vivere a Milano non è mai stato così facile

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Una pubblicità alla radio dice che vivere a Milano non è mai stato così facile. É la pubblicità dell’inserto di un quotidiano dedicato agli appuntamenti, agli eventi, ai locali, ai cinema, alla cultura e a tutte quelle cose per cui Milano fa gola a tanta gente in Italia e all’estero. Dice proprio che vivere a Milano non è mai stato così facile. Ascolto la pubblicità alla radio mentre vado a scuola e mi accorgo di avere la mascherina anche mentre guido. Sono da solo e non ce n’è bisogno. Penso al lockdown, al coprifuoco, alla quarantena, alla vendita di alcolici fino alle 22, alle feste senza partecipanti, al liceo di mia figlia senza ragazzi, alla metro senza passeggeri, al mondo senza persone come un film che avevo visto da bambino e che mi aveva spaventato da morire. Vivere a Milano non è mai stato così facile. A me non sembra proprio.

i mostri

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Ho notato Bianca correre verso di me e, dalla sua faccia, ho capito subito che doveva dirmi qualcosa di speciale. Ha coscienziosamente rallentato fino a fermarsi a un paio di metri, consapevole delle ferree regole di relazione a cui siamo soggetti a scuola. Ha acceso i suoi occhi azzurri sulla pelle diafana degli zigomi, ha sollevato il pugno verso di me e lo ha spalancato di un’ampiezza sovradimensionata, considerando ciò che trasportava.
«Maestro! Maestro! Guarda: ho trovato un quadrifoglio!».
«Sei stata molto fortunata», le ho risposto con un sorriso dietro la mascherina chirurgica. «Non capita tutti i giorni di trovare un quadrifoglio. Nel giardino della scuola, poi, è ancora più raro».
Lara, poco più in là, ha assistito alla scoperta, ci ha raggiunto e le ha chiesto se volesse regalarglielo ma Delia ha serrato il suo tesoro sul palmo ed è corsa via. Ho così suggerito a Sofia di mettersi alla ricerca di un altro quadrifoglio. «Se Delia ne ha trovato uno, non vedo perché non potresti essere altrettanto fortunata».
Nel giro di qualche minuto tutte le bambine erano accovacciate sui talloni a setacciare meticolosamente con lo sguardo ogni centimetro quadrato.
Solo allora ho visto che il gruppetto dei maschi si stava dedicando a un’analoga attività. In cerchio, seduti sulle ginocchia intorno a un’area priva di prato, si davano da fare con le mani scavando nella terra. Mi sono chiesto se potesse essere in qualche modo pericoloso ma non c’è stato il tempo di darmi una risposta. Daniel ha gridato come fa sempre quando esulta, Caterina alle sue spalle anche ma dallo spavento, e con i compagni che gli stavano intorno si è precipitato verso di me. Come Bianca mi si è parato davanti e mi ha mostrato che cosa aveva sul palmo. «Maestro guarda quanti vermi». Quattro o cinque lombrichi attorcigliati in un groviglio laocoontico si dibattevano ciechi sulla sua mano verso una vana speranza di libertà. Ho pensato agli stereotipi di genere e a come sia possibile avere sensibilità così differenti quando si è così piccoli. La grazia contro le tinte forti, la natura immacolata con le unghie nere per la terra, un simbolo di speranza e una scena da film horror. Ho chiesto a Daniel di riportare i vermi a posto. Daniel si è voltato e, allontanandosi, l’ho visto mettere le mani in tasca. Nel frattempo è arrivata la collega a sostituirmi e, davvero, non so come sia andata a finire.

