fuori orario (cose mai viste)

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Alla commissione orario della secondaria, composta da docenti, sono assegnate un centinaio di ore extra. Per questo, a partire da quest’anno la mia scuola ha pensato di acquistare la prima licenza annuale di un applicativo ad hoc, un software che, una volta inseriti tutti i parametri, è in grado di comporre uno dei sistemi a incastro più proibitivi della storia dell’umanità.

Le variabili di cui tenere conto per la composizione dell’orario di una scuola secondaria sono infinite. Ve ne riporto qualcuna: disponibilità degli spazi comuni (i laboratori) e degli spazi comuni condivisi con la primaria e con le associazioni sportive (palestra), spostamenti dei docenti che insegnano in entrambi i plessi dell’istituto, necessità di avere più ore vicine (italiano e matematica in primis), necessità di non avere più ore vicine, massimo di ore trascorse in classe al giorno, incompatibilità tra materie di vario genere, materie soggette a esonero da collocare alla prima o all’ultima ora in modo che, gli alunni esenti, possano entrare o uscire dopo, distribuzione omogenea delle ore lungo la settimana, docenti che insegnano in più classi, docenti che insegnano anche in altre scuole e quindi con altri orari che devono soddisfare altrettante restrizioni, esigenze personali dei docenti.

Il software acquistato e pagato profumatamente, ovviamente, tiene conto di tutto questo e molto altro. Facile immaginare la potenza di calcolo di questo programma, le informazioni che macina per trovare la soluzione, le miliardi di combinazioni che tenta prima di arrivare alla soluzione finale. Il problema è che il suddetto applicativo è stato sviluppato per il personale tecnico e non per un docente. Mi spiego meglio. Oggi si parla di digitale e non di informatica perché l’usabilità di programmi e strumenti è alla portata di tutti. Mentre vent’anni fa occorreva avere una conoscenza base dell’IT per smanettare su programmi di qualunque tipo, oggi l’uso delle app è a prova di alga. Pensate a quanto tempo occorre a orientarsi in un nuovo social network o in uno di quei tool online che usiamo per creare i meme idioti da postare su Facebook.

Nonostante ciò, tutto quello che riguarda la scuola – a parte gli strumenti delle Google Suite – appartiene a una famiglia di prodotti pensati da tecnici per tecnici, da programmatori per programmatori e non da gente che conosce gli insegnanti per gli insegnanti: interfacce utente realizzate con gli scarti di magazzino di qualche software costruito ai tempi di Windows 3.1, linguaggio e comandi con i toni degni del DOS. Se Canva o WordPress fossero stati sviluppati allo stesso modo, per dire, avrebbero già chiuso da un pezzo.

Il fatto è che la scuola ha bisogno di digitale come il pane e, alla fine, tutto ciò che può essere collegato a una presa elettrica finisce per essere di pertinenza dell’unico docente che smanetta con il computer, cioè gente come me.

Non vi sto a descrivere la terminologia della guida, le voci delle funzioni, la gerarchia e la struttura delle sezioni, per non parlare dell’austerità grafica. Ma il bello viene poi quando, gettati alla rinfusa nel sistema tutti i parametri da rispettare in modo che l’orario soddisfi la totalità degli stakeholder, si abbassa la leva per avviare il processo.

Il computer comincia a tremare e scricchiolare, si sentono gli ingranaggi palesemente sotto sforzo, da sotto i tasti esce il fumo, le prese usb grondano del sudore dei fuochisti che accelerano vistosamente l’approvvigionamento di carbone nel motore, il touch pad si scalda e lo schermo si fa tutto grigio scuro. Il processo va avanti così per ore e ore fino a quando la macchina lentamente rallenta e si quieta, e probabilmente, spedito da qualche fabbrica degli albori della rivoluzione industriale, ecco comparire l’orario in una tabella essenziale, con tutte le sue caselle colorate con una palette a 8 bit, tutta macchiato di polvere. Dalla scheda madre del computer si leva quindi la sirena del cambio turno e gli operai, con la faccia tutta imbrattata di silicio, si disperdono nei quartieri dormitorio limitrofi. Sarà infatti il turno successivo a occuparsi dell’ottimizzazione del risultato finale, in modo che rifletta al meglio la realtà e possa essere applicato sul campo in modo efficace.

