equilibrista

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Stare in classe di questi tempi è un po’ come quando Giulio impila sul banco l’astuccio con sopra il righello con sopra la gomma con sopra la palette di acquerelli con sopra l’altro righello con sopra la bic multicolore e poi chiama Nicolò per mostrargli il prodigio tenendo le due mani ai lati come se i palmi emanassero una sorta di onda magnetica che impedisce alla torre di materiale scolastico di crollare, prima sul banco e poi a terra e poi sulla mia pazienza.

Ieri mi sono avvicinato alla sua postazione che dista un metro e venti precisi da quelle dei compagni – le aule ai tempi del covid sembrano una rappresentazione vivente di campo minato.exe, poi diventato per fin troppo ovvi motivi politically correct prato fiorito.exe – e con una delle mie Camper numero 47 ho fatto finta di inciampare nel banco, mettendo fine alle sue velleità ingegneristiche.

Una scena che rende perfettamente il clima durante le lezioni: io confinato dietro il rettangolo marcato dal nastro adesivo giallonero che tento, con un illusorio superpotere che si propaga dalle mie mani posizionate secondo la gestualità di un rito propiziatorio – di mantenere diciotto bambini perfettamente posizionati a distanza di sicurezza con la mascherina tenuta fin sopra al naso, senza soluzione di continuità. Ci vorrebbero le bacchette del calcio balilla a cui assicurare – metaforicamente, s’intende – gli alunni ordinati in file, in modo che quando qualcuno dondola sulla sedia e mette a rischio il metro e venti automaticamente anche gli altri fanno lo stesso, così da far portare agli insegnanti a casa la giornata.

Se si rispettano le regole, dice la normativa, non abbiamo nulla da temere. Ma si tratta di un equilibrio complicatissimo, come potete immaginare, e non voglio esagerare tirando in ballo il filo del rasoio.

Sono così ossessionato da gente che si avvicina ad altra gente senza niente sulla faccia che quando guardo un film pre-lockdown alla tv mi chiedo come sia possibile che uomini e donne si diano un bacio, oppure nei pub seduti al bancone gli amici si parlino nelle orecchie per la musica alta, o anche che qualche attore di buon cuore stringa uno sconosciuto in un abbraccio. Film e serie in cui non si vede una mascherina chirurgica se non in sala operatoria o serrati nel cassone di un’ambulanza, con il medico in prima linea che rianima bocca a bocca l’incidentato di turno.

Così cambio canale e cerco un tg, un talk o uno dei millemila programmi giornalistici in cui uomini politici ed esperti di sanità pubblica – rintanati nelle rispettive abitazioni – si rimbalzano onori e responsabilità fino a quando l’anchor man/woman lancia il servizio o l’approfondimento e, finalmente, tutto torna alla normalità con le immagini di repertorio di gente che fa le cose che facciamo tutti – cammina, corre, va a scuola, sta in ufficio, va al supermercato – con la mascherina a ridurre tutte le espressioni del viso a una sola, sempre la stessa.

l’indice

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La collega di religione che trascorre due ore alla settimana in ognuna delle classi è positiva. Non è per niente una bella notizia ma ci ha convinti a fare ancora più attenzione di prima. Io ho il gel igienizzante sulla cattedra e, all’ennesima spalmata sulle mani, mi domando come sia possibile che non sia ancora nata una teoria complottista che metta al centro l’equivalente di qualche big pharma della sanificazione. Ho acquistato una confezione di ffp2 ma basta un richiesta di spiegazione in più o Simone che gioca con la trottola sul banco mentre parlo che vado in iperventilazione. Così quando i soliti alzano la mano per dirmi “maestro mi son perso” esco a prendere una boccata d’aria, premo il pulsante rewind, riposiziono la mascherina e ripeto da capo.

Comunque, tornando all’insegnante fresca di tampone che ha contatti – non necessariamente stretti – con tutti i docenti e i bambini in tutte le aule ogni sette giorni, è una vera notizia bomba ma nel senso di bomba batteriologica, un imprevisto che avrebbe messo ko qualunque organizzazione normale.

