container

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Con tutti i quant’altro che diciamo stiamo riempiendo il nostro paese meraviglioso, lo stesso in cui ci troviamo come ci ricordano quei cartelloni kitschissimi e incorniciati che vediamo agli Autogrill, di discariche ormai traboccanti di tutto quello che non ci dilunghiamo a elencare. Riusciamo a esemplificare facendo una lista di uno, due o massimo tre voci, poi un po’ perché non abbiamo tempo da perdere, un po’ perché non ci viene in mente più nulla, quindi per evitare una brutta figura perché non sappiamo più andare avanti ci mettiamo un bel è così via o eccetera, sotto la forma più di moda del quant’altro, e togliamo le castagne dal fuoco. Ma le parole sono importanti, per alcuni, o sono macigni, per altri. E quello che diciamo, quando si accorge di non essere desiderato, grida vendetta contro gli esseri umani che l’hanno tirato in ballo e si trasforma in rifiuto indifferenziabile e indifferenziato che va ad accumularsi nella spazzatura, nelle discariche e quant’altro. Salvate il pianeta: limitatevi a un paio di punti nei vostri elenchi, d’altronde less is more, e quello che non trovate nel vostro pensiero organizzato lasciatelo agli altri che fanno fatica a trovarne anche uno solo, di esempio, a partire da me.

diagnosi

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Se un giorno prevalesse sul serio il primato green sulla politica imposto dall’emergenza sanitaria – un po’ a breve termine come per il Covid-19, cioè inteso come se non vi date una mossa siete spacciati – e si stabilisse che le automobili sono abolite dalla faccia della terra perché inquinano troppo e la temperatura si alza e i ghiacci si sciolgono e il clima diventa ingestibile e moriremo tutti, vi dico la verità che sarei contento. Io odio le macchine come odio tutte le cose in cui – aprendole – non ci capisco un cazzo. Ieri mattina la mia alunna Sofia ha avuto una specie di crisi isterica da pianto perché, cancellando troppo vigorosamente una cornicetta che aveva sbagliato a copiare dal libro, ha bucato irrimediabilmente il foglio. Che poi, voglio dire, irrimediabilmente per modo di dire. La cornicetta si può rifare o si può tagliare un pezzo di foglio a quadretti e incollarlo sopra il punto consumato, tanto per iniziare. Piangeva così forte e inconsolabilmente da non riuscire più a parlare e respirare. Ho persino temuto che soffocasse o che non riuscisse più a spegnersi. Quando mi si rompe la macchina mi piacerebbe potermi mettere a piangere disperatamente così. Mi piacerebbe tornare a casa e invece di trattare tutti male perché mi girano i coglioni perché l’auto ha un problema e devo portarla in officina vorrei sedermi al tavolo, appoggiare la testa sulle braccia proprio come fa Sofia e mettermi a piangere come se non ci fosse un domani. Non ho mai capito perché le reazioni che hanno i bambini poi, a un certo punto della vita, le dismettiamo. Non ci comportiamo più così perché socialmente non ci è consentito e gli altri adulti ci prenderebbero in giro oppure perché, da un punto di vista fisico, a una certa età il pianto di quel tipo nel nostro organismo non si manifesta più, come le mestruazioni che da vecchi si interrompono o i denti da latte che lasciano il posto a quelli definitivi. Io sono convinto che ci sia una sorta di convenzione consolidata per la quale, come si dice davvero, un adulto non deve fare il bambino. Di base c’è il fatto che portare l’auto dal meccanico di fiducia mi costa una fatica emotiva che non vi so descrivere. Intanto perché è un meccanico che considero di fiducia perché mi rivolgo sempre a lui, e potrebbe benissimo essere che sin dal primo intervento che gli ho richiesto mi abbia rifilato prestazioni non richieste facendomele pagare profumatamente, ma non ho strumenti per giudicare. L’officina – tutte eh, non solo quella di cui mi avvalgo – poi mi sembra un ambiente truce abitato da operatori consapevoli di fornire servizi essenziali e del potere che ciò permette di esercitare. Ho portato la mia automobile perché ha avuto un problema – stavo guidando, ho sentito uno scossone, si è accesa la spia del motore e l’auto ha iniziato a tremare – e ancora una volta sono caduto nel baratro. «Parcheggiala meglio e lascia le chiavi nel quadro», mi ha detto. «Entro sera ti chiamo per una diagnosi». Ho temuto che fosse una battuta di cattivo gusto e che aggiungesse che si augurava di non doverla spostare in terapia intensiva. Poi ha risposto a una telefonata e, visto che la cosa andava per le lunghe, mi sono congedato e sono tornato a casa a piedi. Ecco, se fossi un meccanico mi comporterei proprio come io ho fatto con Sofia, che non ho potuto prendere in braccio perché a scuola ci è vietato ogni contatto con i bambini. L’ho convinta che fare un buco nel foglio a furia di cancellare non è certo la fine del mondo, che tutto ha un rimedio, che si può perdonare tutto a tutti, che non sempre si deve pagare per gli errori o perché c’è qualcosa che non va, che la vita è piena di cose meravigliose e che non c’è nessuna difficoltà in grado di convincerci del contrario.

