calendario scolastico

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La scuola inizia grosso modo la prima decade di settembre. Le prime due settimane servono per riaccendere i motori organizzativi e a convincere gli studenti che un nuovo anno prende il via. Al momento la frequenza si limita a poche ore al giorno con un organico docenti decisamente ridotto. L’orario definitivo entra in vigore a fine ottobre, mentre il team degli insegnanti si completa, tra le rinunce e i soliti scambi di responsabilità sulle nomine, a fine novembre. Tutto sommato, nel corso di questa prima parte dell’anno scolastico si riescono a portare a termine un paio di settimane di lezioni in continuità, al netto di eventuali feste patronali e ponte dei morti. Dal primo dicembre sono tutti in fibrillazione perché di lì a poco ci sarà il ponte dell’immacolata e, a ridosso delle vacanze natalizie, ha il via la consueta diaspora dei colleghi che raggiungono i familiari distanti. Per il resto siamo tutti più buoni, ci regaliamo candele profumate e cioccolatini e, se non ci sono pandemie in giro, ci si scambia anche qualche saluto di buone feste. Nella primaria, tra lezioni e lavoretti a tema, i giorni effettivi si riducono a una manciata al netto delle volte in cui nevica e – negli ordini più bassi – i bambini passano il tempo a guardare i fiocchi scendere mentre i ragazzi più grandi accumulano ritardo sui mezzi in panne nel traffico rallentato dalle condizioni meteo. Ed è subito festa.

Al rientro a gennaio, dopo la prima settimana in cui ci si riprende dal jet lag causato dallo smantellamento degli addobbi e dei panettoni in sala caffè, trascorse un paio di settimane si inizia finalmente a fare sul serio e ci si attrezza per la valutazione di fine quadrimestre. Consegnate le pagelle, si parte con il secondo e con le settimane bianche. A febbraio ci sono meno giorni e c’è carnevale e un attimo dopo ecco la natura che si risveglia. In tutto, in questo scorcio di anno nuovo, si lavora a esser ottimisti un mese. Tra marzo e aprile c’è poi la settimana santa, quella che prelude a Pasqua, e la settimana rossa, quella della Liberazione e la festa dei lavoratori, e quando sono a ridosso l’una dell’altra ti ritrovi a metà maggio che nemmeno te ne sei reso conto. C’è il programma da ultimare ma ormai il conto alla rovescia è iniziato, e poi sono tutti stanchi. A questo aggiungici una spruzzata di spettacolo e festa di fine anno ed è subito ultimo giorno di scuola. Già a partire dal day after non trovi più nessuno, si fa qualche corso di aggiornamento, si sistemano le scartoffie e tanti saluti, a questo punto se ne riparla a settembre, con la consueta modalità.

open

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L’emergenza sanitaria quest’anno impone alle scuole l’organizzazione di Open Day da remoto. Me ne sono accorto perché mi hanno incaricato di realizzare un video di qualche minuto da trasmettere durante l’evento per mostrare gli ambienti in cui si svolge l’attività didattica. O, meglio, nei quali si svolgerebbe a pieno regime se non ci fossero tutti gli accorgimenti e le norme di sicurezza da rispettare.

La chiave di lettura è, come al solito, duplice. Intanto penso che se fossi stato avvisato un po’ prima, e non con qualche giorno di anticipo rispetto alla data individuata per l’incontro, mi sarebbe stato possibile pensare a un format più accattivante per il video. Anche a scuola, come in agenzia, vige l’approccio delle cose all’ultimo minuto e non capisco perché nessuno, a monte, riesca a scardinare questo modo inefficace di lavorare. A questo occorre aggiungere che la realizzazione di un video ai tempi del Covid con aule spoglie per consentire il distanziamento dei banchi, laboratori inutilizzati, personale bendato e mascherato come un’equipe chirurgica, non trasmette certo il flavour di una scuola amichevole e inclusiva. Non solo. Vi sfido a effettuare le riprese indoor a Milano durante la settimana con le giornate più corte dell’anno, specie se è il 2020 e, tra le varie sfighe, si prevede una settimana di maltempo proprio quando devi girare con una telecamera dopo mesi di estate normale e di San Martino.