Non la scuola italiana. Da noi i docenti che accusano sintomi riconducibili al Covid e sono in attesa di tampone non sono tenuti a informare i colleghi. Stanno a casa ma non hanno l’obbligo di avvisare che nella classe in cui qualcuno dovrà svolgere una supplenza al posto loro ha soggiornato una persona che al momento ha la febbre/il mal di gola/la tosse e far sì che chi coprirà la sua assenza sia consapevole di trovarsi al cospetto di bambini che, a loro volta, sono stati esposti a un potenziale contagio. Ho chiesto alla dirigente e mi ha risposto che è tutto regolare. Non siamo tenuti a mettere in allerta in colleghi perché ne va della nostra privacy.

Non vedo che cosa ci sia da vergognarsi nel dire alle persone con cui siamo stati in contatto che un tampone eseguito sul nostro organismo ha dato esito positivo, oppure che ci troviamo in quota contagio e, di conseguenza, è meglio che chi ci è stato vicino prenda provvedimenti. Quando lavoravo in agenzia mia figlia mi attaccò la varicella. Era aprile, mi stavo godendo la pausa pranzo in un parchetto sotto l’ufficio quando la collega con cui dividevo il panino notò un vistoso brufolo su uno dei miei due zigomi. Ricordo che me l’ero grattato via e poi, rientrato alla mia postazione, provai una sensazione di disagio. Così, dopo aver sollevato la maglietta in bagno, il mio torace si palesò infestato da milioni di inquietanti pustole rosse. Corsi subito a casa, dove passai due giorni con la febbre altissima. Il mio capo inviò immediatamente una mail a tutti i dipendenti per metterli al corrente che un loro collega, con tanto di nome e cognome, era affetto da una malattia esantematica e infettiva. Nessuno mi chiese nulla, tantomeno una liberatoria per divulgare il mio stato di salute. Anzi, il fatto è che a me sembrò una cosa normalissima.

A scuola, invece, i docenti positivi al Covid 19 sono il segreto di Pulcinella. Insegnanti che, da un giorno all’altro, spariscono nel nulla e le cui classi improvvisamente subiscono lo stesso destino, finendo in quarantena. Ma non so se mi lasci più perplesso il fatto che fare corretta informazione nell’ambiente di lavoro della scuola non sia previsto dalla procedura standard o che i colleghi non sentano la necessità di dirlo a tutti, come forma di rispetto. Ma forse sono io che sbaglio.