il convivio

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Mi piace molto l’approccio della mia dirigente: la mensa è tempo scuola, un’affermazione che io interpreto come mangiare insieme è un momento in cui i bambini stanno tra di loro privi della mediazione della didattica e dell’insegnante e imparano a conoscersi condividendo lo stesso pasto e stando a tavola. Poi è vero che, a fine pranzo, restano un sacco di avanzi ed è un peccato. Però i gusti dei bambini li sappiamo tutti ed è difficile conciliare il desiderio di intercettare l’esigenza di offrire delle alternative a quelle due pietanze in croce che a furia di capricci abbiamo cresciuto i nostri figli e l’obiettivo di riempire loro la pancia in modo che tirino fino alla fine dell’orario scolastico del tempo prolungato. Quando alla primaria c’era mia figlia ricordo di un’associazione di genitori un po’ new age – sicuramente protogrillisti – che avevano concordato un menu da veri radical chic fautori dell’adultizzazione alimentare precoce dei loro figli. Potete immaginare come è finita: ai bambini faceva giustamente schifo tutto e, trascorsa qualche settimana, eravamo tornati alle ricette scolastiche in tutti i sensi. Occorre ricordare che i nostri figli che abbiamo cresciuto a carote a merenda sono quelli che alle feste si sfondano di più di Nutella e Coca Cola e adorano i compleanni al McDonalds, indovinate perché.

Inutile dire che anche il tempo mensa risente delle ristrettezze imposte dall’emergenza sanitaria. Quest’anno sono stati programmati turni molto rigidi lungo le due ore in cui viene fornito il servizio. Il che da un certo punto di vista è positivo, perché prima del Covid il pranzo durava un’ora, un tempo troppo lungo per tenere dei mocciosi a tavola. Noi delle seconde scendiamo in mensa alle dodici in punto e dobbiamo tagliare la corda dopo trenta minuti per dare l’opportunità agli inservienti di igienizzare tavoli e sedie e pulire tutto per il turno successivo. Le pietanze vengono servite in un vassoio da ospedale, diviso a comparti in cui sono distribuiti contemporaneamente primo, secondo e contorno. Prima della pandemia si alternavano i piatti in ceramica con il corrispondente effetto estetico. La sbobba non sembrava diversa da quello che i bambini vedevano a pranzo a casa. Ora la mise en place lascia un po’ a desiderare, molto sacrificata alla praticità. La minestrina di riso e prezzemolo, per dire, ne risente in modo particolare.

Ma ciò in cui i bambini sono penalizzati maggiormente è la distanza che devono mantenere tra di loro. Non più di tre su tavoli lunghi, una disposizione che ammazza la conversazione, i tornei di obbligo o verità e, di conseguenza, la convivialità. Nonostante ciò il fragore è assordante come prima. I bambini parlano meno ma parlano a voce più alta per farsi intendere dai compagni di tavolo e dagli insegnanti. Eppure anche questa nuova normalità sembra non costituire un disagio. I miei alunni continuano a fare le stupidaggini di prima giocando con il cibo, come quando infilzano i panini con le forchette di plastica per costruire gelati immaginari e poi leccano la farina sulla superficie. Trascorsi i trenta minuti che gli spettano scattano in piedi per rientrare in classe, in fila indiana, a un metro di distanza dal compagno davanti e quello dietro, come veri soldatini in una battaglia di cui saranno loro i veri vincitori.