con gli occhi

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Faccio ancora fatica ad abbinare genitori a bambini. Con le mascherine, all’uscita da scuola, è un delirio e vado per inerzia, confidando nel fatto che almeno i miei alunni siano in grado di riconoscere mamma, papà e nonni e che la consegna vada in porto. Non sono tenuto invece a salutare chi attende al cancello per ritirare i bimbi delle altre classi della scuola, anche se – in un piccolo paesello di provincia – sarebbe il caso di impegnarsi un po’. In realtà vige il rapporto dell’uno contro molti: i genitori mi conoscono in quanto insegnante – e unico insegnante di sesso maschile della primaria, anche se quest’anno finalmente ho un collega – mentre io, per ovvi motivi numerici, non potrei ricambiare nemmeno se prendessi lezioni private di fisiognomica. Potrei tirarmela e scrivere che sono una celebrità, ma anche se ho contribuito a far sì che 1500 studenti dai 3 ai 14 anni siano riusciti a terminare l’anno scolastico da casa, resto umile.

La mascherina, poi, ci mette del suo. Se già evito gli sguardi dei genitori dei bambini non miei all’uscita lanciando generici ‘sera, ‘sera (ogni tanto una ex-collega, che ha un figlio in prima da noi e con cui avrò si e no scambiato un paio di e-mail, mi accoglie con fortissimi “ciao Robyyyyy” nemmeno fossimo stati a scuola insieme), degli semi-sconosciuti con mezzo volto coperto diventano un’incognita a tutti gli effetti. Certo, nel dubbio, potrei salutare calorosamente tutti uno per uno come si fa sui sentieri delle Dolomiti. Oppure continuare a sorridere vigorosamente dietro il tessuto protettivo in modo che, almeno con gli occhi, sia evidente che stia ricambiando un convenevole.

C’è poi l’aggravante mamma musulmana con mascherina. L’effetto burqa è assicurato. Stamattina ho parcheggiato poco dopo il cancello d’ingresso. Ho indossato la mia chirurgica da lavoro per rimanere in incognito ma, nonostante ciò, una donna vestita con abito tradizionale e velo sui capelli mi ha salutato calorosamente. Ho ricambiato ma mi si leggeva nel poco che si vedeva nel volto lontano un miglio che non sapevo a chi mi trovassi davanti. Gli occhi saranno anche lo specchio dell’anima ma, in quanto a fornire generalità, non sono granché.

“Sono la mamma di Mehar”, mi ha detto, anticipando mie scuse con uno sguardo di riconoscenza che mi ha sciolto all’istante. Mehar è una ragazzina pakistana che mi ha chiamato diverse volte durante la didattica a distanza per avere un aiuto nella configurazione del pc che aveva a disposizione per seguire le lezioni. Ora frequenta la secondaria ma me la ricordo benissimo qualche anno fa, durante alcune supplenze che ho svolto nella sua quinta. Mehar parla fluentemente l’italiano, è brillante e intelligentissima ed è stata lei il contatto principale della sua famiglia durante l’emergenza sanitaria. Dopo qualche sessione di help desk su Whatsapp ce l’abbiamo fatta. E, come se non bastasse, ho avuto anche l’onore di supportare sua mamma che, iscritta a un corso di italiano per stranieri in una scuola professionale, ha dovuto concludere gli incontri tramite Google Classroom su uno smartphone.