arriva il budino

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Non è vero che tutti i bambini sono belli, non è vero che tutti i bambini sono simpatici. Se sono brutti chi se ne importa, io non ero e non sono granché ma non posso lamentarmi e alla fine me la sono cavata. Il problema subentra semmai con bambini poco simpatici perché noi adulti possiamo anche chiudere un occhio e passarci sopra, ma l’ambiente dei coetanei può dimostrarsi intransigente. Spesso i bambini poco simpatici hanno nomi inutilmente altisonanti attribuiti da genitori altrettanto infrequentabili ma, da piccoli, in un mondo di Ethan e Nathan e Maya se ti chiami Ludovica nessuno ci fa caso e sembri un personaggio di Guerre Stellari come tutti gli altri. Ma, anche quando sono piccini piccini, è il comportamento antipatico che spinge i pari a praticare isolamento nei loro confronti. Magari cercano di evitarli non per cattiveria, credo cioè che a sette o otto anni quel modo di fare quadrato contro i bambini non simpatici sia tutto sommato una involontaria forma di autodifesa. Il ruolo dell’educatore è di mediazione: da una parte si cerca di convincere il gruppo dei pari ad accettare anche il bambino poco simpatico, dall’altra si deve educare il bambino poco simpatico a far di tutto per essere più simpatico. Due sforzi spesso vani perché l’attività del gruppo, appena vira verso la destrutturazione in assenza dell’adulto, torna immediatamente alla sua conformazione precedente all’innesto forzato del bambino poco simpatico, mentre il bambino poco simpatico difficilmente farà suoi i comportamenti da tenere per risultare più sopportabile. Gli atteggiamenti che rendono i pari refrattari alla personalità poco simpatica sono diversi. Per esempio, se in classe alzi la mano ogni secondo per dare la risposta, alla fine il rischio di attirare il dissapore altrui non è così remoto, questo indipendentemente se la risposta sia quella corretta o meno. La mia Ludovica, un nome di fantasia ma altrettanto fuori luogo nel nuovo millennio, nel giro di una manciata di mesi si è giocata tutta la sua popolarità con una pedanteria oltre ogni soglia. La vedo lì prima fila – per motivi di dimensione non potrei spostarla altrove – costantemente con il braccio teso verso l’alto, in una sorta di saluto celebrativo al regime del protagonismo infantile che a casa le viene avallato dal resto della famiglia ma che, a scuola, deve fare i conti con i tempi e con le dinamiche equamente divise tra il resto dei compagni. Nella corsa per accaparrarsi i posti in mensa ultimamente resta spesso con il cerino in mano e, a fronte di riorganizzazioni manuali per far sì che non resti sola in uno di quei tavoloni sguarniti di bambini che si vedono ai tempi del social distancing, manifesta la delusione con copiosi piagnistei. Oggi quasi non riusciva a deglutire nessun boccone per la disperazione, fino a quando non le ho portato il budino. A quel punto lo sguardo si è rasserenato come il cielo dopo un temporale estivo. Le nubi si sono dileguate dal suo presente e il sole ha fatto capolino negli occhi puntati sul mistero del cioccolato, che chissà perché mette fine a ogni dissidio con il sé e con il resto del mondo e davvero, stupisce che nessuno abbia mai pensato di eleggerlo a sostanza cardine per la sopravvivenza del genere umano, a vaccino per qualunque malessere, a brodo primordiale da cui è nata la vita di ogni essere vivente e in cui siamo pronti ad annullarci per tornare alla nostra vera origine.

non restare chiuso qui

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Qualche giorno fa ci ha lasciati Stefano D’Orazio, batterista dei Pooh. Che cosa c’entrano i Pooh con il rock o, addirittura, con il post-punk, chiederete voi. C’è anche la possibilità che la cosa non interessi affatto a nessuno ma ve lo dico lo stesso. La risposta è: non c’entrano nulla. Anzi. I Pooh sono agli antipodi del rock e, rispetto al post-punk, su un pianeta di un sistema solare che ha elementi base per la vita di natura opposta. Non fidatevi quindi di chi cerca di piazzare qualche successo delle loro origini in qualche compilation progressive e, nel caso, denunciate ogni provocatore alle autorità competenti. E a chi vi linka “Risveglio” su Youtube per dimostrare che potrebbe essere una delle innumerevoli parti strumentali di “Shine on you Crazy Diamonds” contenute nella facciata B di “Wish you were here” rispondetegli che, negli anni 70, cani e porci facevano lenti strumentali. E allora il Guardiano del Faro? E allora il PD? Con questo non voglio sminuire la portata di un lutto, ci mancherebbe, per giunta per colpa di questa maledetta peste che ci sta consumando vivi, e nutro il massimo rispetto per tutto l’entourage della band italiana che ha venduto più dischi di tutti i tempi, un record che risulta ancora insuperato. La storia dei Pooh potrebbe essere quella degli U2, e cioè quattro ragazzi e dignitosissimi musicisti pop che hanno deciso di stare per sempre insieme senza mollarsi mai più. Pochi però ricordano che Stefano D’Orazio, nel 2009, aveva abbandonato la formazione consolidata, per poi farvi ritorno nel 2015 in una storica iniziativa di reunion che ha coinvolto addirittura l’ex per eccellenza, Riccardo Fogli. Dei Pooh ho persino una copia in vinile di “Opera prima”, un disco che su Wikipedia rientra addirittura nella categorizzazione “rock sinfonico” ma penso sia dovuto solo alla presenza di parti orchestrate. E dei Pooh ho anche una bellissima maglietta sbagliata, che indosso soprattutto quando vado a far la spesa in estate perché ho notato che non passa inosservata all’utenza dei supermarket e alle addette alla cassa. I Pooh come gli Smiths? Chissà.