C’è poi il fattore budget. La scuola pubblica assegna incarichi di questo tipo agli studenti se si tratta delle superiori e, a scendere, ai docenti volenterosi e capaci, a quelli volenterosi e incapaci – la casistica in cui rientro io -, a quelli incapaci e basta che lo fanno perché gli è stato imposto. Le scuole private invece sono tutto un altro paio di maniche. Per loro l’Open Day e il materiale da realizzare è vero e proprio marketing. Per questo si affidano a professionisti e strutture adeguate. Provate a cercare video di presentazione delle scuole e verificate di persona la differenza di risultato tra le due tipologie.

Resta il fatto che i genitori difficilmente recepiscono l’idea di una scuola da una visita di così poco tempo, indipendentemente che partecipino di persona o online e che valutino contenuti dal vivo o in modo asincrono. Le scuole cambiano dimensione a seconda dell’età degli studenti. Per chi ha intenzione di entrarvi saranno sempre enormi. I vostri figli risulteranno sempre piccolissimi rispetto all’ingresso, all’aula magna, alle classi e persino ai banchi che vi verranno mostrati, indipendentemente se siete in procinto di iscriverli a un nido o al liceo. Entrerete in contatto con i prof più brillanti e gli studenti più simpatici, e nessuno vi mostrerà il supplente che cambia ogni anno o i team delle sezioni-monnezza in cui non c’è il becco di un progetto. Se smanettate con i programmi di fotoritocco, procuratevi le foto degli ambienti scolastici che i vostri figli hanno scelto e provate a montare una loro foto, per vedere l’effetto che fa. I ragazzi sembreranno formiche in cattedrali gotiche, veri e propri castelli da film horror nelle cui scale e labirinti si smarriranno tardando alle lezioni dopo il suono della campanella.

Quando giungono all’ultimo anno i ragazzi, invece, ricordano quella scena di “Alice nel paese delle meraviglie” in cui la protagonista riprende le sue fattezze dopo essersi rimpicciolita, e si ritrova inscatolata in una specie di casa delle bambole. Ieri ho avuto un incontro con la mia dirigente nel suo ufficio, proprio quello per avviare l’attività del video per l’Open Day. Prima del mio appuntamento la preside ha ricevuto una collega di matematica della secondaria di primo grado insieme a una sua alunna che, durante la didattica da remoto, ha combinato un bel guaio impossessandosi delle credenziali di accesso alla piattaforma di una compagna e facendo una bravata di cattivo gusto. La ragazza è uscita letteralmente rivoltata dall’incontro, così stravolta tanto da sembrare una ventenne. Anzi, con su la mascherina, di primo acchito l’ho scambiata per una collega. Ho pensato che anche quell’esperienza fosse la dimostrazione di quanto faccia crescere la scuola e di quanto la scuola, anno dopo anno, si faccia sempre più stretta intorno ai ragazzi.

cronaca vera

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Oggi in redazione sono passati a trovarci Bernie Sanders e Fidel Castro e, quando rientro dalla pausa pranzo, li noto commentare a fianco del direttore del quotidiano, seduto sull’angolo di una delle scrivanie dell’open space come nei film americani, il testo di un paio di stampe A4 su cui ci sarà probabilmente la bozza dell’editoriale di domani. Poter mangiare a casa spezzando la giornata lavorativa è un privilegio impagabile anche nei sogni. Abito a cinque minuti a piedi dal giornale, che ha la sede negli uffici di Via al Ponte Calvi proprio al posto degli uffici di una software house in cui ho lavorato quando avevo poco meno di trent’anni, quella dall’elevato tasso ingegneristico e maschile tanto che alle pareti non c’era appeso nemmeno un poster, per non parlare di stampe artistiche e dipinti.