Mi sono così ricordato che aiutare le famiglie è stato forse la parte più appagante di tutta l’esperienza della didattica da remoto. Per quelle straniere, che hanno affrontato ben altre barriere oltre quelle tecnologiche, il piacere è stato doppio.

tre volantini a Ebbing, Missouri

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L’efficacia dei volantini posizionati sotto i tergicristalli a forma di multa, che vorrebbero essere simpatici ma non lo sono, è superata solo dal volantino che ho trovato oggi sulla mia auto e che pubblicizza un servizio di distribuzione volantini. Non ho idea dei costi di una campagna del genere, tra stampa e distribuzione, ma se fossi nell’ideatore non punterei molto sulla percentuale di proprietari di mezzi non commerciali che ha bisogno di pubblicizzare un servizio o un prodotto attraverso la distribuzione di volantini. Immaginate uno spot alla tv in cui uno studio di produzione video o un’agenzia di comunicazione fa la réclame agli spot come leva per aumentare i profitti di un’azienda. “Qui oggi vedi noi”, ci immaginiamo il direttore creativo seduto sulla scrivania di un open-space con dietro qualche decina di precari tra grafici e copy che smanettano sui loro Mac, “ma domani potrebbe esserci il tuo video fatto dalla nostra agenzia. Chiamaci senza impegno”. D’altronde le nostre strade sono piene di cartelli su cui qualcuno ha stampato slogan del tipo “questo spazio potrebbe essere tuo”. A me viene in mente Frances McDormand, che è una delle mie attrici preferite in un film che ho amato moltissimo, mentre noleggia i tre manifesti di Ebbing per sollecitare le indagini sull’assassinio della figlia, un uso personale di uno spazio pubblico che raggiunge l’obiettivo di fare incazzare uno sceriffo nel giro di una mezza giornata. Così ho pensato di stampare un solo volantino che pubblicizzi la vendita della mia macchina e di imbucarlo nella cassetta della posta di quelli che stanno cercando nuovi clienti per il loro marketing da strada distribuendo volantini che pubblicizzano la distribuzione volantini. Ecco, ora mi gira la testa. Un target più profilato di così non mi capiterà una seconda volta, nella vita.

al limite

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Se dici «facciamo una gita fuori porta» e vivi a nord di Milano probabilmente ti arrendi già poco dopo il capolinea di una delle linee della metropolitana perché la città, a nord di Milano, non finisce mai. Puoi scegliere di stendere un plaid al Parco Nord, al Parco delle Cave, da qualche parte alle Groane o al Grugnotorto ma rimarresti deluso e intralceresti qualcuno che corre o qualcun altro che pedala con convinzione. Ci sono poche cascine e molti quartieri residenziali, edilizia a proprietà indivisa e villette a schiera, aree fieristiche, snodi autostradali, orti comunali e qualche sentiero sterrato che non porta da nessuna parte. Se dici «facciamo una gita fuori porta» e vivi a sud di Milano invece trovi la vera periferia, la campagna che gradualmente diventa città, gli agriturismi con gli animali e gli insetti e i bambini che dopo un po’ non hanno più voglia di stare seduti a tavola e i genitori incaricano i cugini più grandi di accompagnarli a cercare la stalla con le mucche. Le strade si assottigliano, le nutrie le attraversano coraggiosamente e le auto procedono con cautela, mentre chi guida chiede a chi gli sta seduto a fianco come farà la gente a vivere lì, in quell’ibrido di campagna e città che non ha tempo e che hai già visto nelle foto di quando eri bambino e mamma e papà ti portavano a fare una gita fuori porta.