siamo proprio sicuri

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Sabato ho comprato una confezione di cannucce di carta all’Ipercoop. Costano 0,95 €, ce ne sono in tutto venticinque, sono bianche e piuttosto rigide e resistenti e lunghe una ventina di centimetri. Mi sono sembrate perfette per assolvere la funzione di bacchette magiche in classe. Le bacchette magiche sono una trovata intelligente della mia collega Tiziana per poter usare la LIM con i bambini. Le LIM sono dispositivi touch e in condizioni normali si utilizzano con una penna di plastica che ha una punta di gomma. Il problema è che dobbiamo impedire lo scambio di contatti sulle superfici per prevenire i contagi e stare attenti, così abbiamo deciso di ricorrere a una bacchetta magica individuale che i bambini tengono nell’astuccio e usano solo loro, senza prestarla a nessun altro.

Lo avevo annunciato qualche settimana fa. «Ora vi preparo una bacchetta magica, così anche quest’anno possiamo divertirci con i nostri giochi alla LIM», avevo detto. Non l’avessi mai fatto.

Ogni giorno, appena prendevo posto in piedi davanti a loro per partire con la lezione, c’era qualcuno che alzava la mano per chiedermi quando avrei consegnato le bacchette magiche. Avrei dovuto arrivarci da solo che non solo una promessa va mantenuta, ma parlare di cose di magia alimenta l’immaginazione di una classe di quell’età. Ogni volta che qualcuno mi rivolgeva quella domanda e io mi sentivo in difetto mi veniva voglia di reagire rivelando che cosa succede la notte di Natale nelle loro case. Il fatto è che mi dimenticavo sempre di cercare qualcosa con cui realizzarle. Avevo provato con le cannucce di plastica ma hanno quell’arricciamento per piegarle verso la bocca quando si beve e quindi non andavano bene. Il modello di cartone invece è perfetto.

Stamattina le ho consegnate e ho chiesto ai bambini di personalizzarle pasticciandole con i pennarelli. Non è facile colorare una cannuccia. Per dimostrargli che era fattibile ne ho presa una e, con l’unico pennarello che avevo nel mio astuccio – un evidenziatore verde – ho reso la mia bacchetta magica diversa da tutte le altre. Poi con il Tratto Pen nero ho scritto “Roby” sull’impugnatura. Ho messo un gioco alla LIM per risolvere le addizioni in colonna e ho chiamato tutti, ad uno ad uno, per verificare che la bacchetta fosse effettivamente magica. Nessuno ha sbagliato nemmeno un colpo, e mi sono sentito soddisfatto. La magia funziona davvero, a scuola.

portobello

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Angelo è un collega con i capelli bianchi che tra due anni andrà in pensione. Insegna musica alla secondaria e ricopre la funzione di vicepreside. Si è allestito, con il tempo, un’aula attrezzatissima con pianoforte, tastiere elettroniche, impianto hi-fi e persino xilofoni e vibrafoni. Tra i numerosi compiti a supporto della dirigente di cui viene incaricato c’è anche la stesura dell’orario. Mentre il primo collegio docenti, a inizio settembre, volgeva al termine, Angelo ha preso la parola – i collegi si svolgono rigorosamente in videoconferenza – per chiedermi di fermarmi qualche minuto una volta disconessi tutti. «Abbiamo comprato un software per creare l’orario. Ci daresti una mano per capire come si utilizza?», mi ha chiesto.

Da allora ci siamo visti spesso in Meet per lavorarci insieme. Lui mi ha dettato i parametri, i nomi dei docenti, il monte ore di servizio. Mi ha seguito mentre inserivo i vincoli dovuti al fatto che abbiamo due sedi e occorre tener conto degli spostamenti, ci sono due docenti di motoria e una sola palestra, ci sono i colleghi che hanno esigenze di disponibilità particolari, quelle che ogni anno, quando alla fine tutte le combinazioni possibili tra le classi sono agli sgoccioli, sono le prime a venir giustamente sacrificate per portare a termine una delle incombenze più complicate del sistema scolastico. Il software, in realtà, non aiuta per un cazzo. Ha svolto il sessanta per cento del lavoro, e di questo gliene sono grato, ma poi il resto delle limature siamo stati costretti a farle a mano. Ha un’interfaccia utente imbarazzante e l’usabilità di autoarticolato senza servosterzo, con milioni di tabelle inutili che si generano in altrettante combinazioni di parametri. «Come faccio a vederle tutti insieme?», mi chiedeva Angelo ogni tanto. Avrei voluto rispondergli dicendo che faceva al caso nostro una di quelle sale controllo che ho visitato per lavoro nella mia scorsa esperienza professionale. Network Operation Center – così si chiamano, sale con le pareti ricoperte da monitor che trasmettono grafici e dati, con i tecnici seduti a controllare che tutto funzioni alla grande.