Le uniche ragazze sono la tuttofare alla reception e la grafica con cui ho una specie di relazione clandestina. Io sono single ma lei ha già un fidanzato. Con lui e la sua famiglia trascorre il venerdì sera a dilettarsi con il liscio e altri balli di coppia. Anche se musicalmente siamo diversissimi, in certe situazioni ce la caviamo piuttosto bene. Abbiamo appunto approfittato della vicinanza di casa mia che – anche se si trova a sessanta km da lì ma, nei sogni, vale tutto – è quella dei miei genitori. Appena ci siamo chiusi la porta alle spalle non abbiamo perso tempo. É alta come me e, mentre ci abbracciamo in piedi per qualche preliminare, mi domando se sarà ancora in forma come era allora, dopo tutto questo tempo. Il fatto è che io un po’ mi vergogno se lei è rimasta giovane, dopo più vent’anni. Il confronto con il grasso superfluo che mi si è depositato sopra il fondoschiena e l’alluce valgo potrebbe risultare impietoso.

Nella realtà invece qualche anno dopo, ma io ero già andato via da lì, metterà su famiglia con il collega ingegnere con il sorriso a sessantaquattro denti, quello dai lineamenti tutt’altro che etero e che non nascondeva il suo orientamento nazifascista. Chissà come avrebbe reagito se, al ritorno per riprendere servizio dopo pranzo, si fosse trovato, a pochi passi dalla sua postazione, due pezzi da novanta della storia e della sinistra internazionale come quelli. In redazione c’è anche mia figlia, sta svolgendo uno stage come quello inutile che avevo fatto io a La Stampa, appena laureato. Mi avvicino e mi vanto con lei facendole notare il livello di ambiente professionale che frequenta suo padre. A guastare tutto sono i commenti del caporedattore dello sport, un omuncolo viscido, senza capelli e squallido che, manco a dirlo, vota Fratelli d’Italia. Mentre ci ammorba con i suoi sproloqui e una canzonaccia in rima sul ventennio mi gioco la solita gag, quella in cui capovolgo la testa sostenendo di non riconoscerne i lineamenti senza osservarlo a testa in giù.

A darmi man forte sopraggiunge Nicola Zingaretti, che nel frattempo si è unito a noi per omaggiare i nostri ospiti esclusivi. Supera i due metri di altezza ha una dialettica così convincente che il collega meloniano è costretto a ritirarsi nelle sue fogne morali, come è giusto che sia. Propongo a mia figlia di farsi un selfie con Sanders, Castro e il segretario del PD perché un’occasione così non capiterà mai più ma lei, come accade nella realtà, non vuole mettersi in ridicolo. Io invece, a differenza sua, non ho nulla da perdere, così attivo la fotocamera dello smartphone rivolta verso di me ma, come al solito, non riesco a impugnarlo bene senza ostruire l’obiettivo con le dita.