che cosa ci facciamo qui

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«Che entri il prossimo aspirante concorrente!»
Sei uomini anziani fanno il loro ingresso sul palcoscenico. Il silenzio della Covid-edition è assordante. I quattro della giuria seguono le indicazioni della sceneggiatura abbozzata sui fogli che hanno davanti e si attestano sull’espressione di incredulità. Il giudice in quota giovani d’oggi lancia uno sguardo interrogativo al giudice in quota nostalgici rockettari attempati, il più vicino per motivi anagrafici al gruppo che deve esibirsi e che forma una fila ordinata a fianco di quello che sembra essere il cantante che è stato insignito di un microfono.
«Buonasera a tutti»
«Buonasera a voi. Chi siete?»
«Siamo i Rasna e veniamo da Savona.»
«Fa un po’ strano vedere artisti con i capelli bianchi a questo programma.»
«Eravamo una band nei primi anni 80. Suonavamo un genere un po’ di nicchia che però si stava diffondendo nei circuiti alternativi di tutta Italia».
«A quale stile ti riferisci?», chiede fintamente incuriosito – perché ha imparato bene i dialoghi prima di andare in onda – il giudice in quota nostalgici rockettari attempati.
«Facevamo new wave, dark e post-punk.»
«Tipo?»
«Cure, i primissimi Simple Minds, cose così. Come per tanti altri gruppi il nostro sogno è rimasto chiuso in un cassetto, anche se era un periodo di grandi fermenti e di molte opportunità. Ognuno così ha preso la sua strada e sono volati quarant’anni. Da un po’ di tempo però questo genere è tornato di moda ed è alla base di molta musica indie che si sente in giro. Il nostro tastierista ci aveva fatto una promessa: il primo giorno della pensione vi chiamerò uno ad uno per formare di nuovo la band.»
«Sembra la trama dei Blues Brothers», irrompe il giudice in quota pop internazionale dall’alto della sua giacca improbabile.
«Sì, però nessuno di noi è stato in galera». I quattro giudici si lasciano andare a una risata di decompressione per una delle tante situazioni imbarazzanti in cui sanno già a priori che dovranno dire di no a chi si sta per esibire, anche se farà faville. I candidati impresentabili servono a confermare al pubblico che quella che si sta celebrando non è una festa della musica, bensì una festa dello spettacolo della musica.
«In realtà la reunion l’abbiamo fatta un po’ prima della pensione, anche perché è difficile dire se mai ci arriveremo. Ci siamo detti che effetto può fare il genere che suoniamo di questi tempi, oggi che in Italia a nessuno interessa più niente del rock.»
«A me interessa!», si precipita a dichiarare il giudice in quota pubblico di talent show. «E credo anche a Gabriel», riferendosi al giudice in quota rockettari attempati.
«Il fatto è che i ragazzini non suonano più perché hanno altri interessi. Quando eravamo giovani noi suonavamo per darci un tono, e suonare post-punk ci permetteva anche di differenziarci dal resto dei musicisti fermi al metal o ai derivati del jazz.»
«Un approccio un po’ presuntuoso», incalza il giudice in quota giovani d’oggi.
«No, scusaci, non voleva essere mia intenzione. Se fossimo presuntuosi non saremmo qui a quasi sessant’anni a metterci in ridicolo in una selezione pensata per lanciare star del pop. Siamo qui perché innanzitutto suonare è sempre bello e divertente…»
«Sono d’accordo», aggiunge il giudice in quota giovani d’oggi.
«…e poi perché il genere che suoniamo ha influenzato anche molta della musica che si produce adesso e che abbiamo scoperto grazie ai nostri figli.»
«Vuoi farmi credere che conosci anche la trap? Dai, fammi qualche nome».
«Mi piace molto Speranza. Poi Liberato e per certe cose anche Massimo Pericolo. Molto meglio questa generazioni di artisti rispetto a quelli di dieci anni fa, come i Club Dogo o Fabri Fibra».
«Sono d’accordo e devo dire che mi hai sorpreso», dice il giudice in quota giovani d’oggi. «Ma cosa c’entrano i Cure con Liberato?»
«Credo si tratti di una sorta di proprietà transitiva. C’è molto dark nel trip hop degli anni 90, come quello dei Massive Attack o degli Archive. Per dire, i Massive Attack dal vivo fanno una cover di “Bela Lugosi’s Dead” dei Bauhaus e hanno campionato “10.15 Saturday Night” dei Cure. La trap richiama la lentezza del trip hop. Mi pare che come prova sia inconfutabile.»
«Ne sai di musica, eh.», gli risponde il giudice in quota pubblico da talent show.
«Sì, credo di amarla così tanto da precipitarla in un’ossessione. Per farvi capire, ho montagne di dischi in casa e seguo la vostra trasmissione sin dai tempi di Giusy Ferreri, e perdonate il tentativo di captatio benevolentiae.»
«Non ho capito ma fa lo stesso. Mi pare di notare però una certa ricerca filologica nella vostra strumentazione», obietta il giudice in quota rockettari attempati.
«Corretto. Usiamo gli stessi strumenti che suonavamo quando abbiamo messo su la band. Il nostro tastierista, con tutto quell’armamentario, avrebbe bisogno di un facchino. Alla sua età, da solo non ce la fa più.»
«Allora siete nel posto giusto», aggiunge il giudice in quota pop. «Diventerete ricchi e famosi e potrete permettervi una squadra di roady.»
«In verità puntate più sulle groupie», interviene il giudice in quota rockettari attempati ma, considerato quello che si legge sui giornali, nessuno ride, tantomeno i sei musicisti sul palco. Così, per salvare la situazione, fa l’ultima domanda.
«E il vostro nome, Rasna, che significa?»
«Oh nulla», risponde il cantante. «In realtà è un nome finto. Avrei usato il nome vero del complesso in questo racconto ma preferisco non essere rintracciato sul mio blog dai miei ex compagni di band e non essere preso per un idiota per aver scritto una cosa così a cinquantatré anni».
«Non ti biasimo», lo rassicura il giudice in quota giovani d’oggi. «Bando alle ciance, che cosa ci fate ascoltare?»
«Uno dei primissimi pezzi che abbiamo composto. Si intitola “Aspettando”».
«OK. Il palco è vostro. Spaccate.»