il bosco

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Le copie dell’Inferno e del Paradiso su cui ho studiato le conservo tutt’ora. Sono le edizioni commentate da Natalino Sapegno, pubblicate da La Nuova Italia e acquistate al prezzo di 4.500 lire. All’Inferno, per dire, manca persino la copertina da quanto l’ho maneggiata (poco) al liceo e (tanto) all’università. Come dice la prof di italiano di mia figlia, Dante è un evergreen e non si butta via niente, a maggior ragione in quello che sta per diventare il suo anno. Ne ha parlato durante il primo consiglio di classe aperto la scorsa settimana. Una mamma ha chiesto se si potessero vendere i libri di terza e ogni docente ha detto la sua. L’insegnante di scienze non ha avuto dubbi: il testo della sua materia non servirà quest’anno ma non è servito nemmeno lo scorso perché ha ritenuto di non doverne fare uso. Un genitore è giustamente intervenuto chiedendo il motivo per cui, allora, ne è stato richiesto l’acquisto. La professoressa ha sottolineato che il libro era stato scelto dal docente che l’aveva preceduta ma, secondo il suo punto di vista, non lo riteneva adatto e, comunque, un testo i docenti sono tenuti obbligatoriamente a indicarlo nell’elenco dei libri di cui gli studenti devono dotarsi.

Da addetto ai lavori mi sono chiesto il motivo di tanta rigidità, a maggior ragione se ha effetto sulle tasche delle famiglie. Cosa vuol dire che il docente deve obbligatoriamente fornire un titolo? Ai tempi di Internet e delle risorse condivise è un ragionamento che fa acqua da tutte le parti. Mia figlia, lo scorso anno, ha studiato chimica su materiale autoprodotto dall’insegnante e la scuola, di questo, ne dovrebbe tener conto. Se ti ritieni un docente sufficientemente completo e autorevole da non aver bisogno di nessun supporto di altri dovresti fermare i genitori in tempo prima di sprecare dei soldi. A me, poi, chimica fa così schifo che devo aver impresso questa convinzione nel mio DNA tanto che mia figlia non è da meno. Non a caso ha scelto il liceo classico dove, invece, la Divina Commedia è bene conservarla tutta la vita e sia io che lei del libro di chimica, se non fosse che è intonso, faremmo volentieri un falò.

L’insegnante di italiano ha confermato, per la quarta, l’edizione del Purgatorio commentata da Umberto Bosco e Giovanni Reggio e meno male che ho controllato di quale edizione fossi in possesso, prima di aggiungerla all’elenco dei testi da acquistare. Nel mezzo dei due sottili Sapegno, sullo scaffale, c’era proprio un voluminoso Purgatorio di Bosco-Reggio. Il fatto è che il prof con cui ho preparato l’esame di Italiano II, del Sapegno non ne voleva sapere e, credetemi, non è solo un gioco di parole, e io me ne ero completamente dimenticato. L’ho estratto da lì – un formato molto meno elegante degli altri due volumi – e appena l’ho sfogliato si è aperto un varco verso una dimensione che non potete nemmeno immaginare e il viaggio di Dante nei mondi ultraterreni non c’entra nulla. Molto più prosaicamente, correva l’anno 1987 e da qualche tempo stavo con una ragazza che faceva ancora le superiori. Frequentava ragioneria, non amava particolarmente la letteratura e così, per preparare Italiano II, mi aveva fatto dono della sua copia. Probabilmente avrebbe venduto la Divina Commedia alla fine della quinta a qualche altro aspirante contabile. In più non era un anno di Dante, e la possibilità che si iscrivesse a Lettere era ancora più remota.

Prima di consegnare il Bosco-Reggio a mia figlia ho notato però la vistosa dedica che quella ragazza aveva scritto a penna nella prima pagina bianca del libro. Una romanticheria da adolescenti stemperata nell’ironia, nel suo stile, in cui dichiarava di aver acquistato quel volume proprio lo stesso anno in cui aveva conosciuto l’uomo della sua vita.

