giovani fuoriclasse

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Quei genitori che hanno progettato un figlio unico intorno ai primi anni del nuovo secolo, tale per cui ne avrebbe avuti circa sedici proprio nel bel mezzo di una pandemia globale che costringe tutti a stare barricati in casa, hanno sbagliato di grosso. I sedici anni sono quel momento della vita in cui matura la fase del distacco dalla famiglia, per le ultime generazioni intellettuale più che fisico e in potenza più che in atto. Anche se il modello di adolescenza che i boomer – ora genitori – hanno provato sulla loro pelle è ben diverso da quello dei millennials, perché compiutosi in un momento in cui il gap con gli adulti era insanabile, oggi l’adolescentizzazione dei grandi ci fa presumere che i ragazzi abbiano meno voglia di allontanarsi da gente che ha i capelli bianchi ma che, come loro, fa uso estremo dei social, ascolta trap e guarda serie tv con i coetanei dei loro figli protagonisti. Genitori che si considerano, cioè, con tutte le carte in regola per essere i migliori amici del loro marmocchi.

L’isolamento da Covid-19 ha costretto a una convivenza forzata – tra gli altri –  due ceppi che la natura vorrebbe separati. Esseri viventi che in condizioni normali passerebbero il tempo a fare le cose stupide ma fondamentali che si fanno a sedici anni da un parte – una parte sicuramente esterna agli ambienti domestici – ed esseri parzialmente viventi dall’altra, che la tradizione esige al chiuso a sonnecchiare sul divano davanti a Domenica In, a mettere canzoni di una volta sul giradischi, consultare ricette nei libri di cucina e coccolare gatti come surrogato della prole in fase di distacco.

L’emergenza sanitaria ha trasformato milioni di camerette di adolescenti alle prese con un nuovo modello di ménage familiare: da stazione di rifornimento di sogni e rampa di lancio per esperienze estreme di ogni tipo a esoscheletro di (in)sicurezza in cui studiare, andare a scuola, sostenere verifiche e interrogazioni, incontrare gli amici, vedere film, fare attività fisica sul tappetino, sudare, prendersi cura di sé, scopare (in autonomia), il tutto con l’insostituibile ausilio dello smartphone. Nel migliore dei casi, almeno così pensano i grandi, ci sono i genitori in smart working nelle altre stanze, che con le loro videoconferenze e i lavori domestici a ogni ora riducono, attraverso il rumore, il senso di solitudine e abbandono. Nel peggiore, i genitori si espongono ai rischi del contagio e portano i suddetti rischi in casa continuando lavori essenziali per il mantenimento del livello minimo dei servizi pubblici necessari. Anzi no. Il peggiore è quando papà e mamma sono a casa perché il lavoro l’hanno perso e, davvero, quando il mondo sarà vaccinato e tutto riprenderà da capo non sapranno dove sbattere la testa e, al momento, gravano con il loro senso di inadeguatezza sulle vibrazioni già ben poco positive che si respirano in casa.

Che cosa rimane, agli adolescenti, se gli togli gli amici, il sesso, la scuola, lo sport, le canne e tutte quelle cose che fanno di nascosto dai genitori? Per il nostro benessere di genitori, di importanza secondaria rispetto al benessere dei nostri figli, meglio non fare i confronti tra i nostri sedici anni e i loro. Si siedono a tavola e comunque hanno esperienze da raccontare – perché non dimentichiamo che gli adolescenti, con i genitori adolescentizzati, parlano – che sono sono esperienze di una manciata di metri quadrati. Il nostro compito è quello di farli sentire come se qualunque cosa fosse la cosa migliore che gli sarebbe potuta accadere, nascondendo l’amarezza di averli generati in un momento così.

Matt Berninger – Serpentine Prison

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Matt Berninger è la voce dei The National, e i The National sono il corpo di Matt Berninger. Ecco perché “Serpentine Prison” è un disco a metà. Un album che, nella versione completa, sarebbe stato un nuovo bel disco di una band compatta che auspichiamo non si disgreghi mai.