autocertificazione

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Ho fatto un giro su uno di quei banchi a rotelle di cui si sente parlare dalla primavera scorsa. Non sono niente male. Quelli alti come me devono stare attenti alla seduta perché, se ti spingi a fondo infossando i fianchi nell’incrocio con lo schienale, il materiale che è elastico ti fa l’effetto di una sedia a dondolo, ma probabilmente sono stati pensati per bambini e ragazzi che pesano meno di me. Il tavolinetto è ridotto ma un quaderno, un libro o anche un portatile ci stanno comodamente – non tutti insieme, eh. Sotto la sedia c’è un ripiano mobile per poggiare quello che non ti serve. Il bello è che, con i piedi, i banchi sembrano le auto dei Flintstones e tutte quelle battute che sono state fatte appena si è parlato del loro impiego in classe sono vere, a partire dagli autoscontri, dai trenini disco samba durante le lezioni di musica eccetera. Li abbiamo usati qualche giorno fa nel corso di un meeting di staff d’istituto. Ci siamo messi in cerchio nell’aula dove facevamo i collegi docenti in presenza – ma nello staff siamo una decina. Una collega ha ordinato qualche pizza d’asporto (era l’ora di pranzo) e abbiamo fatto il punto. Il punto è che è tutto un gran casino.

if you don’t eat your meat, you can’t have any pudding

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Noi esseri umani nel migliore dei casi non sappiamo proprio renderci interessanti al prossimo, nel peggiore non lo siamo proprio. Una lacuna che ci portiamo anche nella nostra sfera professionale, compreso quando di lavoro facciamo gli insegnanti. Quante possibilità di appassionare i nostri studenti a qualcosa ci sono, se siamo i primi a non essere appassionati del nostro mestiere e della materia che insegniamo. Oppure non riusciamo a trasferirla perché non è nelle nostre corde. Senza contare poi gli psicodrammi derivanti dal fatto che ci pagano poco, operiamo in contesti poco stimolanti su cui nessuno investe per migliorare, o magari siamo diventati docenti perché è stata una seconda scelta o perché era un posto fisso nel pubblico impiego. Lavorare nella scuola non è la stessa cosa di un impiego in banca o salire sui ponteggi o controllare impianti automatici in fabbrica. Così si trovano esseri umani frustrati che esercitano un potere, burocrati consumati che trasferiscono competenze ai propri allievi, e anche gente fuori di testa. Il professore meno adatto di tutti, quello di “The Wall” che potrebbe interpretare il ruolo di ufficiale in “Full Metal Jacket” me lo ricordo benissimo. Spaventare i ragazzi, allontanarli, annoiarli, ammorbarli, e non c’è differenza tra didattica in presenza e a distanza.

