X Factor Mixtape 2020

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Anche se sembra che alla fine ci abbiano presi per sfinimento, in realtà potremmo far finta che si tratti dell’esatto contrario. Alla milionesima edizione di X Factor, intanto, noi che ascoltiamo solo musica di un certo livello abbiamo imparato a scriverne correttamente il nome senza trattino. Quindi, dopo centinaia di strade alternative prese per evitare di trovarci a tu per tu con i partecipanti e doverne in qualche modo parlare, con la nuova edizione non ci sono più scusanti. La popolare trasmissione è scesa a compromessi alzando e raffinando la qualità della proposta, ma è anche vero che con il passare del tempo – e con l’età – anche i più intransigenti detrattori si sono rincoglioniti, il che spiega il passaggio alla terza persona plurale. Di fronte a un gesto di riconciliazione così eclatante da raffreddare gli animi di entrambe le fazioni non si può non far finta di nulla.

E così eccoci qui: è uscito un vero e proprio mixtape con le 12 tracce presentate dai partecipanti alla prima puntata. Oggi i mixtape sono così di moda, che poi non sono altro che compilation come quelle del Festivalbar. Il fatto è che la canzonissima del duemila, questa volta, è partita con una batteria di inediti di tutti gli artisti, spostando così il focus della proposta musicale del programma da quello di uno spettacolo sulla musica e sulle dinamiche tra i giudici, in cui l’interpretazione delle cover era al centro e l’interprete un di cui, a quello di una manifestazione canora, nella quale il giudizio – almeno il primo – lo si deve esprimere sulla qualità dei pezzi originali presentati e non sul progetto in sé costituito dal (e costruito sul) personaggio che canta. In “X Factor Mixtape 2020”, pubblicato in formato streaming su Spotify, ci sono solo le canzoni dei 12 partecipanti nude e crude e nulla di più.

Il fatto è che degli innumerevoli cantanti e band protagonisti delle passate edizioni è rimasto ben poco. Quanti e quali hanno fatto della musica un mestiere e pubblicano dischi con regolarità? A me vengono in mente solo Giusy Ferreri, Marco Mengoni e Francesca Michielin. Mi sono dimenticato di qualcuno? Tutte le proposte, dalle più commerciali e tamarre sino alle più raffinate e di nicchia (i Bowland su tutti) sono sparite nel nulla, spremute e strumentalizzate al fine di far crescere la trasmissione per fare ascolti e attirare pubblicità – come è giusto che sia – e poi abbandonate al primo Autogrill come animali domestici che non servono più, una volta che il programma stava per giungere a destinazione. In più c’è un altro fattore di cui la produzione non poteva non tener conto. Una trasmissione live ai tempi di una pandemia globale e in crescita, in cui il pubblico presente gioca un ruolo decisivo con la sua imprevedibilità sulle performance che si tengono sul palco, doveva necessariamente essere ripensata.

Ne consegue che in un benchmarking con i talent musicali competitor diretti – Amici su tutti -, dal punto di vista della creazione di popstar, X Factor risulta un flop senza precedenti. In più, negli ultimi anni, sembra che la formula abbia rotto i maroni, a partire dai giudici buonisti che non aizzano più l’indotto del giornalettismo che va a caccia di gossip. 

E poi, diciamocelo, le cover belle e convincenti da portare in gara non sono infinite. L’edizione 2020 ha cambiato in parte le carte in tavola. I concorrenti questa volta partono con una personalità artistica – passatemi il termine – già sin troppo definita. Cantanti e band piuttosto inquadrati in un genere difficilmente scardinabile dal contest – c’è un abisso di versatilità rispetto agli altri anni, quando invece si prediligeva la duttilità della componente pop – e con inediti pronti all’uso. Vedremo quale sarà la strategia del programma per convincere il pubblico a non cambiare canale sino al termine di questa edizione, ora che quello che accadeva in finale – la presentazione di un pezzo inedito – è stato utilizzato come punto di partenza e non di arrivo. 

Da tutto ciò deriva una raccolta di 12 canzoni che sorprende non solo per qualità e varietà, ma perché rende superflua la gara in sé. Quest’anno X Factor potrebbe finire qui, con 12 partecipanti che sono saliti sul palco di un Sanremo qualunque e hanno fatto conoscere le loro canzoni. Il sistema è stato abbattuto? Abbiamo vinto noi? È ancora presto per dirlo, ma nel frattempo ascoltiamo le tracce perché potrebbero riservare delle sorprese.

Vi dico subito i miei preferiti, così arriviamo al dunque. I Little Pieces of Marmalade presentano un format inedito per il nostro mercato – batteria/voce e chitarra – e di difficile gestione. Il richiamo ai White Stripes è riduttivo perché sono molto meno fighetti e il brano, “One cup of Happiness”, se non fosse stato presentato alla corte di Cattelan probabilmente sarebbe già sulle playlist degli indie rocker più esigenti. Per non parlare di N.A.I.P., un vero outsider non solo per il programma ma anche per il mondo intero, raro esempio di techno-situazionismo intellettuale e industrial-demenziale, una versione trap-songwriting a metà tra Max Headroom e MGZ. 