star a scuola

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C’è un episodio della serie tv “Friends”, quello degli stivali di Monica – per darvi delle coordinate, siamo verso la fine dell’ottava stagione – in cui Phoebe fa carte false per scroccare alla moglie di Sting (nella puntata interpretata dalla vera moglie di Sting, Trudie Styler) dei biglietti per il concerto che l’ex cantante dei Police terrà in un locale di New York sfruttando il fatto che Ben, il figlio di Ross e della sua ex-moglie, è in classe proprio con il figlio di Sting e che tra i due bambini non corra buon sangue. Phoebe si finge la madre di Ben e si presenta a casa di Trudie con il pretesto di trovare un modo per superare le divergenze a scuola ma la truffa viene sventata in un batter d’occhio. In realtà Sting non fa nessun cameo, malgrado nelle puntate precedenti si vedano Sean Penn e Brad Pitt, entrambi giovanissimi, prestarsi ad altrettante comparsate nel telefilm e tutti si aspettino che l’englishman a New York, prima della sigla di coda, faccia un ingresso trionfale al Central Perk. L’unica traccia dei Police nella vicenda è la parodia di “Roxanne” che Phoebe canta rendendola “Ross can”, per motivare l’amico a intercedere con Sting e recuperare i biglietti, prima della decisione di procedere in autonomia. Ho ripensato a questo episodio qualche anno fa in occasione dell’incontro preliminare del liceo che mia figlia aveva – suo malgrado – scelto. Tra i genitori dei neo iscritti c’era un membro degli Afterhours, la band di Manuel Agnelli, ma per una volta la sorte non ha giocato a mio favore sulla composizione delle classi. Mia figlia e suo figlio sono stati inseriti in sezioni diverse, facendo svanire in un sorteggio avverso la possibilità di diminuire i gradi di separazione tra il sottoscritto e quello che sarebbe diventato di lì a poco uno dei giudici più divisivi di X Factor. Resta quindi il rimpianto che non mi si sia aperta una nuova opportunità da musicista grazie alla frequentazione del genitore-afterhours, anche se – con il senno di poi – non sono sicuro che avrei valicato i confini della mia bolla, visto che in quattro anni ormai non mi è capitato con nessuno. Anzi, forse, da qualche parte nel web, c’è uno dei genitori degli effettivi studenti della classe di mia figlia che sta scrivendo un post come questo manifestando soddisfazione invece perché ha una figlia o un figlio che frequenta il liceo con la mia. Un caso improbabile ma perché non possiamo sognare in grande? Per questo dico a tutti voi di smetterla di rimanere nascosti nell’anonimato e, se volete davvero essere miei amici – anche solo per velleità opportunistiche – sentitevi liberi di scrivermi. Ho ancora qualche buco libero in agenda.

la spesa sexy e altre storie

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Perso nel supermercato come i Clash ho faticato a riconoscere Davide nascosto dietro una mascherina quasi più grande del suo volto. Per capire di chi si trattasse ho avuto l’impulso di abbassare la mia, un gesto che compio sempre anche quando non sento, come se liberare il viso servisse a riaccendere le capacità percettive di apparati che non sono nemmeno collegati con le orecchie. Così mi sono sforzato per l’ennesima volta ad abbinare lo sguardo a una voce filtrata da un dispositivo di protezione. Davide ha poco più della metà dei miei anni ma ha già due figli all’università, non che questo faccia di lui un campione di qualcosa, ma trasmette un senso di compiutezza a chi è cresciuto secondo una roadmap campata per aria come la mia. Comunque potete stare certi che in Italia è lui quello sbagliato, mica io. Per avere la conferma è sufficiente seguire qualche puntata dei programmi di Home&Garden TV, dove coppie che da noi sono costrette a infrattarsi sulla Fiat cinquecento di mamma per avere un po’ di intimità, nel New England, a nemmeno quarant’anni, si liberano del villone in cui hanno cresciuto i figli – oramai al college all’altro capo degli USA – per cambiare vita investendo in una minicasa in cui sbatteranno la capoccia ogni volta che si sveglieranno di soprassalto nel cuore della notte per l’ululato di un animale selvaggio nei dintorni del loro nuovo loculo a ruote. Noi al contrario siamo così ordinari che per sentirci a stelle e strisce leggiamo la ricetta della cheesecake su Giallo Zafferano e, per dare una svolta a un weekend di lockdown, ci prepariamo la lista delle cose da comprare per seguire l’algoritmo culinario per filo e per segno. Panna liquida da montare, barra di cioccolato fondente da – appunto – fondere nel microonde, zucchero a velo, gelatina in fogli da mettere in ammollo, due confezioni di Philadelfia e una scatola di Digestive, per un totale in soldoni che si avvicina al costo di una torta confezionata sicuramente più buona di quella che prepareremo. Ma vuoi mettere la soddisfazione? Io non la metto perché, anziché stare dietro alla frusta elettrica, preferirei dedicarmi ad attività più in linea con la mia natura intellettuale, per esempio scrivere o leggere libri di scrittori americani che sanno preparare torte sicuramente più buone e caloriche delle mie. Però osservo i clienti del supermercato al cospetto degli scaffali dedicati ai prodotti per i dolci. Sono l’unico uomo e mi distinguo perché sono quello meno sexy, non è ancora uscita la seconda puntata del tutorial che va per la maggiore sui social in questi giorni – Maradona a parte -, quello dedicato ai maschi con il carrello. Il fatto è che per noi è prevista la versione alla guida di un muletto, altrimenti che stereotipo sarebbe?

