vecchie storie in libri usati

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Di preciso non ricordo cosa le ho detto, ma la parola è rimasta incastrata dentro la lattina di coca cola e non si riusciva più a estrarre dalla feritoia che rimane quando tiri via la linguetta, nemmeno capovolgendola con il rischio di bagnarsi il cappotto con qualche goccia di liquido rimasta. È stato quello però il punto di non ritorno, l’insidia che guasta i momenti in cui si sta bene con gli altri, con il gruppo, tutti insieme a spasso per la città, spensierati senza una meta. Così mi sono staccato dai compagni di corso e ho deciso di sistemare qualche incombenza che era rimasta in sospeso.

Il libraio di Borgo Incrociati mi aveva assicurato che avrebbe restaurato il primo tomo della storia della letteratura italiana, così dapprima sono ripassato nella sua bottega facendo un giro assurdo dall’esercizio a fianco – una specie di pub gestito da Sandro del Mokambo, sono sempre affascinanti i locali notturni prima dell’apertura, quando non risultano fitti di gente che impesta l’aria con le sigarette – trasportando il libro su un carrello perché altrimenti non sarebbe passato da un vicolo così stretto. Mi è persino caduto il libro scendendo i gradini, tanto che si è ulteriormente danneggiato, il tonfo non ha lasciato intatta nemmeno la speranza. Il libraio – un giovane smilzo con la barbetta conciato come un freakettone con un gilet di pelle scura – però si è mostrato ancora più pessimista, e quando ha colto il mio disappunto dato che ero tornato apposta da lui per fargli sistemare le pagine strappate, dopo che ero già passato la mattina per un preventivo di fattibilità, considerando che si vedeva lontano un miglio che gli affari non gli giravano per niente bene (probabilmente erano ancora i postumi dell’alluvione) si è inventato un tipo di restauro mai sentito, assicurandomi che tutto sarebbe filato per il meglio.

La seconda tappa è consistita in un saluto tutt’altro che disinteressato alla mia futura padrona di casa, una negoziante con cui stavo tessendo rapporti per ingraziarmela affinché affittasse a me il solito appartamento, quello che ricorre nei sogni ubicato in un punto inaccessibile della parte alta della città vecchia dove, per una cosa o per l’altra, non riesco mai ad entrare. La casa era ancora occupata dai vecchi locatari e, malgrado ciò, una visita giusto per immaginarmi come sarebbe stata abitata da me me la sarei fatta.

Poi, finalmente, sono arrivato a destinazione giungendo nell’androne del liceo. Era tutto come ai vecchi tempi: tante ragazze e ragazzi tutti insieme, senza mascherina e timori di contagio. Ed è lì che ti ho scorto tra gli altri, probabilmente eravamo già in una fase avanzata dei nostri preparativi amorosi perché, su consiglio di una compagna, ho deciso di avvicinarmi. Ci siamo messi da parte, appoggiati alla porta finestra che dà sul cortile dove c’è il campo di pallavolo. Avevi i capelli corti color cenere e una treccia colorata che scendeva sulle spalle. La pelle del viso chiara proprio come la ricordavo. Il resto degli studenti nel frattempo si era dileguato, probabilmente dirigendosi alle rispettive classi per la prima lezione dopo l’intervallo. Siamo rimasti solo noi e un tuo amico che faceva la fila per il bagno e ci ha chiesto, visibilmente provato, da quanto tempo fosse occupato. Ma la conversazione tra noi due si è fatta inevitabilmente sempre più intima. I nostri volti si sono trovati troppo vicini tanto che ti ho baciata e sono stato io il primo a sorprendermi.

there are flies on the windscreen

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Ci siamo osservati per tutto il tempo del viaggio. Io guidavo e non potevo distrarmi, ma quando la strada e il traffico lo permettevano mi voltavo a destra a sbirciare. Ed era sempre lì. Sempre maledettamente a suo agio. L’ho notata subito, appena ho messo in moto la macchina. Ho pensato che il rombo del motore l’avrebbe convinta a desistere. Sono uscito dal parcheggio davanti a casa ma non si è mossa di un millimetro. Ho accelerato al primo rettilineo ma lei ha mostrato tutta la sua resilienza. Ho decelerato alla rotonda e lei ha capito. Ha approfittato della velocità ridotta per ruotare lentamente, millimetro dopo millimetro, e posizionarsi con il capo e le antenne in direzione di marcia, con l’obiettivo di fare leva sulla aerodinamicità del suo corpo e lasciarsi sferzare dal vento.