Ci sono poi brani molto più mainstream ma, non per questo, meno azzeccati. “Cuore nero” di Blind ha un titolo che richiama trame nazifasciste e, per questo, fa un po’ paura ma poi si scopre che le teste rasate non c’entrano e, addirittura, contiene un ritornello che ti si pianta nel cervello ed è già una hit. I Melancholia sono un prodotto fatto e finito e in qualunque universo parallelo non avrebbero alcun bisogno di nessun trampolino di lancio se non quello dentro a loro stessi. Per non parlare di Cmqmartina, che incarna perfettamente l’idea di pop elettronico e raffinato che hanno i millennials, e del calcuttiano Santi, in perfetta quota cantautori indie. Gradevoli anche i richiami eighties dei Manitoba (su cui nessuno avrebbe scommesso due lire), l’italo-reggaeton di Vergo e persino le canzoni che sanno di già sentito, come Eda Marì, Bluefelix, Mydrama e Casadilego.

“Mixtape 2020” dà l’impressione di una scelta di campo di X Factor, prova di un modello ormai superato che lascia spazio a un nuovo approccio ai tempi del Covid-19, in cui la nuova normalità impone un punto di vista diverso. È chiaro che la decisione di passare la palla al valore di cantanti e band non è per nulla disinteressata. Ci saranno le cover e ci sarà lo spettacolo, come sempre. Ma la capacità di adattamento alla situazione e la necessità di non perdere in credibilità, in ascolti e, ovviamente, in raccolta pubblicitaria, questa volta, almeno in questa fase, è a tutto vantaggio dei concorrenti. Quindi va bene così.

Getting Better: le 250 migliori canzoni dei Beatles classificate, valutate, commentate.

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[questo articolo è uscito su Loudd.it]

Nel 2020 c’è ancora qualcosa da dire sui Beatles? Almeno 416 pagine. È appena uscito per Arcana “Getting Better: le 250 migliori canzoni dei Beatles classificate, valutate, commentate”. L’autore, Leonardo Tondelli, è uno dei più seguiti blogger italiani e online da più tempo, considerando che ha pubblicato il primo post a gennaio 2001 e, da allora, non ha mai smesso. Insegnante presso una scuola secondaria di primo grado, Leonardo scrive di tutto ma è specializzato in creature leggendarie: le divinità della religione, quei santi che tiriamo in ballo nei momenti in cui canalizzare l’ira lenisce il dolore fisico, e le divinità della musica, come Bob Dylan e il quartetto di Liverpool, su cui invece a scherzarci su ne va della nostra incolumità.

Poco più di un anno fa Leonardo ha dato il via al suo progetto di pubblicare su Il Post una monumentale classifica di 250 brani dei Beatles, assumendosi la responsabilità di ordinarli dal “meno” migliore al “più” migliore, anche se è uno strafalcione che fa venire la pelle d’oca ma scrivere peggiore, a proposito di qualunque cosa inerente ai Beatles, credo sia vietato.

Gli articoli sono stati poi raccolti in un libro uscito lo scorso 22 ottobre, a cavallo tra quello che sarebbe stato l’ottantesimo compleanno di John Lennon e la commemorazione dei quarant’anni trascorsi dai tragici fatti del Dakota Building.

Abbiamo contattato Leonardo Tondelli per aver qualche dettaglio in più sulla sua opera.

Come definiresti il tuo libro? (Ti do un indizio: un’enciclopedia)

Sicuramente non un’enciclopedia, anche perché a questo punto della Storia nelle librerie di enciclopedie beatlesiane ne trovi quante vuoi. A me sembra che il mio sia un “commento”, nel senso letterario del termine (io ho una formazione letteraria, anche se per far soldi mi sono messo a scrivere di musica). In molte case esistono ancora vecchie edizioni commentate di classici della letteratura (in Italia perlopiù Dante e Manzoni): si tratta di versioni in cui un critico, con la scusa di spiegare qualche punto difficile, si abbandona a interpretazioni e digressioni, litigando spesso con altri commentatori che sono venuti prima di lui in una lunga discussione che a volte comincia nel medioevo. Ecco, io ho fatto una cosa simile, ma con le canzoni dei Beatles come palinsesto.

L’etichetta “musica” è la seconda in classifica, nel tuo blog, con 275 post (almeno oggi, perché “santi” le sta con il fiato sul collo subito dopo con 274). In che posizione si trovano i Beatles se dovessi fare una classifica degli ascolti nella tua vita?

Può darsi che siano il gruppo che ho ascoltato di più, ma bisogna dire che sono un ascoltatore molto ondivago e svogliato. Quel che è veramente importante è il momento in cui li ho ascoltati, ovvero tra il 14 e i 18 anni, per la lezione di libertà che hanno impartito alle mie orecchie. Poi per un bel po’ li ho accantonati, al punto che quando ho cominciato questo progetto mi sono reso conto che alcune canzoni non le avevo mai ascoltate.

Ci sono due aspetti sul lavoro che hai svolto per questo libro che hanno dell’incredibile e rendono la tua opera monumentale. Il primo è come sia possibile aver così tanto da scrivere su ciascuna canzone, anche se chi segue il tuo blog sa benissimo che hai tanto da scrivere su qualunque cosa. Quanto già conoscevi e quante ricerche hai fatto?