walking dad

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La prof di matematica e fisica di mia figlia – giustamente – se ne fotte se i ragazzi cerchino le risposte sul web o si sottopongano a verifiche e interrogazioni sfruttando tutti i canali conosciuti al momento – e chissà quanti ne troveranno da qui alla fine della didattica digitale integrata – per trovare e scambiarsi i risultati. Sostiene infatti che sono affari loro se copiano e non imparano e, quando si rientrerà alla normalità, gli studenti meno seri non scamperanno alla resa dei conti del tradizionale sistema scolastico in presenza. Ed è incredibile lo spirito di adattamento o, meglio, la resilienza che hanno maturato i nostri ragazzi nelle loro camerette: dai fogli appiccicati sui muri intorno al pc ai post-it sullo schermo, che tanto chi sta dall’altra parte non li vede, fino a whatsapp web affiancato alla finestra della piattaforma di videoconferenza con il gruppo della classe pronto a correre in aiuto. Ma vi assicuro che se fossi all’altezza di sostenere un’interrogazione di filosofia o di eseguire esercizi di goniometria mi posizionerei dietro la scrivania di mia figlia a supportarla, come fa il papà del mio alunno Denis che, senza un briciolo di vergogna, suggerisce risposte a domande del calibro di nove più cinque e, per giunta, facendosi sentire con il suo vocione di gigante – al momento buono – rumeno. E quando leggo degli ingegnosi stratagemmi che i ragazzi adottano per boicottare l’attività dei loro docenti mi vengono in mente le telefonate che andavano di moda quando ero studente io al tempo delle Brigate Rosse, cose tipo “c’è una bomba” o quelli che, alla vigilia di un compito in classe, si facevano chiudere dentro la scuola per allagarla con i rubinetti dei bagni aperti sui lavandini del bagno con gli scarichi ostruiti. Iniziative che fanno sorridere per la loro ingenuità ai tempi della telesorveglianza, dei sistemi di allarme e della facilità con cui si rintraccia il dispositivo e l’autore di qualunque tipo di chiamata. Gli alunni della mia scuola, per dire, ogni giorno se ne inventano una, perché a quelli che fanno finta che la connessione da casa faccia le bizze (l’equivalente delle interferenze gulash gulash) oramai non crede più nessuno. La nuova moda è tentare a ripetizione l’accesso sbagliando apposta le credenziali di un docente in modo che il sistema ne blocchi, come forma cautelare, l’accesso all’account scolastico. Su ogni social per sbarbati i gruppi di hacking creativo per la DAD sono copiosi e in continuo mutamento, ma come biasimarli: gli attacchi virtuali danno molta più soddisfazione di quelli perpetrati di persona considerando che, con i tempi che corrono, quando ci metti la faccia è facile prendersi due sganassoni.