aspe

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In un presente distopico, l’ufficio stampa della multinazionale americana hi-tech AFI, acronimo che sta per Appetite For Integration, ha diffuso l’annuncio che il 31 dicembre prossimo venturo ritirerà dal mercato WaitaminSM, la app che tramite una sofisticata tecnologia di tracciamento emotivo-satellitare rileva quando e dove manifestiamo un’esitazione e inserisce su una specie di Google Maps spazio-temporale uno di quei simbolini fatti a uovo rovesciato che indicano sulle piantine virtuali il punto di partenza e il punto di arrivo. Tutto sommato un ottimo sistema che impedisce alla gente di fare cazzate o, dal punto di vista opposto, di perdere delle occasioni irripetibili. Fred è un utente della versione free di Waitamin. La premium costicchia – sicuramente più di Netflix e più di Spotify – però permette all’utente di visualizzare gli scenari che l’esitazione ha evitato. Si è comunque reso conto delle potenzialità della tecnologia una mattina di novembre quando, correndo al parco tutto solo alle sei del mattino, ci ha pensato due volte prima di imboccare un sentiero piuttosto che un altro in cui, nascosta dietro a un acero, sostava una pattuglia di guardie intenta nelle ordinarie operazioni di controllo. Una pandemia globale ha infatti imposto severe ristrettezze di movimento e rigide norme di comportamento agli abitanti, tanto che l’attività motoria nei pressi della residenza è consentita solo a chi indossa le adeguate precauzioni. Pebbles, la figlia di Fred, frequenta (al momento a distanza) una scuola secondaria superiore ma tutta la famiglia è fortemente delusa dall’esperienza didattica. Fred, che di professione è un insegnante, pensa che tra i docenti la percentuale di persone interessanti sia inadeguata. Di conseguenza, difficilmente uno studente riesce ad appassionarsi alle materie di studio. A Fred capita di ascoltare qualche stralcio di videolezione e soffre di frustrazione al cospetto di toni di voce, lessico, entusiasmo e arte oratoria poco adatti al mestiere del docente. Grazie a Waitamin Fred però conta fino a cento e supera l’impulso scrivere alla preside della scuola per lamentarsi della pochezza dei suoi colleghi, anche proprio per non sembrare uno che pensa di essere chissà chi. Nel frattempo Waitamin cessa di funzionare proprio il giorno in cui Pebbles prende un sei meno in una verifica su Catullo che, svolgendola, le era sembrato aver fatto molto bene. Fred va su tutte le furie e si precipita a scrivere una e-mail di insulti alla professoressa. Pebbles scopre le intenzioni del padre e, con un tempismo che si vede solo nei film, contatta Bambam, un giovane sviluppatore indiano della AFI, pregandolo di riattivare la app prima che succeda il finimondo. Waitamin miracolosamente si riaccende e grazie a una tempestiva notifica Fred prova l’esitazione più importante della sua vita e cestina l’email, salvandosi da una figura di merda e dall’odio e dalla perdita di autorevolezza nei confronti della figlia. Pebbles e Bambam però da quel momento si innamorano e vivranno tutti felici e contenti, ma solo al termine del liceo che continuerà a rivelarsi un’esperienza di merda sino alla quinta.

la casa vuota

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Lorenzo è affetto da ipoacusia e, se ci aggiungete che in casa parla solo cinese, i momenti di confronto in classe si riducono all’osso. Se non fosse che è mostruosamente intelligente ci sarebbe da mettersi le mani nei capelli. Con i numeri e la matematica è fortissimo perché non ci sono lingue da decodificare, assimilare e riprodurre. Un numero è un numero e basta, una quantità che ha un simbolo. Anzi, un simbolo che è una quantità, senza significanti e significati e tutti gli orpelli della comunicazione verbale che sì, sono importanti ma per un bambino di sette anni hanno solo il sapore di uno sciroppo disgustoso. Mentre il calcolo e tutto ciò che gravita intorno è una confort zone da cui Lorenzo – al momento – non sente nessuna esigenza di uscire, in tutti i sensi. Quando rientriamo dalla mensa afferra il suo quaderno dei disegni dallo zaino su cui si staglia inconfondibile il suo nome e inizia a ergere altissime torri con matita e righello che riempie presto di numeri, lasciando il più alto sempre a svettare sul tetto come una di quelle insegne che danno il nome ai grattacieli. E non appena richiamo la classe per avvisarli di prepararsi per la sortita in giardino per l’intervallo lungo si arrabbia tantissimo perché non gli importa di entrare in relazione con nessuno che non sia la matematica. Vorrebbe solo rimanere lì, al suo banco, nel suo mondo dove non ci sono parole da scambiare e da comprendere. E non trapela un briciolo di frustrazione, almeno al momento.