Ho la sensazione di avere studiato molto meno di quanto avrei dovuto – anche perché è cominciato tutto in modo semiserio, e quando la cosa è diventata più seria e mi hanno proposto di farci un libro, il tempo cominciava a mancare: poi c’è stato il lockdown, le cavallette, ecc. Però per esperienza a volte più conosci la materia e meno ti resta da scriverne. C’è anche da dire che per me è naturale, ogni volta che riascolto un disco o una canzone, andare a cercare su internet cosa ne ha scritto il tal critico o il tal musicista, per cui molte idee al momento di scrivere si erano già sedimentate.

Il secondo aspetto è che non c’è nulla di più soggettivo di una classifica musicale. Il tuo approccio – le migliori 250 canzoni – può suonare improbabile per chi non è avvezzo ai toni dei social network, in cui chiunque può smontare e rimontare qualunque teoria anche solo con un diploma all’università della vita, ironicamente e non. Perché quindi una classifica e non un semplice elenco in ordine alfabetico o cronologico?

La verità è che all’inizio volevo fare un mega-torneo in stile Wimbledon, con 256 canzoni (e a volte mi torna anche la voglia di farlo), che è proprio una classica trovata da social network, salvo che di solito la gente si stanca coi tornei a 32, per cui dopo un po’ ho optato per la più semplice classifica. L’idea di affrontare i Beatles in senso cronologico mi spaventava, perché molto facilmente sarebbe diventata una storia di quegli otto anni della loro vita; una cosa che già altri hanno fatto molto meglio di quanto possa fare io. Invece cominciando dalla canzone più ‘brutta’ ho avuto a disposizione un po’ di tempo per prendere coraggio e affrontare la materia: quando sono arrivato a metà comunque ho iniziato ad avere paura, ma ormai non potevo più tornare indietro. Nel libro comunque le canzoni sono organizzate in ordine cronologico.

E poi: come sei riuscito a decidere le posizioni? Quali criteri hai adottato?

Sin dall’inizio sapevo di non essere capace di preferire una canzone all’altra, e che quindi non avrei deciso nulla: ho preso tutte le classifiche già pubblicate on line (Rolling Stone, Mojo, NME, ecc.) e ho fatto una media.

Quante canzoni hai lasciato fuori dalla classifica?

L’idea originale era di non lasciarne nemmeno una. In realtà ho sacrificato almeno una trentina di cover incise alla BBC che erano pure interessanti ma avrebbero allungato troppo il brodo. Nel frattempo è uscito il cofanetto per il cinquantenario di Abbey Road con un inedito (Goodbye), che conoscevamo già ma che fino a questo momento non era considerato un brano dei Beatles, visto che McCartney lo aveva riservato a Mary Hopkins. Tra un po’ dovrebbe uscire il cofanetto di Let It Be con altri due o tre inediti, sempre abbastanza inessenziali. Sul libro non hanno trovato spazio neanche alcuni commenti che avevo scritto per brani di Anthology e alcune outtakes del Disco Bianco; il libro era già molto grosso così, e poi mi sembrava appropriato lasciare qualche ‘inedito’ per quelli che hanno avuto la pazienza di seguirmi sul Post.

Come ti sei organizzato il lavoro?

Non l’ho organizzato, come al solito ahimè. Mi è venuta in mente l’idea, ho scritto cinque o sei pezzi, li ho mandati al pazientissimo direttore del Post che mi ha dato il semaforo verde, e poi se avessi avuto il tempo avrei cominciato dai brani che conoscevo meglio e progressivamente avrei affrontato gli altri; invece come al solito mi sono ridotto all’ultimo momento. Probabilmente certe cose mi escono soltanto se sono un po’ sotto pressione. Quando poi ho firmato il contratto sono proprio andato in blocco – tempo qualche settimana e c’è stato il lockdown, che nel mio caso è stato molto faticoso, non uscivo più di casa ma avevo troppe cose da fare. Insomma non so neanch’io come sono riuscito a rispettare i tempi. Mi ha aiutato molto la famiglia, che ha capito che stavolta dovevo davvero farcela e ha avuto pazienza e pietà di me.

Come per i grandi classici della letteratura, nel tempo si sono succeduti fior di commentatori e opinionisti autorevoli sui Beatles. Come hai affrontato la sfida di aggiungere il tuo punto di vista e una rilettura su un fenomeno su cui è già stato detto e scritto molto?

Credo che la molla sia stata proprio questa: parlare di qualcosa di cui tutti hanno già parlato, partecipare a un’enorme discussione che dura da parecchio e continuerà dopo di me. A quel punto riuscire a scrivere qualcosa di nuovo è una sfida – poi ovviamente come in ogni sfida a volte si vince e a volte si perde.

É nato prima il progetto di somministrazione graduale per Il Post o l’idea del libro?