Dovremmo boicottare i cantanti dei nostri gruppi preferiti che fanno i dischi da soli. O, meglio, se fanno dischi da solisti che avrebbero potuto fare, senza difficoltà, insieme al nostro gruppo preferito.

E dei cantanti dei nostri gruppi preferiti non dovremmo comprare i dischi da solisti perché contribuiremmo ad alimentare i loro sogni secessionisti, la visione egoriferita della one-man band e la consapevolezza del fatto che i cantanti dei nostri gruppi preferiti hanno avuto l’opportunità di fare un disco da solista solo grazie al nostro gruppo preferito che li ha condotti lì dove sono. A pubblicare un disco solista che, di riffa o di raffa, potrebbe costituire il primo di una nuova carriera senza il resto della band.

Una legge naturale che giustifica il motivo per cui ho procrastinato fino al tempo limite la recensione di “Serpentine Prison” di Matt Berninger, primo album solista dell’inconfondibile voce dei The National nonché cantante di uno dei miei gruppi preferiti.

Ho tirato alle lunghe per non ammettere che è un disco che ho prenotato su Amazon diversi mesi prima dell’uscita. Che ho anelato evitando gli spoiler dei singoli usciti nell’attesa, per godermelo nel suo insieme. Che ho decantato con parenti, amici e conoscenti e, sui social, persino con gente mai vista, senza averne ascoltato una sola nota. “A ottobre esce il disco solista di Matt Berninger”, scrivevo e dicevo a tutti cercando di dissimulare il fatto di non aver ancora capito se la cosa mi facesse sentire felice oppure no.

Poi il disco mi è stato recapitato da un corriere con la mascherina, come tutti i corrieri di questi tempi. Ho gettato il cartone dell’imballo e ho lavato accuratamente le mani prima di mettere il lato A sul piatto del giradischi. Ho lasciato che la puntina atterrasse sul vinile immacolato, ho contato fino a tre e poi la musica è iniziata e c’eravamo solo io e Matt Berninger. Matt Berninger e me. E nient’altro.

“My Eyes Are T-Shirt” passa in fretta, è uno di quei brani-ponte un po’ acustici che nei dischi dei The National portano da una canzone perfetta a quella dopo, altrettanto eccellente. Probabilmente “Serpentine Prison” – penso io – è stato previsto con un’introduzione di riscaldamento, una formula di warm-up per entrare nel vivo del disco.

Che strano, però. Anche “Distant Axis” è un po’ così. Una canzone dei The National un po’ più The National di quella di prima, di quelle in cui, dal vivo, i gemelli Dessner suonano con la chitarra in aria. Ma anche “One More Second” è una ballad dei The National in versione unplugged, come quelle che chiudono i live come “Vanderlyle Crybaby Geeks”, da suonare a tu per tu con il pubblico e a microfoni spenti. E comunque la cosa si ripete persino con “Loved So Little” e “Silver Springs”. A questo punto capisco tutto e mi precipito a trovare anche l’archetipo di quello che seguirà. “Oh Dearie”, “Take Me Out of Town” – che ha persino una di quelle sezioni fiati dei The National che mi piacciono tanto -, la suadente “Collar Of Your Shirt” e la più nationalista di questo disco, “All For Nothing”, fino all’ultima traccia, quella che dà addirittura il titolo al concept. A quel punto il disco finisce e mi trovo a trarre delle conclusioni.

Così mi faccio coraggio. Dove sono tutte le idee innovative che hanno spinto Matt Berninger ad avviare un progetto autonomo? Qual è il punto di non ritorno, quello che induce chi in musica vuole mettersi in proprio a fare cose per sfogare la componente artistica precedentemente repressa dal resto della band? Qual è la narrazione, quali sono i suoni e le atmosfere libere che gli altri dei The National avrebbero ridotto a una visione da branco, durante quel rito in cui, spinti da fame compositiva condivisa, i membri di un complesso stanano la preda creativa per sbranare l’ispirazione individuale?