Angelo ed io ci abbiamo impiegato un trentina di ore in tutto. Quando gli ho chiesto quanto tempo ci mettessero gli scorsi anni a ultimarlo manualmente, mi ha risposto che per l’orario sono state sempre destinate cento ore. Se ne occupava una docente che è andata in pensione. Ci lavorava due settimane e poi passava l’elaborato ad Angelo, che in altri sette giorni sistemava tutte le incongruenze e cercava di soddisfare le richieste degli insegnanti. «Cerca di mettermi non più di quattro ore ogni mattina». «Riesci a lasciarmi un paio di giorni senza la prima ora?». «Al giovedì e al venerdì vorrei uscire alle 12». Cose così. Quanta ingenuità.

In quella trentina di ore trascorse in videoconferenza insieme ci siamo scambiati qualche confidenza. Angelo è un musicista serio, diplomato al conservatorio, mica come me che non ho mai imparato a suonare un solo pezzo dall’inizio alla fine al piano senza steccare almeno una volta. Abbiamo però una cosa in comune: possiamo vantare una carriera di musicisti di pianobar alle spalle, un’esperienza che ha i suoi pro e i suoi contro. Si finiva di suonare alle due di notte, poi si smontava, si andava a letto e, la mattina dopo, alle otto e mezza in ufficio (io) e dietro la cattedra (lui). Angelo mi ha detto che sua moglie lo accompagnava spesso nei locali in cui si esibiva. Ora, invece, la moglie lo assiste nella stesura dell’orario. Quando è tutto pronto Angelo deve trascrivere la versione definitiva sui tabelloni cartacei da appendere a scuola. Si stampa le tabelle realizzate al computer e la moglie gli detta ore, cognomi dei docenti e classi in cui si tengono le lezioni. Io mi sono un po’ vergognato perché abbiamo fatto spesso tardi, e mia moglie e mia figlia invece non si sono dimostrate così collaborative, anzi spesso si sono lamentate ad alta voce del fatto che, fuori servizio, dedicassi così tanto tempo alla scuola. Ma non è un problema. Anzi.

Mentre lavoravamo in collegamento video dalle nostre rispettive abitazioni, ogni tanto la mia gatta saltava sul pc – abitudine che non dismette mai – e si mostrava davanti alla webcam. Il fatto è che anche Angelo ha un problema di animali domestici impiccioni. Angelo è proprietario di un gigantesco pappagallo che, quando soffre la solitudine o vuole attirare l’attenzione, emette dei fischi fastidiosissimi a un volume spropositato. Riuscire a concentrarsi per portare a termine l’orario con quei versi in cuffia è stata un’impresa. Altro che acufene. I fischi erano continui ma lui sembrava totalmente a suo agio. «Vuoi vederlo?», mi ha detto un giorno. Senza attendere la mia risposta, si è alzato ed è ricomparso in video con quel gigantesco esemplare variopinto appollaiato sul braccio. A quel punto il pappagallo ha interrotto le sue strazianti lamentele e io ho potuto riprendere a tentare gli incroci possibili tra classi e docenti, tra sedi e palestre, tra vincoli e opzioni in modo efficace.

typo

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Quando facevo il copywriter combattevo quotidianamente con i refusi. Non sempre i programmi di scrittura te li segnalano, non sempre quando te li segnalano li vedi, non sempre quando rileggi te ne accorgi. Nelle agenzie di comunicazione spesso si lavora di fretta e non c’è tempo di aspettare la mattina successiva, con la mente fresca, per controllare un testo che si è scritto il giorno prima. «Mi mandi questa traduzione ASAP?», ti chiedono i clienti via e-mail.