Quando ho iniziato ero abbastanza scettico sulla possibilità del libro, perché ci ho provato altre volte con altri progetti e per un motivo o per un altro non ce n’è uno che sia andato in porto. Forse stavolta ho scelto i Beatles perché davvero, di più popolare dei Beatles non c’è neanche Gesù Cristo (un libro su Gesù Cristo non me lo pubblicano, ci ho provato).

Nei tuoi pezzi pubblicati sul Post spesso ci sono video o altri contenuti a corredo. Hai dovuto adattare qualcosa per la versione stampata? Quanto è diverso scrivere per un blog/per il web rispetto a scrivere un libro? 

La differenza macroscopica in effetti è che i contenuti web sono più multimediali: per me è importante inserire immagini e video, non solo per combattere l’effetto ‘muro di testo’, ma anche per fornire esempi o offrire argomenti collaterali. Questa cosa non sarebbe possibile su un libro (mi piacerebbe fare libri illustrati, ma sarebbe ancora più complicato per me e costoso per il lettore). L’altra differenza più importante è che i blog sono sempre un po’ più egoriferiti dei libri, o perlomeno certe digressioni personali secondo me hanno più senso su un blog che su un libro. Il problema è che in certi casi (spero pochi), se avessi tagliato le mie digressioni personali non sarebbe restato un granché.

Sei un insegnante della secondaria di primo grado. Hai mai provato a intercettare gli ascolti dei tuoi alunni con l’obiettivo di farti chiedere chi erano i Beatles?

Una cosa che ho imparato alla svelta è: mai discutere di musica con gli undicenni. No sul serio, hanno gusti agghiaccianti, uno ci resta male – poi si ricorda cosa ascoltava lui a undici anni e mette le cose in prospettiva. Anche perché per un insegnante è molto facile ottenere l’effetto inverso, ovvero causare in loro un rigetto, e non vorrei mai che si mettessero a odiare i Beatles per causa mia. Per cui se proprio dobbiamo parlare di musica di solito è Young Signorino o Sfera Ebbasta. Se poi si mettono a odiare Young Signorino per causa mia, beh, pazienza.

Prima Dylan, poi i Beatles. Chi sarà il prossimo?

Non saprei, per ora sono spossato. Ho come la sensazione che ci sia ancora un po’ di lavorare su Dylan, ero praticamente arrivato alla fine ma poi ha messo fuori altri cinque o sei dischi, di cui uno di inediti.

Cosa diresti per convincere i lettori di Loudd a comprare una classifica di canzoni dei Beatles che non vede al primo posto “Helter Skelter”?

Beh dunque, posto che è un brano straordinario con una storia pazzesca, richiamerei l’attenzione sul fatto che all’inizio non suonava poi così “loud”, e se è diventato un monumento al frastuono non è per una esigenza espressiva: è stata una decisione presa a tavolino da McCartney, che voleva dimostrare a se stesso e ai rivali di poter suonare più “loud” di chiunque. Insomma è possibile, sotto il rumore, sentire un po’ di freddezza, di artificio. Ci sono altri brani dei Beatles che forse non suonano altrettanto rumorosi, ma in cui il rumore non è fine a se stesso: penso a Tomorrow Never Knows o She Said She Said, o per tornare a McCartney, persino un brano come Oh! Darling, dove si distrugge le corde vocali con una violenza molto più immediata e sincera.

taglia 48

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La mia classe oggi trascorre l’intervallo in un parco che non ho mai visto. La prima impressione, però, non è delle migliori. Ci sono tanti bambini. Troppi bambini. Rispettare il distanziamento sarà un’impresa. Le istruzioni erano quelle di portarsi il pranzo al sacco come si fa quando si va in gita. Io controllo che tutto fili per il meglio, in piedi in un punto da cui si gode una visione d’insieme. Non so se ho già mangiato, nei sogni la fame è una sensazione che non si prova. Più facilmente ci scappa da andare in bagno. Marco Giulio mi chiede di usare la toilette, cosa che fa sempre quando siamo in mensa perché gli piace scherzare con l’interruttore della luce ma, quando non riesce ad aspettare di rientrare in classe, deve accontentarsi della turca. Ai servizi del parco in cui ci siamo fermati però c’è un po’ di coda. Ma quando è il suo turno mi tocca aiutarlo perché il water è sproporzionato per le dimensioni umane, per non parlare di quelle di un bambino. Lo tengo per le braccia mentre fa quello che deve fare, una cosa che non facevo da quando mia figlia era piccolissima. Quando usciamo, però, fa una faccia strana e dice di non sentirsi poco bene. Anzi, gli viene da vomitare. I bambini che vomitano in mensa sono la cosa peggiore che possa capitare a un insegnante e non so, qui all’aperto, come sarà l’esperienza. Non faccio in tempo a dirgli che magari è solo un po’ di nausea che rimette una confezione intera di robiola, ed ecco avverarsi il miracolo: nel sogno sento la puzza. L’odore del latticino rimesso dai bambini è ancora peggiore di una vomitata tout court. Comunque, come spesso accade una volta che ci liberiamo, Marco Giulio si sente subito meglio e torna a giocare con i compagni sugli attrezzi da corpo libero disseminati per il prato, proprio mentre mi raggiunge mio cognato. Torna da casa mia, dove si è incontrato con mia moglie per farle firmare un documento relativo a uno degli innumerevoli prodotti postali che ci ha venduto nel tempo. Mi dice qualcosa a proposito di Brunetto Latini. Sostiene che il fatto che un’entrata non prevista e che garantisce qualche sicurezza in più si chiami “tesoretto” sancisce il primato della cultura umanistica su quella economico-finanziaria. Mi mostra la sua pagina Facebook sul telefono, dove ha scritto un post simile. Indossa il mio completo a quadretti piccolissimi grigio chiari e non posso non notare che gli sta strettissimo sull’addome Peccato, penso prima di svegliarmi, perché avevo pensato di regalarglielo proprio qualche giorno prima. Ho preso qualche chilo, durante il lockdown, e nei pantaloni taglia 48 proprio non ci entro più.