Non ci sono scuse. “Serpentine Prison” è il nuovo disco dei The National, solo che senza i The National suona un po’ sottotono e ripetitivo. Una specie di demo composta da Matt Berninger nella sua cameretta, una versione provvisoria da portare al resto della band per dare la forma che i pezzi dei The National meritano grazie all’estro dei gemelli Dessner e a una sezione ritmica unica, nell’universo dell’indie rock. Un disco la cui copertina è molto più bella di quello che contiene, con i mocassini senza calzini che si intonano alla giacca e la posa mentre Matt si gratta l’orecchio, un cliché dell’indie rock. E lo so. Parlo come un uomo tradito, un amante deluso, un innamorato geloso. Ed è per questo che dovremmo boicottare “Serpentine Prison” di Matt Berninger.

Dovremmo boicottarlo, ma sarebbe una stupidaggine. Vai, Matt, anche questa volta il tuo timbro baritonale, il tuo approccio al songwriting, il tuo stile indie-snob hanno colto nel segno. Il disco l’ho comprato e l’avrei comprato anche se avessi ascoltato i singoli usciti prima, come comprerò qualunque cosa deciderai di registrare con chiunque. D’ora in poi, e per sempre.

l’inno dei negazionisti

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Il titolo della canzone vincitrice del contest indetto dall’Ordine dei Negazionisti è stato annunciato dal presidente dell’associazione stessa, carica ovviamente non riconosciuta dagli iscritti che, peraltro, sostengono di non essere nemmeno a conoscenza dell’esistenza di un ente a loro preposto e, nel caso, sono certi che nessuno vi abbia aderito. Anzi, non ne sono nemmeno sicuri. A malapena riconoscono il padre fondatore del movimento, quel Signor No che faceva il bello e cattivo tempo nei programmi di quiz alla tv degli anni 70, per non parlare delle ricorrenti citazioni dei testi sacri a partire da “I no che aiutano a crescere”, del soliloquio nella prima scena del terzo atto dell’Amleto, di cui – manco a dirlo – si limitano a ricordare solo la seconda parte della frase e, tra il detto e il non detto, l’uso strumentale dell’unica parola che pronuncia Marcel Marceau ne “L’ultima follia di Mel Brooks”. Comunque decretare il brano più adatto a costituire l’inno degli opinionisti più cool del momento non è stato difficile, considerando che pochi titoli, come questo, trasmettono l’idea che no, no e poi no. Non c’è proprio storia.

il sesso degli insegnanti

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La collega di inglese della secondaria mi ha portato una boccia di Ferrari ma sono io quello che si deve scusare. Non mi lasciava parlare al telefono, e io pensavo ma che razza di help desk sono se non riesco nemmeno a mettere sul pause un’insegnante un po’ nevrotica che sciorina a raffica tutte le sue teorie bizzarre a spiegazione del problema che ha riscontrato sulla piattaforma che usiamo per la didattica a distanza. Nel sogno mi mostrava, in un curioso smartphone fisso dal design accattivante con tanto di cornetta e display a undici pollici, la schermata della chat in cui un ragazzino dall’inconfondibile cognome di origini ebraiche le dava della cogliona mentre lei spiegava la lezione del giorno. Il messaggio “Lei è una cogliona” non stonava nemmeno tra le domande e le risposte in inglese e, nel fermo immagine, il presunto autore risultava immortalato in una specie di balletto da musical anni ottanta. Nella sua cameretta di studente della secondaria di primo grado sfoggiava riccioli di media lunghezza e un cappello alla Michael Jackson.

Io, per contro, vedevo sul mio monitor un flusso di indirizzi IP che non mi davano la risposta che cercavo, e cioè se era davvero lui il presunto colpevole o se qualche compagno di classe burlone si era intromesso per seminare zizzania nella modalità sincrona imposta dall’emergenza sanitaria. La collega sosteneva che il suo alunno soffrisse di problemi di sicurezza informatica, e io – se mi avesse lasciato parlare – volevo rassicurarla che nessun hacker si impossesserebbe del pc di un ragazzino di dodici anni per scrivere un insulto così morigerato, per giunto dandole del lei. Semmai l’alunno avrebbe interrotto la lezione con un filmato porno con la sua insegnante protagonista, come succede di questi tempi e come se anche alle prof non piacesse divertirsi tanto quanto chi opera in altri settori meno complicati da giustificare durante un lockdown in cui, chi ha evaso le tasse, ora pretende persino aiuti statali in barba ai dipendenti pubblici a cui viene trattenuto tutto sin dal primo giorno di lavoro. Non sapete quante volte ho chiesto allo stato di pagarmi in nero ma non ci sono riuscito.