Ho imboccato la superstrada portando rapidamente l’auto oltre i cento all’ora. Ingranata la quinta, ho dato un rapido sguardo e sono rimasto sbalordito. Com’è possibile – mi sono chiesto – che con quelle sottilissime zampette, a cui fanno capo dei puntini al posto dei piedi, una giovane cavalletta sia in grado di rimanere aggrappata al finestrino lato passeggero a quella velocità?

Ero certo che prima o poi sarebbe volata via. Ho frenato, sono ripartito, sono sfrecciato attraverso il traffico della tangenziale. Ho superato altri veicoli e sono stato sballottato dallo spostamento d’aria di mastodontici fuoristrada. L’auto ha sobbalzato su dossi, giunture, buche e altre imperfezioni dell’asfalto. Ma nulla è servito. La cavalletta, impassibile, ha mantenuto la posizione fino alla fine, fino a quando ho imboccato l’ingresso del cortile della scuola e ho parcheggiato, ho spento il motore, sono sceso dall’abitacolo, ho sbattuto forte la portiera – un ulteriore contraccolpo che non è servito a nulla – e me ne sono andato, lasciando la cavalletta al suo posto.

Non è stata la prima volta in cui ho trovato grossi insetti sulla macchina. Tanti anni fa una enorme falena, un mostro enorme e peloso mai visto prima, si era incastrata dietro la maniglia e meno male che me ne sono accorto prima di afferrarla per aprire e salire a bordo. Ma non è stata nemmeno l’ultima. Stamattina, sul tappo della benzina, c’era un’altra farfalla notturna. Questa volta di dimensioni ridotte e più alla mia portata. Ho avvicinato la mano per svitarlo per fare rifornimento, lei ha capito ed è volata via tracciando una rotta verticale ma confusa nell’aria, sicuramente incredula del fatto di trovarsi lì, in piena luce del sole.

smokeless

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Il cliché del maschio alfa comprende la versione dietro la griglia, una veste mediterranea dell’homo barbequus americano, per il quale abbrustolire carni grassissime costituisce un passatempo che, in quanto a gratificazione, è secondo solo al tosaerbismo ossessivo compulsivo, pratica ben radicata anche dalle nostre parti e al centro del dibattito da quando lavoriamo tutti da casa e, ogni santo giorno, c’è un cazzo di giardino con il prato da regolare.

Il maschio alfa alla griglia sfida il fuoco e le fiamme per accompagnare salamelle, costine e braciole verso il sacrificio estremo. Un rito che va preparato con cura. Carbonella e altro occorrente per la brace, cappello di paglia, boccia di rosso per rabboccarsi il bicchiere del cuoco, intingolo per irrorare la sugna, sigaretta e pinza per rivoltare la carne da un lato all’altro. Il tutto con un anticipo sui commensali abbastanza sufficiente da consentire al branco di attendere che il capo si unisca a consumare quanto preparato, in alcuni casi invece sacrificandosi per portare a termine la grigliata e lasciare che al tavolo il vicecapo branco dia inizio al convivio.

In Sardegna ho assistito persino a veri e propri sabba di griglisti, ciascuno con il proprio maialino infilzato e rotante, la notte di ferragosto. Ma neppure questa esperienza estrema mi ha mai convertito. Sostanzialmente non so scegliere la carne, non so fare e mantenere vivo il fuoco, non ho un giardino e nemmeno un terrazzo su cui grigliare, si perde nell’insieme un sacco di tempo per preparare tutto e pulire il barbecue, non voglio impestare le case mia e dei vicini di odore di bistecche e soprattutto non mi piace impuzzarmi di fumo i vestiti e i capelli.

Poi ho visto la luce e ho comprato Rowenta Smokeless Grill KG9008. Mi aveva già incuriosito un articolo simile pubblicizzato durante una televendita. Un grill elettrico che non fa fumo e si può usare in casa. Ma di natura sono restio a comporre un numero telefonico e sottoscrivere la promozione di un piazzista imbonitore visto in tv. Però mi attirava la possibilità di mangiare carne e soprattutto verdura alla griglia senza trasformarmi in un maschio alfa griglista. Fino a quando ho aperto il catalogo premi dell’Esselunga e l’ho visto lì che mi aspettava, di una marca ancora più affidabile. Avevo punti a sufficienza e non ci ho pensato due volte.