musica ignorante

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Nelle competenze previste per la proposta di educazione civica applicata in modalità interdisciplinare, sulla documentazione ufficiale, alla voce musica per la classe seconda primaria si legge “Interpretare i temi ed i contenuti della musica colta, con la capacità di cogliere spunti e supporti in un’ottica multidisciplinare”. La presenza dell’aggettivo “colta” mi ha fatto venir voglia di stracciare ciò che stavo leggendo, se ciò che stavo leggendo non si fosse trovato su un file di Word, per giunta impaginato da cani, in tipico standard da scuola pubblica.

Con le espressioni musica colta, seria, d’arte, dotta e aulica – riporta Wikipedia – ci si riferisce a tutte quelle tradizioni musicali che implicano avanzate considerazioni strutturali e teoriche e che siano inscrivibili in una tradizione musicale scritta. La nozione di musica colta è frequentemente legata alla distinzione che se ne fa in musicologia dalla popular music (rock e pop) e dalla musica cosiddetta tradizionale (cioè il folk).

La musica colta è qualcosa di straordinario. Ma limitarsi a questo, nell’educazione musicale, è fortemente riduttivo. La musica colta sta alla popular music come ittiti e sumeri stanno al 900 in storia. Nel senso che i nostri ragazzi arrivano alle superiori avendo chiaro il codice di Hammurabi ma senza conoscere la data dell’unità d’Italia o l’anno in cui le loro nonne hanno potuto votare, in quanto donne, per la prima volta. Non sto dicendo che il passato remoto sia meno importante rispetto al passato prossimo. Anzi, sì. Dirò di più: lasciamo ittiti e sumeri a chi vorrà aumentare le schiere degli archeologi disoccupati e diamo un po’ di contemporaneità in più ai nostri bambini, vi assicuro che sono in grado di comprenderla allo stesso modo della mitologia dei popoli antichi.

Per la musica vale la stessa cosa. Modelli così distanti nella sensibilità di chi vive il duemila e venti trasmettono la percezione dell’arte frutto di un linguaggio che non appartiene a nessuno – o almeno non in vita – tantomeno al pubblico. Io mi batto per far sì che i miei alunni siano in grado di interpretare i temi di tutti i generi musicali, intercettando i loro ascolti per proporgli link, comparazioni, alternative, approfondimenti. In tutto questo c’è spazio per la musica colta, ma da quando la musica di consumo di tutti i tipi ha imposto il suo monopolio nella nostra società, trovo anacronistico riferirsi solo alla classica (compresa la classica contemporanea che poi, diciamoci la verità, quale docente di musica è in grado di insegnarla?). E allora il jazz? E allora i King Crimson? E allora il PD?

C’è anche chi pensa che, se esiste una musica colta, è perché c’è una musica ignorante. Ora, guardate i vostri figli. Guardate i compagni di classe dei vostri figli. E tra tutte quelle menti coperte da cappucci in felpa nei quali si rifugiano per compensare la mancanza di uno spazio tutto loro, provate a spiegargli perché la musica che ascoltano tra di loro è ignorante mentre quella che ascoltano a scuola è colta. Chiedete a loro quale preferiscono, in quale si ritrovano, quale comprendono, quali generi sono più in linea con il modo di fornire una sintesi del mondo che abitano. E poi chiedetegli se si divertono a scuola.

il bene trionfa sempre sul male

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Poco fa mi sono accorto che la Kinder ha finalmente liberato lo spot del suo Pinguì dalla poco convincente cover in italiano di “Walk Like an Egyptian” delle Bangles, campagna pubblicitaria di cui avevamo parlato qui. Forse i creativi e l’azienda stessa pensavano che l’idea diventasse un tormentone, un po’ come il jingle di si con riso senza lattosio. In realtà non ha mai convinto molto i ragazzi degli anni 80, che sono consumatori forti di oggi, altrimenti non si spiegherebbe un capovolgimento di fronte così clamoroso. O, forse, è scaduto l’acquisto dei diritti della canzone. Ora si vede la mamma e i bambini alle prese ancora la danza propiziatoria della merendina confezionata ma, della canzone, non c’è più traccia. Il lockdown non sarà la stessa cosa, senza quella metrica così spregiudicata e quella proposta così ossessiva.