Da allora vivo letteralmente terrorizzato dai typo, o errori di battitura. Non per questo me ne scappano anche ora che faccio l’insegnante nelle comunicazioni che invio ai colleghi, per non parlare delle cose che scrivo qui. Qualche giorno fa, non so perché, nell’ora di inglese mi è venuto da scrivere alla lavagna “ketch-up” con il trattino, come se fosse una specie di phrasal verb. Magari un giorno esisterà pure il verbo “to ketch-up”, e significherà “mettere la salsa di pomodoro sulle patatine”. “Ketch it up!”, si chiederà al venditore di hamburger per chiedergli di insaporire il panino.

Ora invece sono alle prese con l’inserimento degli alunni che sono arrivati quest’anno nella piattaforma di didattica digitale. La procedura sarebbe piuttosto semplice, se i colleghi della segreteria fossero capaci di esportare dal programma di gestione del registro elettronico gli elenchi in modo automatico. Ma siccome sono oberati di lavoro faccio prima a chiedere agli altri docenti che a spiegar loro la procedura. Penso sempre che tutti i colleghi, all’inizio dell’anno scolastico, abbiano prodotto in qualche modo una lista in ordine alfabetico dei ragazzi che compongono le loro classi.

Io lo faccio prima del primo giorno in Excel perché mi serve per diversi scopi. Per esempio, quando devo registrare chi porta lo scottex e il sapone liquido a settembre basta stampare una tabella e lasciarla sulla cattedra, a beneficio mio e della collega con cui condivido la classe. Alla prima ora chiediamo ai bambini e mettiamo una crocetta nella cella a fianco del nome e il gioco è fatto. Il problema è che gli elenchi che mi arrivano dagli insegnanti per l’inserimento in piattaforma sono spesso zeppi di refusi nei nomi, da cui deduco che li abbiamo compilati a mano. La percentuale di errori è più alta per gli alunni stranieri, ma di questi tempi, in piena anarchia di scelta del modo in cui chiamare i figli, non si scherza anche tra gli italiani. A volte quello che leggo è così bizzarro che provo a googlare per capire se si tratti di un refuso oppure di un nome o un cognome che esista davvero. Lo scorso anno non sono stati i pochi i casi di genitori in difficoltà perché cercavano di accedere alla piattaforma con le credenziali corrette mentre i loro figli erano stati inseriti in modo diverso. Magari poi ho sbagliato io, cosa possibilissima.

Certo, direte voi, con tutti i problemi che affliggono la scuola ai tempi della pandemia preoccuparsi dei typo è da pignoli snob, da copywriter falliti. Io vi do ragione perché a me i refusi fanno paura più di ogni altra cosa, quindi accetto al volo il vostro consiglio. Ora chiuderò gli occhi e farò finta che i typo non esistano.

prima classe

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Stamattina mi ha fermato un uomo sulla trentina, erano le sette e in giro c’eravamo solo io e lui, in pantaloncini e scarpette, a correre. Con il suo marcatissimo accento meridionale mi ha chiesto se da quelle parti ci fossero posti dove fare dieci o venti chilometri nella natura e io, che avevo il fiatone, non me la sono sentita di rispondergli che qui non siamo nella savana e, anzi, c’è la più alta densità abitativa d’Europa. La spiegazione sarebbe stata troppo lunga e mi avrebbe richiesto troppe energie e concentrazione. Sono riuscito però a dirgli che c’era il modesto parchetto dove vado a fare la mia sgambata quotidiana, un percorso ad anello da poco più di ottocento metri, e che poteva seguirmi se fosse riuscito ad accontentarsi. Quando mi ha chiesto quanto mancasse a un altro sentiero che vedeva segnalato su Google Maps ho capito che era arrivato da poco e non conosceva per nulla la zona. «Sono qui da giovedì», mi ha confermato, «faccio l’insegnante». Gli ho risposto che allora eravamo colleghi, anche se lui è supplente di informatica in un istituto tecnico di provincia che ha la sede nel paese vicino al mio mentre io sono docente di ruolo in una primaria a un quarto d’ora di macchina dal vialetto da cui poi ha preso il volo – si era visto subito che non si trattava di un runner cialtrone come il sottoscritto – dopo avermi ringraziato per le indicazioni. Forse è la solitudine o forse solo la riconoscenza ad averlo spinto a sottolineare che quel parchetto in cui l’ho condotto sembrava perfetto per le ripetute, se avesse saputo con chi farle, e non so se contava sul fatto che gli lanciassi la proposta di vederci, ogni tanto, per allenarci insieme, ma a me piace correre in autonomia.