A differenza di altri strumenti da cucina che, al quinto o sesto utilizzo sono finiti negli anfratti più remoti dello sgabuzzino insieme ad altri elettrodomestici poco fruibili, il grill Rowenta utilizziamo spessissimo. Oramai prepariamo tutto lì sopra: la griglia smokeless mantiene i sapori, non trasforma in camere a gas gli ambienti domestici, diventa rovente in pochi minuti e poi, divorate salsicce e peperoni, tutto finisce in lavastoviglie, fino alla grigliata successiva. Mi sorprendo davvero di come abbia potuto farne senza, fino ad ora.

forum

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Da quando non c’è scuola, e ultimamente di scuola ce n’è stata ben poca, il giovedì pomeriggio ho appuntamento fisso con Mattia. Mattia è il nipote della signora che si prende cura di casa mia sbrigando le pulizie più pesanti e me la restituisce vivibile. La mamma lavora e Mattia, che ha otto anni, quando non c’è scuola trascorre il tempo con la nonna che fa la badante a tempo pieno e arrotonda aiutando famiglie come la mia. Mattia non conosce suo padre, meglio non entrare nei dettagli. Forse per questo, quando viene qui, mi si incolla addosso con i suoi giochi e non mi molla più. Mi racconta qualunque cosa gli passi per la testa, mi fa la cronaca in diretta del livello che sta superando sul suo videogame al telefono, mi mostra i movimenti di Fortnite che ha imparato, passa dall’italiano al moldavo con una velocità sorprendente, cerca la mia gatta e mi chiede se può fotografarla, salta sulla poltrona, si sdraia, torna a fianco a me al tavolo, il tutto mentre lavoro al pc e faccio di tutto per riuscire a dargli attenzione e a tornare a quello che sto facendo senza perdere il filo né del lavoro e né di Mattia. Alla maggior parte delle domande che mi pone, che sono domande che riguardano argomenti propri di un bambino di otto anni, rispondo senza nemmeno pensarci. Si tratta di una tecnica che, se lavori con i bambini, sviluppi come forma di auto-tutela, e che comprende anche la capacità di intercettare le richieste a cui invece occorre dedicare attenzione. So che, per esempio, un aneddoto dei “Me contro te” può passare in background senza conseguenze. Lo scorso giovedì, invece, si è percepito un vigoroso bestemmione provenire dal palazzo di fronte alla stanza in cui ci occupavamo delle nostre faccende – io lavoravo e lui giocava con lo smartphone della nonna e mi tempestava di informazioni. Ne è nato così un confronto sulla pratica della bestemmia in cui si è mostrato precoce nell’analisi della situazione e nell’opinione che mi ha restituito. Poi, non so in base a qualche collegamento di pensieri, mi ha chiesto se guardassi il programma Forum, e così ho cercato di comprendere perché un bambino di terza primaria sia interessato a una trasmissione da telespettatori dello scorso millennio come Forum. Forse, nella casa in cui la nonna svolge le mansioni di badante, è un appuntamento che i suoi assistiti non si perderebbero per nulla al mondo. Lunedì prossimo Mattia tornerà in classe e, probabilmente, non ci vedremo più fino all’estate prossima. Proverò a seguire qualche puntata di Forum, potrebbe risultare utile nel caso la scuola chiuda di nuovo e Mattia torni a giocare a confrontarsi con gli adulti qui, ogni giovedì pomeriggio.

i quattordici giorni che sconvolsero il mondo

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Non voglio riaccendere l’annosa discussione sui mesi di vacanza degli insegnanti, sulle ore che passano in classe e su quelle dedicate a programmazione, preparazione attività e back-office generale. Quest’anno, poi, meglio evitare. Come i nostri figli, non metto piede in una classe da venerdì 21 febbraio ma vi assicuro che, in vita mia, non credo di aver mai lavorato così tanto come la scorsa primavera, ovviamente considerando l’esperienza in relazione anche con le mansioni che ho ricoperto prima di dedicarmi alla scuola. Non entro poi nel merito delle condizioni in cui operiamo versus la situazione in cui si trovano gli altri settori produttivi e il fatto che – al netto del lockdown e del telelavoro a cui si sono convertiti in molti – a giugno, luglio e agosto siamo stati a casa come tutti gli anni, dopo esser rimasti a casa per tutto il secondo quadrimestre.