Comunque poi non ci ho più visto e le ho detto “lasciami parlare” e mia moglie, che ha assistito alla conversazione perché era in smartworking a pochi passi da me, sostiene che sono stato un po’ brusco. Ci siamo così dati appuntamento con tutto il corpo docente per fare festa nel locale in cui hanno girato una scena tagliata di “Footloose”, uno di quei bar della provincia americana con il jukebox. La collega di inglese ha fatto ingresso con la borsa del pc a tracolla mentre noi eravamo già alla seconda o terza birra. Qualcuno ha sostenuto di essere stato un suo amante. Qualcun altro ha messo proprio la titletrack di quel celebre film anni ottanta e tutti gli insegnanti hanno eseguito un balletto che avevamo studiato per l’occasione, durante il quale venivamo ripresi da vicino dalla telecamera e dovevamo battere con il palmo della mano destra la parte superiore del boccale che reggevamo con la mano sinistra, cercando di non bagnarci i vestiti con la schiuma.

firestarter

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Nel quinto e sesto episodio di Romulus si sono lasciati prendere troppo dal fantasy storico. Peccato. I Ruminales, la tribù messa peggio di tutte quelle viste sin’ora – quelli mascherati da carnevale nuragico che catturano e graziano dalla morte il protagonista insieme al suo sospettosamente fido Wiros, che nel doppiaggio pronunciano Virus con sommo sbigottimento del pubblico ai tempi del Covid-19 – negli outfit e nelle capigliature ricalca il modo di conciarsi dei ravers anni 90/primi duemila tendenti ai techno-punkabbestia. Un po’ Sigue Sigue Sputnik e un po’ Prodigy con influenze industrial alla Cmqmartina, per farvi capire. Si vedono creste e rasature a pelle laterali che chissà gli antichi come facevano a farsele con le lame forgiate dai sacerdoti di Marte, e piercing e anelli al naso da centro sociale bolognese ai tempi della drum’n’bass. Quindi davvero il mondo occidentale nei secoli è stato conquistato da gente che, se fosse contemporanea, fino a pochi anni fa avrebbe vissuto stravaccata nei centri storici con i dread sparsi nella monnezza a chiedere spicci ai turisti? Comunque tranquilli. Non voglio spoilerare, ma ad appiccare l’incendio alla foresta per stanare le zecche dell’antichità non sono i seguaci del dio Keithus Flintus, bensì quei piromani attaccabrighe dei soldati di Velia. Diversi, quindi, i temi che collegano l’Italia pre-romanica ai giorni nostri: le orge alla Suburra, i giovani alle prese con le droghe sintetiche, la criminalità organizzata che dà fuoco al territorio per fare i soldi con l’edilizia, abusiva e non. Veniamo proprio da lì.