ultimo

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Dice Google che non può connettere Adsense con il mio blog perché fornisco “contenuti di scarso valore”. Ma come si permette? Volevo monetizzare – come dicono i resilienti e flessibili giovani imprenditori all’avvio delle loro startup digitali – questa mia coltivazione artigianale di idee strampalate offrendo l’opportunità a Google di piazzare in modo automatico qualche annuncio pubblicitario e farmi guadagnare in base al numero di esposizioni e click. Anche questa volta non potrò arricchirmi. E per fortuna che questo sito inizia con la lettera A, altrimenti avrei occupato l’ultima posizione in classifica anche in un ordine alfabetico universale. Chissà se esiste una specie di indennità per quelli che hanno il cognome che comincia per Z, una ricompensa per la pazienza profusa negli anni ad attendere il proprio turno e a sorbirsi tutte le altre lettere prima. Il mio cognome inizia per B e, non mi ricordo in che classe, c’è stato un anno in cui sono stato il numero uno. I prof davano un’occhiata al registro e mi chiamavano già dal primo giorno. Un disagio equilibrato, in parte, dal fatto che nei fantasiosi sorteggi tramite il numero di pagina del libro aperto a caso l’uno non risultava mai, nemmeno a seguito dei calcoli più elaborati. Mi accontenterei di una via di mezzo: un dignitoso riconoscimento da Google per tutto l’impegno che impiego nella fornitura di contenuti di alta qualità per il web e un cognome che inizia con G o con L, più facilmente rintracciabile.

una terza sopra

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Subito dopo la discografia dei Beatles e, lo scrivo per sentito dire perché non ci ho mai provato, molta roba di Simon & Garfunkel che è stata pensata per dare il meglio a due voci, “Rio” dei Duran Duran è il disco più divertente da ascoltare in macchina se, come me, non resistete all’impulso di armonizzare le melodie delle canzoni anche se non ve lo potete permettere. Era l’83 ed era bello maneggiare quel vinile con quella copertina così particolare da sembrare più una pagina pubblicitaria su una rivista patinata, estrarre il disco, mettere il lato A e divertirsi spostando una terza sopra – in falsetto, considerando il tono già acuto di Simon Le Bon – il ritornello della prima canzone, la title-track di quell’album. Non solo. Anche “Hungry like the wolf” e l’inossidabile “Save a prayer” si prestavano particolarmente a quello scempio privato che, però, a porte chiuse dava molte soddisfazioni. Il fatto è che nessuno avrebbe mai detto, quando attendevamo che passassero i video di quelle canzoni alla tele per divertirci con le nostre seconde voci, che avremmo trascorso il sessantaduesimo compleanno di Simon Le Bon nel mezzo di una pandemia globale.

esistenze nitide su sfondi sfocati

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Il temuto ritorno della didattica a distanza, che ora si chiama didattica digitale integrata – forse perché l’acronimo DAD presumeva l’esclusiva dell’impegno alla sola componente maschile genitoriale quando invece, a suggerire le risposte ai figli dietro la telecamera, ci sono spesso le mamme – ha reso nuovamente urgente la ricerca di una soluzione condivisa al problema della parte di casa da mostrare alle spalle delle persone quando si presentano in mondovisione a colleghi o studenti. Recentemente ho tradotto uno studio sul tema che riportava una percentuale preoccupante di gente che dichiara di provare vergogna di quello che ha dietro di sé ma non nel senso di culopiattismo, di distorsioni della spina dorsale o, peggio, di follower. Stiamo parlando di sfondi. Il fatto è che gli americani ci vanno giù pesanti con le emozioni e scrivono shame quando invece è solo un po’ di imbarazzo per la credenza con le porcellane della nonna, e comunque la questione ora sembra essere di competenza della privacy e di chi la deve garantire. Le principali piattaforme di videoconferenza hanno adottato funzionalità in grado di utilizzare sfondi finti o di attivare un effetto di sfocatura, peraltro molto efficiente e in grado di occultare inconsapevoli cameo di parenti e animali domestici. Che poi, diciamocelo, quel che si vede è il minimo. Vogliamo infatti parlare dei figli dei colleghi che, mentre le mamme partecipano al collegio docenti o alle riunioni di programmazione, sbraitano come indemoniati durante le partite di Fortnite? Oppure delle tv accese nelle stanze attigue sintonizzate su sante messe o programmi mediaset di gossip del tardo pomeriggio? La nostra vita, con i suoi background e i suoi suoni di sistema, siamo noi. C’è poco da nascondere.