adulatori

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Quest’anno accendo pochissimo la LIM, anche se con delle cannucce di cartone che si trovano alla Coop ci siamo inventati la bacchetta magica per evitare che i bambini tocchino la stessa penna per scrivere e giocare sulla lavagna interattiva e non si contagino a vicenda. All’inizio il motivo era proprio quello. Evitare cioè che gli alunni stanziassero nel rettangolo maledetto, quello tracciato con il nastro adesivo sulle piastrelle a delimitare lo spazio in prossimità della cattedra in cui sono tenuti a barricarsi i vecchi docenti per evitare la contaminazione dai giovani virgulti asintomatici. Così ho riesumato qualche confezione di gessi colorati da un magazzino di materiale da cui non si serve più nessuno e mi sono messo a scrivere e disegnare sulla lavagna. Perdo un sacco di tempo utile per la didattica, ma non avete idea dell’autocompiacimento nel rappresentare le foglie in tutte le loro forme con le innumerevoli sfumature del verde e del rosso o realizzare Super Mario in versione Pixel Art. I bambini delle altre classi, quando passano per andare in bagno rigorosamente negli orari concordati, si fermano a sbirciare i miei capolavori. I miei alunni mi dicono in continuazione che disegno molto bene ma sono certo che lo fanno per non lasciarmi desistere e continuare a perdere tempo anziché impiegarlo per fare rigide verifiche con operazioni in colonna e problemi. E pensare che in quarta mi ero preso arte a settembre, ma era successo perché avevo mandato affanculo la prof. Mi diverto un sacco a creare vere e proprie infografiche alla lavagna e a farle ricopiare fedelmente ai bambini, che ora hanno i quaderni che sembrano brochure di qualche campagna marketing perché, anche se non sembra, sono discretamente pignolo e chiedo di rispettare al massimo l’organizzazione del foglio come voglio io. Allora, per scherzare, dico alla mia classe di continuare a farmi i complimenti quando desiderano perché a me piace molto. Per questo non mi sottraggo ai vari quanto sei bravo maestro o che capolavoro che hai fatto, che poi gradualmente giungono a distorsioni del tipo maestro come sei bello. E, credetemi, non posso che dar loro ragione.

son finiti i tempi cupi

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Perché guardare la storia inventata quando c’è la storia vera? Quando seguo ogni nuovo episodio di “Romulus” questa è la prima considerazione che mi viene in mente. Penso cioè alle serie e ai film fantasy che attingono all’immaginario del passato – “Trono di spade” in primis – e mi chiedo quanti prodotti si potrebbero realizzare partendo da fatti realmente successi e personaggi esistiti. Non che non ce ne siano, eh. E poi, sia chiaro, ognuno fa e guarda quel cazzo che vuole.

Però a saper dosare la componente cinematografica con la rappresentazione filologica e storiografico/documentaristica non tutti sono bravi. Poi è chiaro: la differenza la fanno gli attori e, come sappiamo, quelli italiani che già si trovano male a recitare come gente vissuta negli anni settanta figuriamoci a esprimersi in protolatino. Per fortuna ci sono i doppiatori che, quando il prodotto è di qualità, ne normalizzato l’effetto e ti fanno dimenticare che è stato girato in Ciociaria e non nel Colorado e che le comparse che si infilzano in battaglia con armi rudimentali provengono probabilmente dalle nostre scuole di recitazione.

Ne deriva che c’è ancora tanto da dire e da raccontare, e non solo per gli antichi romani. Villanoviani, etruschi, volsci, osci, liguri, reti e tutti quei nomi di popoli che si salvano per le interrogazioni di storia nella nostra memoria volatile, quella cioè che si formatta all’interrogazione successiva per immagazzinare altre informazioni che, nella vita, non serviranno a un cazzo a meno che non abbiate un blog e non siate appassionati di cose che non interessano a nessuno. Per non parlare poi dell’alto medioevo, dei Medici (qui qualcosa è stato fatto), di Federico II e di una delle innumerevoli cosucce accadute dal 476 d. C. fino al Congresso di Vienna.

Il fatto è che nella rappresentazione televisiva e cinematografica della storia antica ci sentiamo molto a nostro agio. Sarà una sorta di legame innato, un principio ancestrale sopito nel nostro DNA che si attiva appena ci troviamo al cospetto degli stessi ambienti in cui ci muoviamo quotidianamente e che sappiamo esser stati calpestati da milioni di generazioni prima di noi, anche se con calzature via via a ritroso sempre meno confortevoli. Le capanne, i metalli forgiati, la giustizia primitiva e le divinità sono stati patrimonio dei bisnonni dei nostri bisnonni dei nostri bisnonni dei nostri bisnonni dei nostri bisnonni e così via, con buona pace di quei baracconi turistici e polverosi che sono le rievocazioni in costume, il palio di staminchia e tutto il resto.