Anche nella mia scuola è arrivata una collega dal sud più profondo, così remoto che – dal modo in cui si esprime – faccio fatica a capire quando mi parla, e la mascherina è l’ultimo dei problemi. Si è spostata con la figlia al seguito, che presto la abbandonerà per raggiungere Latina dove studia all’università, e mentre cerca una sistemazione abitativa conveniente e comoda soggiorna presso un bed&breakfast. Quando si collega per le riunioni di programmazione a cui partecipiamo in videoconferenza alle sue spalle si nota l’arredamento tipico degli hotel. Si vede che non è una casa anche solo dalle tende alle finestre. Le storie umane che si leggono alle spalle degli insegnanti e tra le righe della scuola sono infinite, una per docente, una per alunno, una per collaboratore ai piani.

Nel frattempo la seconda g della secondaria è la prima classe in quarantena del comprensivo in cui lavoro. Un ragazzino, lo scorso venerdì, ha accusato i sintomi da Covid-19 e ora sono tutti a casa. Sulla chat dello staff della dirigente, quando ne ha dato notizia, qualcuno ha commentato che prima o poi doveva succedere. La statistica può piacere o meno, a me per esempio fa schifo, eppure non perdona.

Bambara – Stray

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[questo articolo è uscito su Loudd.it]

“Stray” è un disco epocale, un’opera che resterà nei decenni come uno di quei libri di Cormac McCarthy che prende polvere sullo scaffale perché ci fa paura rileggerlo e ammettere che la trama si è conclusa addirittura peggio di quanto ci ricordassimo.

Al post-punk mancava un sottogenere noir-pulp. Capiamoci: il filone gotico è stato ampiamente sviscerato nei minimi dettagli dai gruppi dark figli dei Banshees e dei Bauhaus. In questo millennio, però, nessun esponente della categoria ancora aveva provato a mettere da parte il distorsore per collegare la chitarra a un effetto pulito come lo spring, quel riverbero antico come gli amplificatori su cui è stato installato e che ha fatto la fortuna in musica del surf e, sul versante cinematografico, dei film di Tarantino. Un suono inconfondibile e allarmante, una pennata capace di lasciarci solcare le onde del Pacifico come di farci vivere un duello nel far west e, ora, di indurci a pogare come forsennati sotto il palco virtuale e fisico (sempre che si facciano vedere da queste parti) dei Bambara, la prima band ascrivibile a questa categoria e pronta a stravolgere le regole di un mercato dominato dal buonismo facile e accogliente dei suoni fuzz filtrati dall’overdrive.

I Bambara sono due gemelli e un bassista di Athens, Georgia, cresciuti artisticamente a Brooklyn. Annoverano una voce da Nick Cave o, per chi è pratico di queste lande impervie, una versione intonata, tentacolare e suadente di Joe Casey, una chitarra tutt’altro che brit e poco comune per il filone di appartenenza, una scrittura da Leonard Cohen, una sezione ritmica brutale rodata sui più comuni standard del post-punk, pronta a cavalcare sui tamburi e a impennarsi quando c’è da partire al galoppo nei momenti più tirati. Facce poco raccomandabili, approccio da brutti e cattivi, uno sporco terzetto fin troppo trasandato per l’accuratezza con cui suonano la loro visione delle cose.

La capacità dei Bambara di proporre suoni così apparentemente eterogenei come se fosse la cosa più naturale del mondo, usati come sottofondo per una narrazione baritonale, a tratti declamata ma sempre ruvida e diretta, non può che prendere alle viscere e lasciare il segno. Il loro distinto uso della narrativa macabra con il valore aggiunto della surrealtà dà luogo a suggestive incursioni nei bassifondi dell’indie. Partiti nel 2013 con un disco noise – Dreamviolence – che a dargli dell’inascoltabile è fargli un complimento, si inizia a ragionare con il secondo lavoro, “Swarm”, uscito nel 2016. Giunti al quarto album, e sull’onda dello straordinario “Shadow Of Everything” pubblicato un paio di anni fa, la band rilascia un disco come “Stray” e per me il 2020 musicale potrebbe chiudersi qui. I Bambara hanno già vinto tutto. Non chiedo altro.