Ma, sapete, il tempo passa e gli amori anche. Superato l’esame, il Purgatorio di Bosco-Reggio è finito tra gli altri due tomi dell’opera dantesca che mi ha seguito nei numerosi traslochi e lungo le diverse fasi della vita fino ad oggi, nelle mani di una sedicenne del duemila e venti che si appresta ad affrontare un nuovo anno scolastico tra mille difficoltà. Un paio di anni dopo l’esame di Italiano II, quella ragazza si legò al mio batterista, mettendo fine a una storia decisamente significativa e a una band tutt’altro che promettente. Resta solo un dilemma, tutt’ora insoluto, a cui ancora oggi non so rispondere: che fine ha fatto il Purgatorio del Sapegno?

quando alla radio mettono una canzone che conosco

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C’è una bella differenza tra mettere un disco o un pezzo su Spotify e sentire la stessa canzone alla radio. La musica suona diversamente quando la programma uno sconosciuto perché subentra il fattore sorpresa, l’effetto che fanno le affinità elettive di qualcuno negli studi di un’emittente che ha i tuoi stessi gusti e le conseguenti farfalle nella pancia che ti si liberano quando ti destreggi nel traffico o quelle rare volte in cui sei a casa e hai la radio accesa. Parte il pezzo e la prima cosa che pensi è oddio, ma è proprio quel pezzo che conosco solo io? Poi ti sinceri che nell’autoradio non ci sia un CD o che qualcuno non ti abbia hackerato il telefono per collegarlo all’hi-fi della macchina e abbia lanciato uno tra i milioni di mp3 contenuti nei centoventotto giga di memoria su cui ci sta praticamente tutto il sapere musicale umano degno dei tuoi gusti. Quindi ti convinci che è tutto vero: da qualche parte lassù nell’etere c’è un dj o un algoritmo che ha scoperto, come te, quella band e quell’album che credevi di essere l’unico sulla terra. E se è così c’è speranza per il genere umano e il mondo che abbiamo preso in prestito. Non tutto volge verso le brutture indotte dalla musica di merda, non fa tutto schifo, non è tutto reggaeton, la vita è bella. Cantiamo insieme alla radio le parole di questa canzone che conosciamo solo io e chi l’ha trasmessa prima che finisca e prepariamoci a scoprirne tante altre, prima di tutti gli altri.

ladri di biciclette

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Il pullman o, meglio, la corriera – si dice così dalle mie parti – per tornare a casa dalla scuola in cui insegno oggi è gremitissima, ma nei sogni non ci sono problemi di assembramento, non vedo nessuno con la mascherina, ne deduco che i fatti si svolgono prima della pandemia. Finalmente qualcuno scende all’unica fermata di uno dei centri abitati che si incontrano prima del mio, un borgo di campagna con quattro case in croce. Mi avvio, perdendo l’equilibrio per le curve del percorso, a occupare uno dei sedili liberi, e mentre sto per raggiungere quello che ho adocchiato una ragazza seduta mi ferma e si rivolge a me usando un’espressione molto familiare. La guardo tra il sorpreso e l’imbarazzato perché si tratta della citazione di un post di questo blog, anche se ora non ricordo bene quale. Mi colpisce la disinvoltura con cui mi parla, quella che usano i fan più audaci quando incontrano le loro popstar preferite nei luoghi della movida e li fermano per chiedere un autografo. La ragazza ha poco più di vent’anni e porta l’apparecchio, a conferma del fatto che i sogni probabilmente li registrano nel momento in cui siamo al massimo della nostra forma, per dare una versione al top di noi stessi agli altri protagonisti che li interpretano nonché agli spettatori. Mentre mi confessa di aver scoperto il mio blog osservandomi mentre scrivo i post usando la app di WordPress sullo smartphone durante i viaggi della mattina e di essere così diventata una mia lettrice, si avvicinano un paio di sue amiche a ricordarle che devono scendere, la fermata di Rivierasca si avvicina. Una in piedi mi dice addirittura che il mio blog glielo ha consigliato suo padre, un particolare che aumenta la mia autostima tanto da convincermi che potrò finalmente ingannare il tempo dei prossimi viaggi – siamo tutti pendolari quotidiani – flirtando un po’.