Così, mentre il resto della classe corre all’impazzata, perlustra il sottosuolo alla ricerca di vermi o sperimenta nuove forme di relazione destrutturata, Lorenzo non mi molla un attimo. Il suo passatempo preferito è mettersi dietro di me e giocare a sparire dal mio campo visivo, un espediente che mi riporta alla mente quel bellissimo film di Kim Ki-duk. Solo che a scuola non siamo al cinema e Lorenzo non è Tae-suk, anche se – proprio come il protagonista di “Ferro 3 – la casa vuota” – a stento proferisce una parola. Il fatto è che è difficile che un bambino sia in grado di esercitare con così grande perizia la tecnica di illusionismo che ti fa sembrare invisibile sfruttando i punti morti di quello che percepiamo con gli occhi. E poi non solo lo vedo nell’ombra che si mette alle mie spalle, ma è lui il primo a farmi notare la sua presenza muovendo il cappuccio del mio piumino 100 grammi. Quello è il segnale: Lorenzo vuole giocare con me. Io cammino e lui mi segue. Mi sposto di lato e lui fa lo stesso. Accelero il passo e cerca di starmi dietro. Poi all’improvviso salto e ruoto di 180 gradi e a quel punto Lorenzo urla dallo spavento – ma immagino che faccia finta di spaventarsi – e sono io a inseguire lui.

Il problema è che fa così per tutta l’ora che trascorriamo fuori. Dopo un po’ cerco di distrarlo, gli chiedo di aiutare Simone che ha perso il portachiavi con lo stormtrooper, gli dico di unirsi ai bambini che stanno pasticciando il muretto con le pietre colorate raccolte in terra, provo ad accendergli la curiosità sulle bacche che stanno raccogliendo gli altri. Lorenzo valuta se la cosa può interessargli, ma tempo un minuto me lo ritrovo ancora alle spalle con le sue espressioni a mandorla da personaggio dei cartoon orientali. Comunque preferisco di gran lunga questa relazione motoria rispetto alle interazioni che abbiamo in classe, quando alza la mano per dirmi cose che hanno a che fare con in numeri. La data del suo compleanno, il risultato della moltiplicazione di due numeri con le cifre che si somigliano, quanti giorni mancano alla fine dell’anno. Ogni volta che c’è un numero collegato con un aspetto della sua vita non resiste all’impulso di condividerlo con me. D’altronde sono il suo insegnante di matematica e qualcuno deve avergli detto di trovare un punto di riferimento in quel guazzabuglio di marmocchi. Spero di non deluderlo.

everybody hurts sometimes

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C’è una celebre canzone dei Cure che mette nero su bianco che le lacrime sono un’esclusiva femminile, secondo le convenzioni su cui si basa la nostra società. É chiaro che si tratta di una finzione poetica provocatoria per far passare il messaggio contrario. Se vivete a contatto con i bambini, anche se ai tempi del Covid al massimo gli puoi stare a non meno di un metro e venti di distanza, avrete a che fare con i pianti tutti i giorni e, per di più, indistinti. Però quando i maschi iniziano a sembrare grandicelli, diciamo verso la quarta o la quinta, le volte in cui si lasciano andare alle lacrime fa strano. Nel caso delle bambine, invece, ci facciamo meno caso ed è un’ingiustizia perché, invece, si tratta di una sensibilità che è sbagliatissimo non coltivare e, comunque, ogni sofferenza – anche la più futile – dovrebbe far suonare un campanello di allarme in un adulto. In questo periodo di colleghi in quarantena salto da una classe a un’altra ed è sorprendente osservare il modo in cui la tipologia di pianti delle bambine vari, dalle più piccole alle più grandi. In seconda, per dire, manca ancora la mamma e le lacrime sono affluenti di altri corsi di liquidi che colano dal naso e vanno a sfociare in un estuario sul mento. Poi ci sono le amarezze dovute alla compagna che non condivide il gioco, alla pellicina che arrossa il dito, a qualche maschiaccio che supera mentre siamo tutti in fila indiana nell’attesa del nostro turno in bagno.