ti dico di si

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Ho deciso che voterò SI al referendum sul taglio dei parlamentari. Sono un convinto sostenitore del NO, credo che la democrazia sia una macchina complessa e che una riduzione delle sue componenti porterebbe inevitabilmente a una semplificazione. Ma la semplificazione è l’anticamera del totalitarismo. Poche persone fanno in fretta a decidersi ma possono anche dimostrare modi sbrigativi. Per dire, liberarsi di Matteotti è stato un gesto sbrigativo. Con tante persone si fa più fatica e magari costa anche di più, però c’è una maggiore probabilità di considerare le istanze di tutti, in questa folle ma preziosa democrazia rappresentativa. E se costa di più, sono comunque soldi ben spesi. Sta a noi cittadini cogliere questa complessità e, se non abbiamo i mezzi per capire (io per primo non li ho) occorre trovare qualcuno più capace di noi nel far funzionare la macchina. Io, per dire, ho scelto il PD, anche se mi considero di estrema sinistra. Sono sicuro di non essere capace a fare di meglio di Zingaretti o di Conte, per dire. Quindi mi rimetto alla loro esperienza.

Ma allora perché voto SI? Perché questo referendum si è trasformato in una scelta di campo politica. Il referendum è stato voluto dai grillisti, che sono la peggiore iattura capitata al nostro paese nel secondo dopoguerra, una tacca sotto a Renzi – in gravità – ma una tacca sopra Berlusconi. Contro il PD di Zingaretti è in corso un tiro al piccione da destra e da sinistra. Il PD di Zingaretti, che a partire da Zingaretti stesso voterebbe in disinvoltura NO, è costretto a votare SI per non destabilizzare l’alleanza con i grillisti. In caso di vittoria del NO i grillisti addosserebbero al PD di Zingaretti la responsabilità del fallimento del referendum e di uno dei principali obiettivi del loro programma. Il governo si indebolirebbe, come se non bastassero le batoste che PD e grillisti prenderanno alle amministrative. La lega dice di votare NO per far cadere il governo. Zingaretti dice di votare SI, e io voto SI. Il Partito, prima di tutto, ma poi anche il paese.

L’attuale legislatura, imperfetta ma che comunque ci sta portando a riva in questo momento storico che ha dell’incredibile, cadrebbe lasciando il posto a un governo tecnico (sulla cui efficacia non nutro dubbi) ma che, alle prossime politiche, aprirebbe le porte a una maggioranza schiacciante di destra. Mi sono immaginato così i miliardi del Recovery Fund in mano ai commercialisti della lega e agli squadristi della Meloni. Ho pensato che un compromesso val bene la democrazia. Sono certo che un taglio dei parlamentari, comunque con la supervisione del PD, è il minore dei mali.