Le fan scendono e io prendo posto tutto contento per continuare la lettura del libro. Al capolinea recupero la bicicletta e mi dirigo verso casa, ma vedo movimento intorno all’ingresso del Cinema Nuovo, chiuso da tempo. Lascio la bici, senza legarla, appoggiata al muro dell’agenzia viaggi di fronte per entrare a dare un’occhiata. La platea è gremita, sul palco una conferenza si avvia alla conclusione. Si spengono le luci e parte un film-documentario dedicato al G8 e ai fatti di Genova. Decido di fermarmi ma prima mi avvio all’uscita per mettere la catena alla bici. Come supponevo, la bicicletta non c’è più. Chiedo alla donna che lavora all’agenzia viaggi ma non si è accorta di nulla. Penso così al motivo che, nella mia vita, ricorre con frequenza: mi succede qualcosa di bello e dopo facilmente accade, subito dopo, qualcosa di poco piacevole a compensare le sensazioni di gioia e di pienezza di me provate. Mi affretto così a tornare a casa a piedi e la casa, come sempre, è quella dove sono nato e cresciuto. Mi metto sul divano a fianco di mia moglie a guardare un po’ di tele ma suona il campanello. Qualcuno va ad aprire la porta e dal salotto intravedo superare la porta dell’ingresso mio cognato – quello che mi ha truffato appropriandosi della parte della casa di campagna di famiglia che spettava a me – con suo fratello, un tizio poco raccomandabile quanto lui.

A quel punto non ci vedo più dalla rabbia: come è possibile che i miei genitori abbiano mantenuto rapporti con la persona che ha distrutto la famiglia e ha aggravato le condizioni di salute di mio papà? Inizio a comportarmi proprio come quando mi vengono gli attacchi di ira da sveglio: l’emozione si impadronisce di me, non mi vengono le parole se non frasi sconnesse, quando invece vorrei demolire tutto con la mia ironia. Mi chiudo in camera per darmi una calmata sperando invano che qualcuno venga a vedere come mi sento. Quando torno di là l’appartamento dei miei, nel frattempo, si è riempito di gente. In cucina, intorno al tavolo, seduto insieme a mio cognato c’è uno sconosciuto che si alza immediatamente per venire a presentarsi, forse ha capito chi è l’autore del sogno. Anche la sala da pranzo è piena di ragazzini, ci sono bevande e analcoliche e bicchieri di carta sul ripiano della madia, qualcuno deve aver organizzato una festa. Mi verso qualcosa, mi è venuta sete dall’incazzatura provata, e vedo Marco e Christian, due dei miei alunni di seconda tra i più simpatici. C’è il frastuono tipico delle occasioni in cui si fa baldoria e, per conversare, è bene appropinquarsi alle persone per capire cosa ci dicono. Ora, a scuola, con la mascherina è fondamentale. Christian mi vede, fa cenno di avvicinarmi e, insieme, mi dicono «maestro ti vogliamo bene».

 

Bartees Strange – Live Forever

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“Who gave them fuckin’ niggas those rock guitars?”, cantavano i Body Count. Bartees Strange è il nuovo miracolo americano, un artista in grado di amalgamare con disinvoltura indie-rock e melodie black con incursioni nell’elettronica e nel songwriting, in un esordio destinato a lasciare il segno.

Nulla dev’essere per forza bianco o nero, tantomeno la musica. In tempi di continua polarizzazione, gli artisti che mescolano le carte in tavola risaltano per originalità e disorientano l’ascoltatore in cerca di sicurezze. Ma mentre è più comune un bianco che si cimenta con il soul – forse perché noi siamo più rodati nel colonialismo culturale – un’anima black che decide di dedicarsi all’indie-rock e al post-punk fa notizia come il cane che morde l’uomo. I precedenti, d’altronde, si contano sulle dita di una mano: Kele Okereke dei Bloc Party, Tunde Adepimbe dei TV On The Radio, le Big Joanie e Franklin James Fisher degli Algiers. Come loro, l’esperienza di Bartees Strange, al secolo Bartees Cox Jr., si distingue come qualcosa di completamente diverso e fuori dagli schemi. 

