nostro rientro con gli studenti. Ci saranno o no i banchi con le rotelle? Ci saranno ma non li vedremo perché ripartiremo con le lezioni da casa? Parlo per me, ma anche voi che fate altri mestieri non so quanto sarete soddisfatti. A me dà fastidio il disordine, il fatto che sia tutto sottosopra come nelle serie tv di fantascienza. Per stare in classe ci vorrà la fibra, per fare un sorriso o un rimprovero occorrerà scostarsi la mascherina dalla faccia, se a un bambino mancherà la matita bisognerà aspettare che la vada a prendere in un’altra stanza anziché chiederla in prestito al compagno di banco, perché al suo fianco non ci sarà nessuno. Un luogo di aggregazione come la scuola si appresta a tornare un sistema chiuso con tutti fuori. Per questo spero di essermi comportato bene, durante questo viaggio. Ho seguito lo spirito popolare e ho trascorso le ferie in Italia. Sono state tra le migliori vacanze mai fatte, giuro. Ho visto posti nuovi e altri che avevo visitato tanti anni fa ma che non ricordavo più: Roma, Napoli, Pompei, Ercolano, Matera e Valle d’Itria, da cui rientrerò a casa con l’auto strapiena di taralli. Spero di non portare altro con me, a Milano, e che tutti quelli che ho sfiorato camminando per i borghi gremiti possano fare altrettanto.