Io però giornate come quelle che si vivono nella scuola dal primo al quattordici settembre non le auguro a nessuno perché non credo che abbiano eguali. Farei volentieri cambio con uno dei mesi di vacanza di cui sopra. Sono quattordici giorni in cui si concentra il lavoro che un’organizzazione normale svolgerebbe in almeno un paio di mesi, con responsabili progetto, mansioni e tempistiche ben definite, e a maggior ragione in un momento di emergenza sanitaria come questo. Qui da noi, invece, vi si dedicano quattro gatti coordinati da una figura apicale che si occupa allo stesso tempo di milioni di cose. Mettete insieme il reclutamento del personale docente (nella mia scuola almeno un quarto degli insegnanti) e dei collaboratori e tutto ciò che comporta, più l’allestimento degli spazi con gli eventuali spostamenti (un’esigenza quest’anno cresciuta in modo esponenziale), la formazione delle classi prime di ogni ordine (infanzia, primaria e secondaria), la composizione degli orari e la distribuzione delle risorse comuni, lo start-up delle attività con le riunioni in tutte le combinazioni possibili (istituto, ordine, interclasse, classe, materia), l’istituzione delle commissioni, il passaggio di consegne con i colleghi che se ne vanno e quelli che arrivano, qualche inevitabile corso di aggiornamento, i primi contatti con le famiglie.

Senza contare la reportistica e la documentazione da produrre, informazioni da inserire o modificare nelle piattaforme gestionali e didattiche, le password dimenticate, il check degli equipaggiamenti e del materiale nei laboratori, nelle classi e negli uffici. Una mole di impegni che inevitabilmente si protrarrà lungo i mesi successivi, sovrapponendosi all’attività didattica che è poi il fulcro del nostro lavoro. Il tutto con una spruzzata di una cosuccia come una pandemia globale e milioni di regole di convivenza sociale da far rispettare. Ora, non dico iniziare il 22 febbraio, sarebbe stato troppo. Ma almeno il 1 giugno, al netto dell’imprevedibile causato da un contesto altrettanto in evoluzione, non si poteva cominciare a fare qualcosa?

molto sicuro

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Da quando sono stati acquisiti dalla Procter&Gamble, gli assorbenti Lines probabilmente nei paesi anglofoni si pronunciano “laɪns”. Se qualcuno in UK ha un supermercato sotto casa, gli spiace controllare per cortesia? Noi non ci facciamo problemi a dire Colgate così com’è scritto, ma immagino che il corretto modo per riferirsi alla multinazionale statunitense, omonima del noto dentifricio, sia “colgeɪt”. POi si scopre che in Spagna colgar significa impiccare e il gioco è fatto. Questo è il rovescio della medaglia della globalizzazione. L’esperanto come lingua universale è un esperimento a dir poco fallito e la mia idea di parlare tutti in tutto il mondo fluentemente inglese non è ancora stata approvata anche se ci sarebbero vantaggi sotto molti aspetti, a partire da un abbattimento della produzione di letteratura italiana di serie b come questo blog. Ma converrete con me che trovare un nome di un prodotto o di brand in grado di mantenere lo stesso significato ovunque è una sfida non da poco. Al momento, però, dovete ammettere che la conoscenza dell’inglese è quello che a grandi linee ci accomuna tutti. Per questo i sistemi di allarme Verisure io li avrei direttamente chiamati VerySure, inutile che vi dica la traduzione. Comunque quelli della Verisure hanno uno spot che lascia un po’ di amarezza. Un uomo subisce un furto in casa e così chiama la Verisure per farsi installare un sistema di allarme. Il messaggio è chiaro: l’avesse installato prima non sarebbe lì a rimediare al danno. Questa è l’espressione quando chiami sapendo che non si può tornare indietro nel tempo, senza contare che non è che i ladri tornano il giorno dopo a svaligiare l’appartamento in cui già sono stati la sera prima:

e questa invece è l’espressione che fai quando ti dicono che arrivano subito a installare l’antifurto.