“Stray” è infatti un pugno nello stomaco, una congiura emotiva efficace per i discepoli del masochismo sonoro, quel popolo che ascolta musica impegnativa con l’obiettivo di stare male perché, davvero, farci piacere un disco non deprimente è una cosa che non ha proprio senso. Quindi perché non calcare sul registro della sofferenza? Perché non usare lo spleen come backdoor per prendere il controllo dell’ansia della gente e dominare il mondo?

E potete sezionare “Stray” sino agli atomi e a tutte le particelle che vi girano intorno senza trovare una vibrazione che infierisca con cattiveria gratuita laddove è già la vita in sé a essere spietata. Un disco in cui non c’è speranza, ha già detto tutto e non ammette contraddittori per mediare una redenzione. Anche perché è la morte a essere protagonista. L’unico ente in grado di dire punto e basta: possiamo andare avanti a parlarne e a scriverne per anni, secoli e millenni ma non c’è un dato di fatto più realisticamente dominante e crudele.

Il paesaggio sonoro dei Bambara è crepuscolare, polveroso, dark-western, smisuratamente violento negli spazi incommensurabili del mistero, una prateria sconfinata e buia dove al posto del coyote regna l’ossessivo lamento della chitarra vibrante. Gli stessi tappeti di tastiere di cui le dieci tracce sono ricche risultano la cosa più lontana dall’elettronica possibile. Un fattore imprescindibile nella fotografia di un album altamente cinematografico, la costante coloritura virante verso le tonalità notturne e volta a ristabilire i parametri della fragilità delle cose umane, la parola miseria tatuata sul retro del labbro – sono parole dei Bambara – che ci ricorda il nostro destino ogni volta che sorridiamo allo specchio.

“Stray” è di sicuro un disco epocale, un’opera che resterà nei decenni come uno di quei libri di Cormac McCarthy che prende polvere sullo scaffale perché ci fa paura rileggerlo e ammettere che la trama si è conclusa addirittura peggio di quanto ci ricordassimo. La parola fine su tutto con il paradosso stesso dei Bambara, al momento una delle band più vitali al mondo con il chiodo fisso dell’andarsene da qui.

brogli

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Qualcuno mi spiegherà, prima o poi, quali giochi di potere si mettono in atto con l’elezione degli organi collegiali della scuola per cui il livello di sicurezza richiesto impone lo svolgimento delle operazioni in presenza e non tramite un comodissimo modulo di Google su cui esprimere la propria preferenza comodamente da casa e, soprattutto, al sicuro dal pericolo di contagi in tempi in cui non si scherza con la salute. Eppure.

creature della notte

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Nelle case, di notte, quelle che si vedono non sono lucciole ma led accesi e di tutti i colori. Nel silenzio e nel buio creature leggendarie lavorano per noi ricaricandosi per quello che le aspetta al nostro risveglio. Smartphone, tablet e PC succhiano energia al pianeta e consumi ai loro proprietari mentre noi ci arrovelliamo in sonni disarticolati. Qualcuno si alza prima che il sole sorga. Le porte in tinte scure prive di vetri, chiuse inavvertitamente, costituiscono un ostacolo al percorso verso il luogo di liberazione per il bisogno impellente che strappa l’uomo al suo sonno. Ci sono anche spot televisivi che raccontano queste urgenze meglio di me. Occorre muoversi molto lentamente, spostarsi a memoria da un vano a quello contiguo, tenendo le mani in avanti. Il buio è pieno di insidie. I gatti equivocano la sortita come l’inizio della nuova giornata e reclamano il primo pasto. Una lampadina vecchio stile si accende nello sgabuzzino stipato di provviste di cibo per animali e scarpe di stagione. Ci sono buste di cibo di tutti i gusti e ci sono solo snickers abbinate a coppie e ordinate per lunghezza. Anni fa gli scienziati avevano previsto il primato di quelle che i nostri nonni chiamavano scarpe da tennis. Quel giorno in cui conquisteranno il pianeta, probabilmente, sta per sorgere. Che ne sarà dei nostri piedi. Che ne sarà dei nostri nervi, se dormiamo così poco. I bagliori dei dispositivi in stand-by ci indicano la via del ritorno come segnali luminosi di una immaginaria pista di atterraggio. I gatti, ora sazi, tornano a riposo. C’è ancora qualche ora di speranza. Buonanotte.