due cuori un account Prime

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Sapete come funziona nella pubblicità alla tv. C’è una campagna iniziale con la massima copertura in cui uno spot viene diffuso nella sua interezza e poi, quando risulta assimilato dal pubblico, se ne pubblica una versione ridotta perché la sua messa in onda costa meno ma tanto, una volta che il messaggio è stato colto, è sufficiente un richiamo proprio come se si trattasse di un vaccino. Il fatto è che dello spot della Wind dei genitori separati che si contendono il figlio a colpi di serie preferite su Amazon Prime io ho visto solo la versione già tagliata e non capivo se, appunto, si trattasse di una sorta di Cramer contro Cramer versione on demand oppure, semplicemente, il padre fosse in trasferta lavorativa da qualche parte e per ridurre la lontananza con il figlio accettasse una sessione a distanza di binge watching per mantenere vivo il rapporto. Avevo qualche dubbio perché la madre dietro che si fa i fatti suoi ma con un sorriso compiacente non me la raccontava giusta. Così ho cercato su Youtube e quando ho scoperto che invece la storia era ambientata in una famiglia spaccata a metà ci sono rimasto un po’ male. D’altronde anche coppie separate e genitori divorziati fanno target e vanno accontentati, basta con la narrazione della famiglia del mulino bianco. Io però non riesco a nascondere la delusione e per farmi perdonare metto lo spot anche qui, così la prossima volta imparo a comportarmi da tradizionalista.

a non più di novanta km/h

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Su Google Maps, attivando la visualizzazione satellitare (ultimo aggiornamento: Agosto 2018), la staccionata in legno risulta smantellata. Fabrizio aveva impiegato una settimana a stendere la vernice protettiva su ogni singolo asse. Suo padre, un postino in pensione, si era procurato il materiale più economico. Niente di male, se non fosse che era nero, e dare il benvenuto agli ospiti con un colore così lugubre poteva risultare un presagio nefasto. Dove abito ora io, per dire, si fa molta attenzione a questi dettagli, e se la cancellata ha anche solo un po’ di ruggine casa tua diventa lo zimbello del quartiere. Il nuovo proprietario della casa della famiglia di Fabrizio ne avrà fatto legna da ardere ancora prima di scegliere i mobili della cucina. Il padre di Fabrizio è mancato qualche mese dopo il mio e così, quando immagina di passare di lì – Fabrizio si è trasferito altrove da tempo – e non vedere più quell’opera inutile commissionata da suo papà a una ditta di costruzioni e rimasta con il colore protettivo senza uno strato di una tonalità più consona a una villetta di campagna, gli viene da piangere. Come lo capisco. I genitori compiono errori proprio come noi, non per questo dobbiamo serbare loro rancore. Comunque, dopo il rush finale del weekend – lui è suo papà hanno lavorato giorno e notte per terminarla – ci eravamo dati appuntamento alle sei per salire su un pullman diretti in gita scolastica verso una città d’arte di seconda scelta, una di quelle facilmente liquidabili in un’unica giornata. Eravamo seduti a fianco, nei sedili in fondo dove si poteva fumare, e non riusciva ad alzare le braccia dalla fatica compiuta. Nei posti proprio davanti ai nostri c’era Alessandra che, come in quella celebre scena di un film per adolescenti, mi aveva passato il suo walkman con una cassetta registrata di “Selling England by The Pound” dei Genesis ed era la prima volta che lo ascoltavo. Osservavo dal finestrino l’autostrada scorrermi a fianco e io, che coltivavo gusti musicali molto più alla moda, ero rimasto colpito dalla lunga coda strumentale di “The Cinema Show”. Non riuscivo a dare alla voce un volto diverso da quello del cappellaio matto della Charisma, ma quello era l’ultimo dei problemi. Le morbidi protezioni in spugna degli auricolari erano intrisi del suo profumo che deve aver fatto reazione con quella musica fuori dal tempo tant’è che non è andata più via.