Il cliente è soddisfatto. Molto soddisfatto. Troppo soddisfatto. Nemmeno se gli avessero detto che, anziché l’allarme, gli riportano in casa la refurtiva. Forse invece è proprio così. Chiami un call center dove ti risponde una donna angelica che ti assicura che si può tornare indietro nel tempo, cambiare il destino e correggere gli errori fatali. Io, nel dubbio, ho messo serramenti rinforzati. Se avessi un antifurto e si attivasse nel cuore della notte, probabilmente mi verrebbe un infarto.

poi vado su vado su vado su

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Quest’anno ho trascorso le vacanze in Italia. Uno smacco all’esterofilo che vive in me ma recarsi fuori dai confini sembrava molto complesso e, con il senno di poi, meno male che non l’ho fatto. In realtà ci siamo lasciati convincere – ed è stato bello farlo – dallo spirito di unità nazionale e dall’idea di aiutare l’economia del nostro paese, come ha imposto lo storytelling in voga. Un bel viaggio al sud da Roma (deserta) alla Puglia (un carnaio), passando da Ercolano e Pompei (visitate in solitudine) e da Matera (dove c’eravamo io e il cantante dei Baustelle).

Un bel modo di rivivere questo coast to coast è lo spottone all’italianità della TIM, chiamata a difendere la connettività nazionale in un momento in cui, grazie anche a Internet, non siamo mai stati così divisi.

L’efficacia della pubblicità è però penalizzata in parte dalla canzone scelta, quel superfluo esercizio di stile che è “Brava” di Mina, il noto divertissement in salsa jazz-lounge all’acqua di rose del maestro Bruno Canfora, direttamente dai fasti in bianco e nero di Studio Uno. Un pezzo in cui probabilmente Mina batte ogni record di tecnica vocale e di estensione e che sposta il focus del messaggio sull’aspetto meramente accademico e presuntuoso della musica.

Il fatto è che le immagini sotto sono invece un concentrato di sostanza e cultura, di passione e di storia, tutta roba che ha a che fare sicuramente con il cervello ma molto di più con il cuore e con la pancia. Il trillo, l’usignolo, la balena sott’acqua, le note basse e quelle alte, le cose che sa fare e quelle che non sa fare, a essere pignoli, e poi l’andare su e giù e il bum bum bum bum bum bum bum bum bum bum bum – tutti primati mai eguagliati – riducono di molto la portata emotiva. Ma magari mi sbaglio io e voi, a sentire “Brava”, vi sentite tutti bravi. Tutti bravi con gli acuti degli altri. Per me, di brave nella pubblicità, ce n’è solo una e si chiama Giovanna. Brava Giovanna, brava. Tutti aspettiamo il tuo ritorno.

lettere e testamento

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Prima che la tecnologia ci esponesse alle brutte figure in tempo reale attraverso l’Internet che ben conosciamo, un’era coincisa (nel mio caso) con una periodo della mia vita in cui – studiando a scrocco dei miei genitori – avevo tempo da perdere, era diffusa tra gli esseri umani più sensibili l’usanza di coltivare e nutrire rapporti con il prossimo per via epistolare. Un passatempo decisamente time-consuming, se pensate che ciò comportava:
– avere delle cose da raccontare e, nel caso, pensarci scrupolosamente prima
– scrivere la lettera in brutta copia per organizzare al meglio i contenuti e limare la forma
– copiare la lettera in bella copia
– rileggerne il testo
– piegare e imbustare i fogli
– uscire di casa per procurarsi i francobolli e dirigersi alla cassetta della posta.

Se noi boomer presuntuosi vogliamo infatti sottolineare il prima e il dopo rispetto all’avvento dei socialcosi, oggi non si fa altro che:
– scrivere di getto anche se non si ha nulla da dire; l’importante è esserci
– non preoccuparsi della forma, perché qualunque piattaforma di videoscrittura (come si diceva ai tempi degli M24) ti sottolinea in rosso le parole che ritiene sbagliate
– comunque premere invio senza rileggere, tanto il destinatario non si accorge dei refusi e poi nella comunicazione due punto zero è ammesso di tutto e di più
– il tutto dal divano di casa propria e a costo zero, o comunque compreso nel contratto della fibra quindi ammortizzato da mille altri servizi coperti dalla connessione a Internet
– per ricevere poi una risposta qualche secondo dopo, e il gioco si esaurisce così in quattro e quattr’otto.