Il fatto è che non tutti hanno le opportunità e, di conseguenza, gli strumenti per spingersi oltre i muri sociali e culturali in cui si nasce, si cresce e, qualche volta, si muore. Bartees Strange è figlio di una cantante lirica e di un ufficiale dell’esercito. Nasce a Ipswich, in Inghilterra, cresce in Oklahoma e sfoga la sua vena artistica tra Washington e Brooklyn. Ci immaginiamo che ci sia questa vocazione alla multi-cittadinanza alla base della sua ispirazione. Dopo qualche esperienza come membro di band, che con il senno di poi si capisce perché gli andavano strette come un paio di scarpe di qualche numero più piccole, scopre una florida e raffinata vena cantautorale e decide di non darsi delle regole. Resta colpito proprio dai TV on The Radio e dal loro approccio a maglie larghe alle categorie e ai generi, un’attitudine che solo pochi posti al mondo come Brooklyn riescono a trasmetterti. A marzo di quest’anno, in piena clausura da pandemia, dà alle stampe un EP comprensivo di una serie di cover di brani dei The National. E pochi mesi dopo, a rendere meno horribilis questo duemila e venti, pubblica “Live Forever”, un disco di esordio che, credetemi, è una delle novità più sorprendenti uscite ultimamente.

In un’intervista a NPR, Bartees Strange sostiene di sentirsi equidistante da rapper e cantanti, consapevole del fatto che il rock, in tutte le sue derivazioni, abbia perso un’enorme opportunità di crescita e di evoluzione limitando il coinvolgimento della componente afro-americana. Dall’altra parte, l’hip-hop in questo momento in America ha una enorme influenza sul resto della cultura e l’indie-rock, almeno nei testi, sembra cantare sempre la stessa canzone e risulta stagnante. Ma Washington ha il microclima più adatto a favorire gli innesti tra due mondi spesso antitetici, una città dalla forte tradizione black ma anche punk e hardcore. “Live Forever” è la sintesi di tutto questo.

L’esordio di Bartees Strange è composto da undici tracce e altrettante anime, ma con un’unica identità riconoscibilissima di fondo. Si può scegliere da quale brano partire, come nelle storie interattive che prevedono percorsi differenti, e lasciarsi guidare in modi diversi. “Jealousy”, il primo brano, è una vera e propria sessione di riscaldamento. Solo voce e tappeti di sottofondo, una breve cerimonia di iniziazione per addentrarsi nel disco con l’equipaggiamento più adatto. Si spengono le luci e inizia lo spettacolo. “Mustang” è una bomba di synth su chitarre elettriche, e c’è poco da aggiungere. Sulla stessa scia è “Boomer”, scelto come singolo, un brano che forse costituisce l’episodio meno personale dell’album, con qualche ingenuità di arrangiamento e di soluzioni armoniche. 

Ma, subito dopo, si comincia a fare sul serio: dalle atmosfere trap di “Kelly Rowland” ai ricami di fiati jazz su batteria breakbeat di “In a Cab”, preludio al perfetto di mix di cantato soul su base post-punk di “Stone Meadows”, la vera punta di diamante di “Live Forever”. Ha dell’incredibile anche il capovolgimento electro successivo, “Flagey God” e il profondissimo trip-hop di “Mossblerd”, in quota Tricky. Fino a quando, a sbiancare il tutto, ecco la chitarra acustica americanissima e il songwriting di “Far”, una traccia dai due volti, pronta a prendere il volo con l’accelerazione e la voce distorta della coda. “Fallen for You” è la seconda parentesi unplugged del disco, una struggente ballad che spazia nel country e che prepara il campo all’elettronica di “Ghost”, l’ultima canzone, tanto eterea all’inizio quanto quadrata e regolare da metà in poi, un compendio di tutto quello che Bartees Strange sa fare bene. 