la prossima primavera

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Sono ossessionata da Andrea. Lo osservo in sala studio da quando ho scoperto che di cognome si chiama come il diminutivo dell’indumento da cui non si separa mai. La indossa sempre, anche al chiuso. Andrea ha una Panda blu di cui conosco la targa a memoria. L’altra sera per poco non vado a sbattere contro un lampione. Ho visto Andrea scendere dalla Panda blu per fare il pieno, al benzinaio prima della galleria. Ho riconosciuto l’auto per via della targa, poi la sua giacca di velluto marrone. Per trovare un canale di contatto sono diventata amica di sua sorella, che ha la mia età. Flaminia è iscritta ad architettura. Non mi sembra del tutto registrata e questo è un peccato perché è davvero bella, sembra un’attrice ed è anche molto costante negli studi. Mi ha confessato che vorrebbe dare il suo contributo alla forma della sua città. Non si perde una puntata di un programma per ragazzi, un quiz da scuola media che trasmettono subito dopo pranzo. C’è il presentatore che chiede sempre ai concorrenti qual è il loro sogno nel cassetto. Ho capito che cosa la attrae di quel programma. Flaminia è consapevole di vivere ancora in un’epoca in cui talento e passione costituiscono il percorso per arrivare a destinazione, nella vita. Le sarebbe bastato nascere venti anni più tardi per trovarsi sovraistruita a vendere gelati in una di quelle catene alla moda in cui il modo che si usa per dare forma alle creme sul cono è il principale fattore competitivo e necessità di una gestualità che, oggettivamente fa un po’ ridere. Il sogno nel cassetto di Flaminia è invece vivere in un palazzo di architettura razionalista. Flaminia sa che non potrebbe mai abitare in un edificio senza storia, questo è alla base delle sua scelta di studi. Il suo amore per l’architettura razionalista non ha limiti. Passa ore ad osservare una ex caserma della Guardia di Finanza costruita negli anni venti, una palazzina oggi di proprietà di una gallerista d’arte la cui figlia, ironia della sorte, è l’ex storica di Andrea. Flaminia odia l’edilizia contemporanea, come darle torto. Ci vorrà ancora un quarto di secolo per tornare a un giusto equilibrio di estetica accettabile e canoni di impatto energetico adeguati ai consumi standard imposti dall’ideale di sostenibilità applicato allo sviluppo dell’uomo. Chiederò a Flaminia di indagare con il fratello se ho qualche possibilità. Nel frattempo cerco di preparare storia moderna per l’appello di marzo.

54-46, il codice del paradiso

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Ieri ci ha lasciato Toots Hibbert, leader dei Toots & the Maytals. Tra i settanta e gli ottanta, comunque molto prima dei Duran Duran, il reggae era molto di moda e trasversale. Lo ascoltavano i punk, per il gemellaggio tra giamaicani e inglesi nei sobborghi di Londra. Lo ascoltavano i fighetti fan dei Police, facile intuire il perché. Lo ascoltavano i tossici per via delle canne e l’equidistanza tra le Marlboro e l’eroina. Lo ascoltavano gli ascoltatori di musica generalista per via di Bob Marley. Lo ascoltavano i new wavers grazie alla 2-Tone, l’etichetta degli ibridi tra post-punk e ska. Lo ascoltavano i ragazzini perché costituiva un’emancipazione dalla musica dei fratelli maggiori, ancora fermi ai cantautori. Almeno, io ero un ragazzino delle medie e non ascoltavo altro. Tra i miei eroi, accanto a Linton Kwesi Johnson, Burning Spear, Doctor Alimantado e gli UB40 di Signing Off, c’erano proprio Toots & the Maytals col loro reggae delle radici. Uno dei suoi pezzi più conosciuti è proprio “54-46 that’s my number”, se vi interessa qui trovate qualche info in più su quella che è una delle 100 mie canzoni preferite. Il mio rammarico è di non averlo mai visto dal vivo. C’era un festival di periferia, più di dieci anni fa da queste parti. Ogni edizione prevedeva una serata dedicata al reggae e io speravo che gli organizzatori lo ingaggiassero prima o poi ma niente, non è mai stato invitato. Peccato. Non ho avuto mai il piacere di contribuire al suo celebre botta e risposta con la folla prevista dalla sua hit, quando dice 
you give it to me one time
e tutti BOM
you give it to me two times
e tutti BOM BOM
you give it to me three times
e tutti BOM BOM BOM
you give it to me four times
e tutti BOM BOM BOM BOM
e il pezzo riprende, con il suo ipnotico levare. Addio Toots Hibbert, che Jah ti sia riconoscente per la bella musica che ci hai donato.