Io spedivo lettere quando mi sentivo innamorato, spedivo lettere per convincere la destinataria delle missive a fare altrettanto, spedivo lettere per dire cose importanti ai miei amici, spedivo lettere per chiedere informazioni, spedivo lettere per acquistare dischi a distanza, spedivo lettere per comunicare decisioni ed esprimere preferenze, spedivo lettere per parlare del più e del meno, mettendo in conto che le risposte sui temi del più e del meno sarebbero arrivati almeno due settimane dopo. Come minimo. Spendevo un capitale in francobolli ma, soprattutto, calcavo con il Tratto Pen i fogli che si riempivano di solchi la cui profondità era direttamente proporzionale alla passione con cui mi dedicavo alla stesura del testo. Di alcune lettere non ho mai più avuto risposta, ad altre non ho mai risposto e ho ricevuto diversi solleciti a rispondere. Il tutto lungo settimane, mesi, anni. C’era addirittura una rubrica su Topolino che metteva in contatto i ragazzi che volevano intraprendere rapporti di corrispondenza. Amici di penna. Qualche amicizia l’ho sviluppata lì. Che romantica ingenuità, non trovate?

De La Soul – Say No Go

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[questo articolo è uscito su Loudd.it]

Prima di trasformarsi in una delle più ricche potenze multinazionali sulla faccia della terra, l’hip hop è stato per anni un laboratorio artigianale in cui minuziosamente si saldavano insieme rimasugli di poco conto e scarti di altre canzoni per creare le basi sulle quali poi darci dentro con le rime.

A cavallo tra le due ragioni sociali, mentre l’old school si trasformava in qualcosa di nuovo e assai più remunerativo, i De La Soul pubblicavano uno degli album più influenti in quota rap di fine anni ottanta che è stato “3 Feet High and Rising”. Un disco su cui, se lo conoscete, c’è ben poco da aggiungere: la sua portata innovativa e dirompente è stata già ampiamente riconosciuta dalla storia della musica intera e, ad oggi, il suo valore resta indubbiamente ineguagliato.

Lo stile dei De La Soul costituisce una pietra miliare nel rap perché dimostra che un altro hip hop è possibile: ritmiche più rilassate, atmosfere hippie e psichedeliche e, soprattutto, campionamenti come se piovesse.

Probabilmente il pezzo che trasmette meglio tutto questo è “Say no go”, pubblicato come singolo nel 1989, apparentemente una hit danzereccia ma con testo tutt’altro che spensierato: si parla di crack e dell’epidemia che dilaga nelle città statunitensi (come la celebre “New Jack City” di Ice T). Qui in Italia, al netto della comprensione delle parti cantate, “Say no go” contribuisce principalmente a far conoscere il terzetto di fricchettoni afroamericani di Long Island e ad accompagnare i ragazzini in estasi sul dancefloor. Del resto la struttura si presta perfettamente a fare uscire di testa l’ascoltatore: il brano è una stratificazione di loop ritmici e armonici che conferiscono un carattere ipnotico senza precedenti. Sai quando inizia e, se ti prende bene, potrebbe anche non finire più.

Se volete divertirvi a identificare i sample di cui il successo dei De La Soul è composto ecco qualche dritta. “Crossword Puzzle” di Sly Stone è il brano che dà l’ossatura a “Say no go” e la sua andatura funky, compresi gli stacchi di fiati, la chitarra wah-wah e persino le rispostine di Hammond vengono da lì. Il loop di batteria che pompa il ritmo è campionato di sana pianta dalle prime battute di “I’m Chief Kamanawanalea” dei Turtles. Il giro di basso è di “I Can’t Go For That (No Can Do)” di Hall & Oates, abbassato di una quarta o giù di lì. L’inconfondibile fraseggio ricorsivo di chitarra – il vero tormentone psichedelico del pezzo – è preso da “Baby let me take you” dei Detroit Emeralds. Il tutto mescolato, riassemblato e accelerato di qualche bpm per renderlo mixabile al meglio con la house più conosciuta dei tempi.