Non c’è un momento in cui, osservando il progetto “Life Forever”, si percepisca un’impressione di confusione. È la straordinaria vocalità black a fare da collante a un mondo variopinto in cui, orfani di una personalità così decisiva, faremmo a gara a separare i colori. Nulla dev’essere per forza bianco o nero, sostiene Bartees Strange. C’è un po’ di tutto in tutto, e la sua musica ne è la prova.

aneddoti brevi

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In classe, piantato con le puntine su uno di quei inutili listelli di legno fissati sul muro sopra alla lavagna per appendere cartelloni e poster (inutile perché di un legno così denso che comporta l’impiego del martello ma il martello, per motivi di sicurezza, in classe non si può tenere) ho appeso un avviso che non lascia dubbi: “ANEDDOTI BREVI”. Avete presente la scritta “AUTO ADAGIO” che impone di rallentare all’uscita dei box condominiali? In classe, oltre alle direttive anti-contagio per il coronavirus, ho deciso che da oggi si osserva una regola importantissima per il normale svolgimento delle lezioni.

Non c’è argomento o spunto o anche parola scaturita da una lezione che non attivi, nei bambini delle classi più piccole come la mia (quest’anno ho una seconda), la smania di condividere un’esperienza provata a casa, in vacanza, con gli amici e parenti, oppure tratta da quella nebulosa che è il loro passato spazio-temporale in cui un semplice riferimento storico come ieri è ancora un magma che va dal giorno prima a quattro anni fa e un pranzo dalla nonna che abita a dieci km può assumere i termini di un safari di un mese in un continente esotico.

Non tutti i bambini hanno il dono della sintesi e sono in grado di distinguere il superfluo dai dati fondamentali per arrivare al punto. Quando nell’attività in svolgimento – per la quale quasi sempre è richiesta la massima concentrazione – spunta qualsiasi cosa, come il disegno di un lombrico oppure una torta succulenta o, peggio, una gamba ingessata (all’esperienza ospedaliera non c’è bambino che riesca a resistere), come un timelapse di pianticelle che in quattro e quattr’otto si levano dal terreno, veloci e da diversi punti della classe si alzano le mani e gli sguardi dei bambini si accendono di quella voglia luminosa di farmi sapere l’aneddoto che gli è improvvisamente emerso nella testa, un marchingegno dalle componenti ancora in piena fase di assemblaggio e che, quindi, a rischio di lacune nel completamento del processo.

A me spiace non lasciar loro lo spazio che meritano, d’altronde sono i veri protagonisti della scuola, mica noi con il nostro vissuto e quando eravamo dark o punk che non interessa a nessuno. Così mi trovo costretto a dare la parola e, ogni volta, tremo. Cecilia comincia sempre con “maestro lo sai che” e poi, alla quarta inevitabile deviazione tematica, si perde e si ritrova in una storia che non c’entra nulla. Carmen abbassa la mano, studia il banco per una manciata di secondi come se dovesse raccogliere le idee, e poi comincia a raccontare ma, nel frattempo, le idee le si sono di nuovo rovesciate insieme a due dei tre astucci che tiene a disposizione. Al terzo aneddoto, tutti gli altri non vogliono sentirsi da meno e così si dà il via alla vera gara di protagonismo, tanto che i cinque o sei interventi nel frattempo si moltiplicano e diventano diciotto, con una durata media a bambino davvero poco sostenibile.

Comunque non è vero, scherzavo, non ho messo nessun cartello “ANEDDOTI BREVI”, in classe. Non esiste la brevità nella narrazione liquida dei bambini, che è quella corrente che ti trascina via con le parole e il cui unico appiglio – metaforicamente il ramo di un arbusto, un tronco strappato alla boscaglia, un tavolo da picnic in plastica e meno male che ogni tanto qualcuno getta un po’ di plastica in acqua – è la campanella, l’allarme della mensa che scatta all’improvviso, la bidella che porta una circolare, le cavallette, tutti diversivi che esistono solo in letteratura ma che, nel tempo scuola, si manifestano solo quando sono meno utili.