routine

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“Oggi è martedì ma mi sembra mercoledì” è una delle tante cose che diciamo così per dire, o che diciamo quando non siamo del tutto registrati con il tempo che scorre. Ci sono anche sabati che hanno le sembianze della domenica e quando ci accertiamo di esserci sbagliati, in media una manciata di secondi dopo averlo pensato, ci sentiamo onnipotenti. Nei momenti in cui ci annoiamo si dice invece “che pizza”, che poi vorrei conoscere chi, per primo, ha associato la pizza al concetto di routine. Una volta era un’occasione che capitava una volta al mese, e quindi una vera e propria festa. Oggi mangiamo anche due pizze alla settimana, e malgrado l’incremento della frequenza è sempre comunque divertente. Il menu della mensa a scuola prevede la pizza il martedì. Ma non per questo il martedì sembra mercoledì. Tantomeno il sabato, quando miliardi di pizze lasciano i forni a legna per raggiungere le case e gli stomaci di miliardi di abitanti di questo pianeta. Il mio alunno cinese, che lascia sempre tutto intatto nei vassoi di plastica con l’espressione di chi è consapevole di aver sancito il primato della cucina orientale sul resto del mondo, quando c’è la pizza cambia espressione e si centellina la porzione boccone per boccone. A volte prima lecca il pomodoro con la mozzarella e poi addenta la pasta, lasciando la crosta per la fine senza risparmiare nemmeno una briciola. A Rebecca invece è scivolato un meteorite di salsa di pomodoro sul suo maglione bianco preferito ed è andata in crisi. Il maglione bianco preferito è ricoperto di peli morbidissimi e, per questo, lo chiama il numero uno. Ha stilato una classifica ma con quello bianco – dice lei – non c’è storia. In classe c’è qualcuno che ha preso a chiamarlo proprio come fa lei, il numero uno. “Oggi Rebecca ha il numero uno”, si sente mormorare in classe, quando Rebecca entra all’inizio delle lezioni. Così, in attesa della fine del nostro turno del pranzo, ho pensato a quando Rebecca sarà grande e ci sarà qualcuno che, stregato dalla sua bellezza, imparerà tutte le posizioni della classifica dei suoi maglioni. Dicono anche che un giorno Rebecca lo inviterà a cena in un appartamento condiviso con altri coinquilini un po’ precari come lei, accoglierà alla porta il suo spasimante con addosso il maglione numero uno ma, forte dell’esperienza capitata a scuola, si metterà a tavola con un tovagliolo per non rovinare tutto.

tre volte lacrime

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É un periodo che alla tele piangono tutti. Piangono i cantanti, i giudici, gli chef e gli aspiranti tali. Piange chi vince migliaia di euro indovinando fratelli di gente sconosciuta e, manco a dirlo, piange anche chi perde all’ultima domanda di un quiz. Una valle di lacrime che probabilmente è pensata per equilibrare il peso di chi piange perché non gli resta che piangere e che la tele non si lascia sfuggire per fare ascolti. Il risultato è che la portata emotiva delle lacrime altrui risulta depotenziata e, più che banalizzata, semplificata. L’intento potrebbe essere anche nobile, farci sentire cioè meno soli in un momento difficile e pensare che a farsi una liberatoria caragnata o un sommesso mugolio non ci sia nulla di male. Ma ci sono anche i più insensibili che hanno le ghiandole interrotte più delle papille gustative e non c’è niente che li commuova, di fronte ai programmi tv. Trascorrono ore con il telecomando in mano nell’attesa del momento migliore per passare ai canali on demand in cui, dietro agli attori che piangono, ci sono sceneggiature con i fiocchi e investimenti miliardari. C’è un meme che gira in questi giorni sui social in cui si vede non ricordo chi che, durante una pestilenza del passato, giunge a un’importante scoperta scientifica o qualcosa del genere mentre noi, più che a indici di ascolto di Netflix o Amazon Prime, non riusciamo a contribuire. Nel mio piccolo ho deciso di non guardare più i tg. Tanto Trump è stato sconfitto e, prima o poi, vinceremo anche il 2020 e questo dannato virus. I dati e numeri snocciolati ogni giorno fanno male al sistema nervoso e abbattono il morale. Vediamo se cambia qualcosa.