Forse ingiustamente penalizzati dalla loro originalità, in un momento in cui l’hip hop imponeva appartenenza, parametri, canoni ed estetica ben definita, i De La Soul dopo il grande successo di “3 Feet High and Rising” non hanno avuto il giusto riconoscimento che meritavano. Vincitori, anni dopo, di un Grammy Awards per la co-partecipazione a fianco dei Gorillaz, li ricordiamo con affetto per il loro look che informale è dir poco (troppo scazzati per essere un gruppo rap) e il loro atteggiamento hip hop un po’ buontempone e disimpegnato, caratteristiche ostentate proprio nel video di questa canzone sulla quale stare fermi resta difficile ancora oggi, a trent’anni di distanza.

canzone d’amore – le orme

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Quando il nome della cosa esprime la cosa in sé alcuni la prendono male perché si trovano di fronte a uno spoiler fatto e finito. Ci sono scarpe di marca Scarpa, per dire. Talmente ovvio che non c’è bisogno di aggiungere altro e se nel mondo funzionasse così, per tutti i manufatti dell’uomo, forse vivremmo con meno pretese e risparmieremmo un sacco di soldi in creativi ingaggiati per inventare il naming più accattivante (che, a proposito, è un aggettivo piuttosto accattivante) per un prodotto che sbaragli la concorrenza.

Ci sono casi analoghi anche nella musica. “Canzone” di Vasco Rossi è, a tutti gli effetti, una canzone, come “Canzone d’amore” delle Orme ha un titolo che, da un punto di vista nominale, non lascia dubbi. Certo, se Le Orme avessero scelto di chiamarsi Il Gruppo oppure The Band (come la band di Robbie Robertson) sarebbe stato fantastico. Il fatto è che Le Orme, almeno fino al 1976, erano famosi non certo per suonare musica leggera e, a chieder loro la composizione di una canzone d’amore, il rischio di trovarsi di fronte a una destrutturazione dello standard da juke-box che a metà degli anni settanta andava per la maggiore doveva esser messo in conto. L’averla intitolata così, almeno, abbatte ogni possibilità di equivoco, e per avere una non-canzone d’amore dovremo aspettare i PIL.

Che cosa ha di particolare “Canzone d’amore”, rispetto alle altre canzoni d’amore italiane e alla produzione de Le Orme stessa? Intanto è uno dei brani più guitar-based di un complesso la cui formazione storica – il celebre trio considerato gli Emerson Lake & Palmer mediterranei – non annovera un chitarrista, ruolo ricoperto nel brano dal compianto Germano Serafin. C’è una ritmica funky che accompagna la strofa, c’è una scala molto importante che risponde al ritornello mentre la voce si allontana con l’ultima sillaba di ogni verso spinta dal delay, c’è un lungo e articolato cambio strumentale in cui le parti di chitarra sono protagoniste, c’è un tema solista che si ripete ad libitum durante la lunga coda. Una struttura – intro, prima e unica strofa, ponte, ritornello, quasi un minuto di parte strumentale, ponte, ritornello, coda – peraltro anomala per un brano radiofonico e da Festivalbar, impensabile per i rigidi canoni della musica commerciale a cui siamo abituati oggi.

E il fatto che Le Orme volessero lasciare la loro impronta di sperimentatori progressive nella canzonetta italiana è facilmente riconducibile al modo in cui il brano è stato pensato ed eseguito, a partire dalla parte di batteria della strofa, con i colpi di cassa così poco lineari e decisamente fuori mercato per i tormentoni estivi. La prova del nove si ottiene attraverso un raffronto con la banalizzazione che ne hanno fatto gli Aeroplanitaliani, in una cover nel 2005. Sostituendo la ritmica di Michi Dei Rossi con un groove da quattro soldi, semplificando gli accordi per mantenere un bordone di basso adatto a ogni cambio e introducendo vari escamotage per rendere il brano ballabile, si ottiene inevitabilmente una normalizzazione degli equilibri che ne neutralizza la magia. D’altronde non tutti i gruppi di matrice elettronica, alle prese con il revamping dei classici della musica italiana, hanno il talento e il gusto dei Delta V.

“Canzone d’amore”, la versione originale, fu una vera e propria hit dell’estate 1976, quella di “Non si può morire dentro”, “Linda”, “Se mi lasci non vale” e “Margherita”, e si classificò al ventiseiesimo posto dei singoli più venduti in Italia. Malgrado sia uno dei brani più famosi della band di Aldo Tagliapietra, non fu incluso nell’album uscito di lì a poco, “Verità nascoste”. Possiamo considerarlo così una parentesi artistica di un complesso in grado di dimostrare di saper suonare qualunque cosa, vendere un botto di dischi per poi tornare, con serietà, al proprio ruolo di gruppo progressive. Un’era che stava per concludersi, proprio come il presagio espresso nel titolo del lato B di quel 45 giri, “È finita una stagione”, l’ennesimo caso di destino nel titolo. D’altronde, un successo è un successo è un successo.