Ogni giorno ci ricasco e, uno ad uno, do loro la parole sperando che si annullino tra di loro e fingendo di essere sorpreso da tutte quelle storie strampalate nel loro mix di verità, sogni, cartoni animati, video di Youtube e racconti dei compagni ascoltati in precedenza, un tesoro di involontaria improvvisazione che, crescendo, la consapevolezza della vita così com’è dilapiderà senza ritorno.

attenzione pericolo: giornata di merda

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Una mail appena svegli, una discussione di prima mattina, una vomitata del gatto ed è subito #giornatadimerda. Così noi esseri metà umani e metà trendtopic (che tra parentesi potrebbe essere il titolo di un nuovo bestseller “Uomini e trendtopic”) ci carichiamo il fardello del simbolo dell’hashtag sulle spalle e ci rechiamo al lavoro, consapevoli del fatto che si tratti di un carattere invisibile al di fuori dell’Internet tranne che per noi che lo trasportiamo come uno zaino porta-pc. Se piove, perché in una vera #giornatadimerda non c’è mai il sole che splende, l’hashtag si inzacchera e si gonfia come le pagine di un libro fradicio e prima di entrare in ufficio, a scuola, in fabbrica o in negozio ci tocca strizzarlo e scuoterlo come si fa con gli ombrelli. Ma la #giornatadimerda non si può lasciare all’addiaccio e le aziende non prevedono armadi o contenitori in cui custodire l’hashtag come le borse o i caschi per la moto. E il bello è che noi esseri metà umani e metà trendtopic la lasceremmo anche all’ingresso, la nostra #giornatadimerda, nella speranza che qualcuno se la porti via, scambiandola per un gadget di valore. Siamo pronti a scommettere che però, se così fosse, la nostra #giornatadimerda ci attenderebbe fino al termine del servizio come i cagnolini fedeli aspettano legati alle rastrelliere delle bici gli anziani al supermercato, con quella faccia e la lingua a penzoloni e quello sguardo che, passandogli davanti e gratificandoli con quei versi di tenerezza che riserviamo solo alle cose tenere che colpiscono la nostra sensibilità, dice solo che sono esseri che vivono solo per il loro padrone e quello che avrà nel carrello (non necessariamente cibo per animali). Invece sappiamo tutti delle multe che fanno in centro a chi occupa, con i propri hashtag, i parcheggi destinati ai veicoli a due ruote e così siamo costretti a tenerceli sotto la scrivania, con la puzza di hashtag bagnato che emanano e nell’attesa che i modernissimi impianti di riscaldamento a pavimento ne asciughino il manto. E non provate nemmeno a lasciare sul posto di lavoro la vostra #giornatadimerda perché il giorno successivo la trovereste espansa come un alien che si nutre di non si sa bene cosa se non della propria essenza di #giornatadimerda. Al rientro, poi, molte #giornatadimerda sono così ingombranti che non riuscireste nemmeno a farle trottare da sole verso casa. Il mal di schiena vi costringerà a prenderle in braccio, come si fa con quei barboncini presuntuosi che pensano di avere le zampette d’oro che non si possono sporcare dei resti sudici di noi esseri metà umani e metà trendtopic e, giunti a casa, dovrete necessariamente riempirle di attenzioni per indurle al sonno precoce e permettervi, almeno, una boccata d’aria ai piedi della loro cuccia, dopo la ninnananna, facendo sì che una #giornatadimerda non sia declassata a #seratadimerda.