Nelle classi alte la faccenda diventa più complessa. Questo pomeriggio Marta ha aperto le cateratte all’improvviso, dopo un veloce botta e risposta con la compagna che mi è sfuggito. Marta ha dieci anni ma sembra già una studentessa della secondaria e il suo pianto mi è sembrato subito differente da quelli a cui mi hanno abituato le mie alunne. Le lacrime colavano lateralmente, dagli angoli degli occhi sugli zigomi e verso l’esterno del volto, e sono state accompagnate da un’espressione di sofferenza inequivocabile, una di quelle che ti fanno salire un gradino più su nella vita. L’insegnante di sostegno ha lasciato il suo asperger ad alto funzionamento a sé – ormai è del tutto indipendente e pronto ad abbandonare il nido della primaria – ed è corsa ad accompagnarla in bagno. Giuro che mi spiace banalizzare così, ma sembrava davvero una cosa da donne, una situazione che un mio intervento non sarebbe mai stato in grado di salvare. Marta e la collega sono rimaste fuori una manciata di minuti. Poi è rientrata camminando tra i banchi gremiti a testa alta, con una dignità esemplare, gli occhi rossi, e ha ripreso con sicurezza il suo posto. É stata questione di un attimo: Marta è uscita dalla classe ancora bambina ed è rientrata già adolescente.

sul filo

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Quando sono in supplenza in una classe di “grandi” non m’importa se l’insegnante che sostituisco ha lasciato qualche attività per chi si prende cura dei bambini in sua assenza. Ho un po’ di lezioni pronte sulla musica e sul digitale, veri e propri mini-Ted Talks per bambini di 9 o 10 anni da affrontare – da parte mia – con un disimpegno impensabile per la mia seconda e, per i bambini (che poi mi diverto a chiamarli ragazze e ragazzi), una boccata d’aria rispetto alla tabella di marcia che la scuola ai tempi del Covid impone. Come i relatori delle conferenze a cui partecipavo quando mi occupavo di comunicazione, arrivo con la mia preso – così si chiamano in gergo i supporti in PowerPoint -, collego il mio hard-disk al notebook della classe, controllo che LIM e casse funzionino al meglio, e poi inizio a far parlare il pubblico (composto da studenti temporanei) sull’argomento che ho scelto.

Stamattina cercavo di capire, in una quarta, come fosse possibile che ci fossero ascoltatori dei Queen e, addirittura, dei Kiss tra gente di quell’età, quando una bambina fino troppo sveglia è rimasta tanto meravigliata dal mio passato di musicista da dirmi che suo papà era una cantante ma poi è morto. I compagni non hanno fatto un plissé, probabilmente hanno già elaborato il lutto di classe. Io mi sono sentito come se qualcuno mi avesse tirato una mazza chiodata sulla faccia. Sabato scorso, su richiesta di mia mamma, sono andato a dare l’ultimo saluto a mia zia – sua sorella -, che ha posto fine all’ultimo mese di sofferenze dopo aver però vissuto 98 anni in uno stato di salute esemplare. Zia Ida, si chiamava così, porta a cinque il numero di parenti stretti visti non da vivi. L’estremo saluto non mi ha lasciato indifferente, considerando poi che era il giorno dei morti. La notizia della bambina orfana di padre che ha saputo liquidare in una battuta il dramma che deve aver sofferto non è stata l’umica stranezza che ha destabilizzato la mia lezione. In classe c’era anche una bambina di origini sudamericane la cui madre è la sorella maggiore di un altro compagno di classe, che quindi è lo zio della ragazzina e che si è dimostrato un patatone malgrado sembri un membro di una gang, quelli che girano con il machete con cui affettano i controllori dei tram.

C’era poi un occhialuto presuntuoso in prima fila che continuava a intervenire in un eccesso tale di entusiasmo che nessun relatore di un TED, quelli veri, avrebbe resistito più di qualche minuto prima di chiamare la sicurezza. Ma alla fine ho portato a casa la giornata. Abbiamo parlato di ascolti, di colonne sonore, di X Factor, di Miles Davis e persino della differenza tra uno xilofono e un vibrafono. Peccato per le mascherine, per non potersi dare il cinque e tutte quelle cose che avvicinano i docenti agli alunni che non si possono fare più. Ma, pur tra le mille difficoltà della nuova normalità, la scuola resta il più bel lavoro del mondo.