feng shui

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Ogni tanto succede che figlia e gatta, entrambe abbondantemente oltre l’età infantile, si intrufolino nottetempo nel letto, tra mia moglie e me. Chi ne fa le spese è la mia schiena perché, pur costituendo un idillio dal punto di vista esperienziale, la multi-promiscuità non è il massimo per la postura e rende vano il beneficio del supermaterasso in memory foam che si siamo concessi come regalo per i cinquanta inverni sul gobbone in dodici comode rate mensili, con l’obiettivo di preservarlo il più possibile, quel gobbone. Indovinate, così, a chi tocca rinunciare al tepore delle coltri per lasciare spazio ai due intrusi. Mi tiro su dal letto morto dal sonno e mi dirigo nel letto di mia figlia. Il problema è che ogni volta che mi addormento lì sono soggetto a incubi. Sarà la solitudine, sarà il link del lettino singolo con le reminiscenze dell’infanzia, saranno i peperoni a cena. Non passano un paio d’ore che mi trovo a destreggiarmi in situazioni oniriche complesse e angoscianti, in cui mi capita di fare di tutto per non soccombere a qualcosa e difendo quel poco di spirito che rimane mentre si sogna fino a quando lancio il mio grido di rivalsa che passa da una dimensione all’altra e, al risveglio, la casa risuona ancora dell’eco delle mie urla. Io sostengo che la colpa sia dell’orientamento del letto, troppo perpendicolare all’ordine naturale delle cose. Il fatto è che non è possibile provare il contrario. I volumi dei mobili della cameretta impediscono una disposizione alternativa. Nel dubbio la prossima volta proverò con il materasso in terra, come facevo nella mia prima casa quando il massimo che mi ero potuto permettere era solo il futon entry level dell’Ikea ma senza struttura Grankulla abbinata. Che poi il Grankulla, alla fine, sono riuscito a permettermerlo ma qualche tempo fa è finito con merito in discarica. Il futon entry level è invece rimasto giù in cantina tutto imballato nel nylon, lo riporto su quando mia figlia ha ospiti e serve dotarsi di posti letto provvisori. Comunque mia figlia non subisce le angherie dovute alla mancanza di rispetto del feng shui, quindi è tutto da vedere.

Speranza – L’ultimo a morire

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La recensione di un disco d’esordio dovrebbe prevedere un nutrito preambolo di dettagli biografici. In un album di debutto non ci sono solo le prime canzoni ma c’è, soprattutto, la vita che l’ha preceduto e le esperienze che hanno portato l’artista sin lì, un trascorso di cui le canzoni sono un adattamento in musica. Come l’inizio di ogni cosa si tratta del momento più bello. Dall’uscita del primo disco nulla sarà più come prima.

In realtà di Speranza se ne parla già da un po’. Non a caso – giustamente – in “Casertexas” sostiene di incazzarsi quando, dopo vent’anni che scrive canzoni, c’è ancora chi lo chiama emergente. Come molti esponenti della scena rap e trap, il periodico rilascio di singoli sotto forma di video per Youtube e di brani pubblicati sulle piattaforme di streaming ne ha alimentato la fama grazie al passaparola. Nel caso di Speranza c’è anche il provvidenziale endorsement di un esponente del settore che ha attirato curiosità trasversale (“So’ n’eremita c”u tocco ‘e re Mida/Tiene l’invidia? Nun t’aggia dà cunto”, Camminante), ed è curioso che, per le nuove generazioni di artisti che hanno conosciuto l’industria discografica già allo sbando, la pubblicazione di un ellepì costituisca ancora un obiettivo di carriera.

Per i dettagli sulla sua vita, quindi, vi lascio a un’intervista rilasciata a Daria Bignardi – interessata, come già accaduto per l’analoga iniziativa con Massimo Pericolo, a confezionare un’adeguata collocazione a un fenomeno scomodo secondo un modello di catalogazione tale da consentire, al pubblico dei “grandi”, una facile rintracciabilità culturale all’interno del loro sistema, per ovvi fini di controllo (“Hê capito Savià? Me piglio pure ‘o stereo cu tutto l’impianto”, Spall a sott 4) e a questo esaustivo documentario di Noisey, in cui Speranza è stato seguito durante la preparazione del suo “L’ultimo a morire.”

In entrambi i casi risulta difficile abbinare il mansueto Ugo Scicolone, con i suoi occhi chiari e i suoi modi garbati, con la sua umiltà da ragazzo del sud che sembra chiedere scusa del disturbo, con le sue debolezze e i suoi tic, alla voce hardcore-trap urlata di Speranza, sicura, massiccia e diritta al punto, a tratti violenta, poliglotta e multiculturale, esasperata nei cupi videoclip dalle movenze che ne accompagnano l’espressività, un timbro graffiante che sta al rap come i Sepultura stanno al metal.

Certo è che grazie alla raffinata musica di Speranza la trap italiana sale finalmente di livello, consolidando un meritato processo di emancipazione dalla mediocre generazione rap precedente, già iniziato con Massimo Pericolo. L’età media dei seguaci di questo fenomeno – unico per bacino di utenza nella storia del pop italiano – malgrado temi e approcci vietati ai minori si è abbassata vertiginosamente, fino a contendere il marketshare dei fan ad artisti del calibro dei Me contro te. Nulla di male, per carità, a parte il rischio che un pubblico composto da alunni della scuola primaria e secondaria di primo grado depauperi la portata esplosiva di nichilismo ribelle degli esponenti del settore, una reductio ad animazione da oratorio estivo di prodotti pensati invece per trasmettere machismo, voglia di sfondarsi di qualunque sostanza stupefacente (“E quanno stongo arrapate/Cucaina ‘int”a purchiacca, еh/Non legalizzate o si no venimmo ‘a mortе”, Chinatown) e indissolubile appartenenza al ghetto.