fai il bravo

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A fine anno si chiuderà anche “Total Control”, il progetto di sperimentazione psico-sociale avviato a Ghost Town (Florida). La cittadina statunitense è stata sottoposta, a partire dallo scorso gennaio, alla tecnologia di full-laser scanner comportamentale V-Foam®. Gli spazi pubblici e privati all’interno del perimetro urbano sono stati soggetti alla copertura capillare tramite il più innovativo sistema di rilevazione delle dinamiche interpersonali sempre più al centro del dibattito che, detto in parole povere, consente di sgamare in modo proattivo le cattive intenzioni dei cittadini nei confronti del prossimo e della cosa pubblica. Il sindaco di Ghost Town, la repubblicana Fancy Muller, si è dichiarata più che soddisfatta dagli analytics dalla società appaltatrice dell’infrastruttura tecnologica e della piattaforma di elaborazione delle informazioni, la multinazionale indiana Flaff Scan. Una posizione tutt’altro che condivisa dalle associazioni del territorio che si sono opposte a quello che è stato definito peggio di un panopticon e del grande fratello messi insieme. È tutta da verificare inoltre l’assenza di implicazioni sulla salute dei cittadini dall’esposizione alle onde elettromagnetiche di tipo Iota che, al di fuori dell’usuale spettro, in teoria non dovrebbero mettere a rischio la nostra incolumità. Resta il fatto che la sirena di alert che si attiva a ogni intenzione di “reato” ha permesso di cambiare idea in tempo agli abitanti di Ghost Town pochi istanti prima dell’irreparabile: dai mozziconi non gettati in terra alle manifestazioni di insofferenza del prossimo fino ai più comuni gesti di maleducazione quotidiana. L’esperienza ha però indotto le autorità a istituire il blocco dei tosaerba. I cittadini potranno rasare il prato solo un giorno al mese e tutti insieme, per non disturbare i vicini ogni santo giorno. Un provvedimento che sono in molti a pensare che dovrebbe essere preso anche da noi, considerando che ci siamo resi conto di quanti cazzo di giardini da curare ci siano intorno alle nostre case proprio grazie al lockdown e allo smart working.

garibaldi

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Il bello dei romanzi è che isolano gli attimi delle persone che altrimenti sfuggirebbero e nessuno ci farebbe caso. Parole su carta come fotografie, passaggi che puoi tornare indietro a rileggere ed è l’unico modo per bloccare il tempo. Nella vita non succede mica così. C’è un uomo, in un libro, che è fermo al semaforo rosso. Ha tutto il tempo per abbassare il finestrino e torcere il collo per arrivare con lo sguardo fino alla cima del grattacielo di piazza Gae Aulenti. Avete capito in che punto ci troviamo? La considera l’ultima sosta in città prima di tornare in periferia. Se si trattasse di narrativa americana nel paese in cui abita ci sarebbe di sicuro una “Main Street”, che è un po’ come se noi chiamassimo le vie “La prima a destra”, “Oltre il sottopasso” o “La parallela a questa”. Come tutti noi quell’uomo va a periodi. Periodi che durano a malapena fino al punto come il precedente che non è lungo nemmeno una riga. Periodi di qualche minuto, ore, giorni, settimane, mesi e via così fino al secolo perché poi, obiettivamente, non c’è storia. Gli alti e bassi non sono solo una questione di dimensione o di altezza musicale in base al rango che un compositore qualsiasi ti assegna sul pentagramma a seconda della chiave di decodifica che ha scritto a inizio partitura. Ma quell’uomo, a malapena, riesce a intonare melodie elementari. A noi piace pensarlo comunque fondamentalmente sensibile. Gli piacciono gli avverbi. Gli piace far finta di sentire l’odore del fango dal suo balcone, la sera di un giorno di pioggia, proprio come durante il lockdown quando l’aria era così pura che sembrava di essere in montagna. Scatta il verde, l’uomo preme l’acceleratore e nota due scritte fatte con il pennarello su un manifesto pubblicitario. Sembrano due inserzioni speculari lasciate da persone che dichiarano di cercare un amico, seguite da i numeri di telefono di entrambi. Chissà se qualcuno poi li ha messi in contatto. Magari poi si sono fidanzati e sono diventati genitori. L’uomo pensa così di portarsi verso la fine del racconto. Sa che guidare e scrivere simultaneamente è vietato dal codice della strada. Si limita così ad ammonire i due ricordando che quando decidi di fare un figlio sottoscrivi una sorta di patto in cui ti assumi la responsabilità, tra le tante, del mondo che gli metti in mano, del futuro che lo aspetta e di quello che sarà quando tu, genitore, non ci sarai più.