passo e chiudo

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Alba opera come mediatrice linguistica e alla comunicazione di bambini stranieri che, come se non bastasse per avere difficoltà di integrazione nella scuola italiana, hanno anche parzialmente perso l’udito. Sarà per questo che non capisco mai quello che mi dice e no, la mascherina non c’entra, anche se costituisce un ostacolo al dialogo senza precedenti. Mi parla a distanza di sicurezza sovrastata dal rumore di una classe intera di bambini che già sono encomiabili per l’abnegazione con cui rispettano le regole del distanziamento sociale ma, appena la situazione lo consente, tornano a essere i bambini di sempre, quelli che conoscono a malapena il concetto di autocontrollo. O almeno credo che mi parli, perché resta in piedi rivolta verso di me e vedo che sotto la mascherina qualcosa si muove. Io annuisco con la testa e basta perché, anche se avvicinassi l’orecchio alla sua bocca come accade in condizioni normali, farei fatica a decifrare i contenuti. Comunque, nel dubbio, me ne guardo bene dal superare il metro e venti che impone la normativa e faccio finta di capire. Ci sono sempre più colleghi che accusano i sintomi. Chi non percepisce più gli odori dal naso, chi si sente spossato, chi non si muove dal letto per la febbre alta. Tutto nella norma, per fortuna, perché ci sono casi ben peggiori. L’impressione è che, a differenza di prima, il radar di contagi intorno a noi rilevi sempre più persone positive, che ha un’accezione fin troppo negativa, e riduca sensibilmente i gradi di separazione. Eppure, nel timore di perdere tempo utile, tutto continua a rimanere inutilmente aperto.

il re seminudo

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Nei primi cinque minuti del primo episodio della prima puntata di “Romulus” un qualsiasi ragazzo degli anni ottanta frequentatore dei socialcosi corre il rischio di rimanere fidelizzato come in nessun’altra serie televisiva. Senza che nessuno abbia avvisato parte “Shout” dei Tears For Fears cantata da Elisa, che dopo l’incipit immersi nel protolatino e in quell’atmosfera pre-storica si lascia percepire come una banalizzazione pop e una reductio ad ignotas res qualunque. Anni ottanta per anni ottanta, le immagini della sigla allora piuttosto si prestavano molto meglio a “Wild Boys” dei Duran Duran. Si trovano diverse analogie con i personaggi inquietanti che fanno da sfondo al video apocalittico che accompagna il brano. Finita la sigla, non trascorrono cinque minuti che Romolo e Remo ricevono in omaggio un gattino, per la gioia della tribù di Facebook e non solo di quella di Albalonga, e dimostrano di non sapere di che animale si tratti. La serie ci lascia ad intendere che anche la conquista del mondo da parte dei felini domestici cominci proprio nel 753 a. c. e rotti, proprio come l’urbe condita. Sarà un segno da interpretare come il volo degli uccelli? Il punto è proprio quello. Ma davvero i protoromani erano così super superstiziosi? Io mi immagino le popolazioni dell’antichità come gente intenta a portare a casa, anzi, in capanna la pelle ogni sera, considerando che tra appartenenti al genere umano non si andava tanto per il sottile e a procacciarsi il cibo tra caccia e pastorizia i lupi non facevano tanti complimenti a consumare tutto ciò che di vivente si trovavano davanti come pasto. Davvero c’era il tempo per la spiritualità con tutto quel sistema con le vestali e il sacerdote di Marte e i penati e i lari sull’altarino in casa? Un altro aspetto difficilmente immaginabile per noi cittadini del nuovo millennio, anche se momentaneamente costretti a guardare serie storiche su Netflix senza soluzione di continuità causa lockdown, è il modo che avevano questi selvaggi di trascorrere i tempi morti, fermo restando che le aspettative di vita fossero risibili rispetto alle nostre e che, al netto della sopravvivenza, non è che ci fossero poi tutti questi momenti per coltivare hobby e sogni nel cassetto. Nella serie prodotta da Sky si vedono gli abitanti di Albalonga deambulare nello spazio comune tra le varie capanne in un improbabile struscio pre-latino. Come facevano gli antichi senza Internet, senza la micromobilità elettrica, senza la trap, senza le stories di Instagram, senza le canne al parchetto, senza i riders e gli hamburger a domicilio? Che palle la vita nell’ottavo secolo a. c., già stufa vederla alla tele, figuriamoci a trovarcisi in mezzo.

il complotto del 2020

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Ho appena scoperto che esiste una pagina di Wikipedia per tutti i numeri naturali dallo zero al 2019 e poi basta. Io vi ho avvisato.