Ma il pericolo è anche che un genere così di moda esaurisca il suo principio attivo per sovraesposizione, imitazione dei modelli e ripetitività dei temi. Sono anni che la proposta trap si avvale di narrazioni e stereotipi quali il riscatto sociale conseguito grazie al successo, la droga, le faide interne, le donne consenzienti, brand e auto di lusso (“Ho il cambio vestiti con l’antitaccheggio/Chiuse ‘int”o cuofano d”a Bentley”, Calibro 9) e altri ingenui scimmiottamenti degli inventori oltreoceano del genere. D’altronde, come biasimare l’esterofilia dei trappisti italiani: Little Tony faceva lo stesso con Elvis, la PFM con i King Crimson, i primi Diaframma con i Joy Division, i Casino Royale con i Massive Attack.
La proposta di Speranza è invece quella di un giovane uomo reso adulto – ha superato abbondantemente la trentina – dai bastoni che la vita mette tra le ruote mentre pedaliamo già con l’affanno (“Io non punto in alto, miro alle ginocchia”, A la muerte). Nato a Caserta e cresciuto in un villaggio edificato per immigrati assoldati come minatori al confine tra Francia e Germania, Speranza impara a scrivere a 12 anni mosso da una sensibilità non comune, nutrita in un ambiente composto da coetanei di diverse origini e tenuta a digiuno dalle ristrettezze della quotidianità. Con qualche demo rientra in Italia nella sua città natale e, grazie al passaparola, attira l’attenzione del pubblico e degli addetti ai lavori che iniziano a indicarlo come una delle realtà più interessanti della scena nazionale. Nel frattempo per mantenersi fa il muratore, professione di cui canta la fatica e il look (“Sul cantiere vesto solo Mapei, ehi/A sera ‘ncopp”o palco, po’ ‘a matina sott”o masto”, Casertexas).

Colpiscono la sua grinta, la sua abilità nel mescolare dialetto della sua terra, italiano e francese, e soprattutto i contenuti dei suoi pezzi, amare constatazioni della vita nella provincia meridionale, del doversi arrangiare con espedienti al limite della legalità e dei guai con la giustizia che ne conseguono (“I soldi ti fottono, je me fotto ‘e sorde”, Fendt Caravan), della difficoltà di mantenere la dignità in una società che non ammette scatti di anzianità, una gara in cui quelli come Speranza sono destinati a inseguire vetture da miliardari, superveloci e acquistate grazie a soldi facili, trainando una roulotte Fendt che è allo stesso tempo una casa e uno status symbol al contrario per rom e sinti.

“L’ultimo a morire”, il cui gioco di parole con il nome d’arte di Ugo Scicolone è fin troppo scolastico, è una raffinata produzione Sugar con beat ricercati, intuizioni da fuoriclasse e ospiti del calibro di Tedua, chiamati ad accompagnare Speranza tra i grandi della musica italiana pur rimanendo leale a se stesso (“Mi parlano di trap, ma sto ’int’a n’atu pianeta/Sto cu Pietro l’albanese, viaggio a 230”, Omm i merd). I testi sono ricchi di citazioni e calembour nelle diverse lingue che Speranza è in grado di sfoggiare, ma è quello che dice che colpisce l’ascoltatore. Finalmente c’è qualcuno che nella trap racconta qualcosa di interessante, fuori dal suo metro quadro di cameretta al netto di pc e console (“Piglia chesta base, lievece ddoje barre/Due barre di silenzio per le vittime di Gaza”, Casertexas).

I rapporti con le donne, quando la vita va così, passano in secondo piano (“Pisciare è meglio che chiavare”, Fendt Caravan, e “Mondo in crisi di abbandono, l’ha detto il telegiornale/Mentre cerchi il punto G, sto cercando il punto SNAI”, Takeo Ischi), ma a giudicare dalle tracce “Iris” e “Puttana***” c’è qualche cicatrice che fa ancora male. Ed è un peccato che i primi successi con cui l’artista casertano si è imposto al pubblico ritornino solo come citazioni nei nuovi pezzi. Ci sono echi di “Givova” in “100 anni” e di “Chiavate a mammeta” in “Calibro 9”, mentre “Spall a sott” rinasce nella sua quarta vita in un pezzo a sé e come intercalare in molti degli altri brani.

La musica di Speranza, come il genere a cui appartiene, non ammette compromessi: o si ama o si odia. Un manicheismo che si è inventato chi è cresciuto con il rock e che è tempo di superare, ora che anche gli artisti trap stanno diventando adulti e si confrontano con quello che il mondo offre loro e quello che il mondo gli ha negato. Non bisogna, quindi, approcciarne l’ascolto come gli altri generi a cui siamo abituati. Qui di musica ce n’è ben poca ma c’è tanta passione, come ci sono cuore pancia e cervello, e soprattutto lingua velocissima, fiato serrato, e occhi che non si abbassano nemmeno di fronte alla sfida più grande.

Speranza è davvero una speranza. Anzi, una certezza. Le parole sono importanti, se non fondamentali, e ne “L’ultimo a morire” di parole ce ne sono milioni. C’è solo l’imbarazzo della scelta.