Per questo, con film e serie storiche, è un po’ come guardare un nastro in superotto delle vacanze al mare dei nostri genitori negli anni sessanta, solo che al posto di papà e mamma ci sono antenati delle caverne che mangiano il cuore dei nemici morti e, dove ora c’è un Autogrill dell’Autostrada del sole, prima c’era una foresta infestata di lupi e spiriti nefasti. Praticamente è la stessa sensazione ma al contrario che ti danno Blade Runner e quei rari film di fantascienza in cui ci sono le macchine volanti e i bastioni di Orione ma gli stati d’animo degli uomini sono gli stessi di quelli che vediamo oggi in coda in panetteria con la mascherina.

Lo sforzo a cui dobbiamo prestarci per la serie “Romulus” è quello di considerare i dialoghi come veicolo di narrazione. Il problema è l’eccessiva idealizzazione della modalità espressiva che si manifesta mettendo in bocca agli attori sempre la cosa più appropriata da dire e, spesso, recitata come versi di una poesia. Se già possiamo solo affidarci a congetture sulla lingua di quel periodo del latino o proto-tale, sapere il modo in cui ci si esprimesse è ancora meno realistico. Anni di versioni al liceo in un italiano che non usa nessuno hanno inoltre contribuito all’idea dell’inutilità pratica delle lingue antiche. Anche se ci sono rimaste orazioni e poemi, anche Romolo e Remo e i loro discendenti avranno avuto necessità di sviluppare un lessico famigliare, di mandarsi affanculo, di adattare uno slang o di modulare concetti semplificati spinti dalla fretta, come facciamo noi.

Continuiamo inoltre a rimanere increduli di fronte a tanta ingenuità e superstizione, il che detto da un esponente di una civiltà che crede a Big Pharma e a ogni genere di complotto potrebbe sembrare contraddittorio. L’analisi del comportamento del sangue che cola dal cranio è l’equivalente dei miracoli che spettacolarizziamo tutt’ora a quasi tremila anni di distanza. E poi ci sembra così strano assistere una tale esasperazione della spiritualità in tribù la cui economia era basata sulle pecore e i loro derivati.

Con gli episodi 7 e 8 la serie raggiunge la sua maturità ed entra in una sorta di età adulta. Si definiscono meglio le dinamiche tra i personaggi e si prospetta già il finale, che tanto è inutile spoilerare perché è scritto nero su bianco sui libri di storia. E anche in queste puntate ecco l’immancabile rimando pop: il ragazzino nella capanna del vasaio greco che sembra il protagonista del video di “Freestyler” dei Bomfunk MC’s

ecco perché dovreste disiscrivervi dai gruppi Facebook

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Facebook è la piattaforma che ha preso il posto delle tradizionali occasioni di aggregazione e scambio esperienze, oltre a favorire e, perché no, allontanare le relazioni interpersonali. Quanti amici avete radiato dalle vostre frequentazioni virtuali dopo aver approfondito gli aspetti a cui una conoscenza fisica ma superficiale era di ostacolo? Sapevate prima dei socialmedia che tizio ascolta Biagio Antonacci, che caio partecipa alle veglie di preghiera in favore di Formigoni, che sempronio considera Di Battista un intellettuale? La deludente esperienza delle discussioni generaliste con gli individui con cui siamo in contatto ci ha spinto così a rifugiarci nei gruppi, nella speranza di ritrovare quell’atmosfera che si respirava nelle mailing list di fine anni novanta. I gruppi Facebook, si sa, sono di due tipi. Ci sono quelli orizzontali, formati da gente accomunata da un’appartenenza comune, per esempio al luogo di nascita, al comune di residenza, a un movimento o partito politico. Ci sono poi quelli verticali, nei quali chi si iscrive accetta di contribuire allo svisceramento fino alla nausea di un argomento/tema specifico/personaggio-figura di culto. Reduce da una vacanza nei luoghi dell’antica Roma e sull’entusiasmo delle ultime serie tv dedicate ai nostri antenati, moto che ha ravvivato una passione per la lingua latina e la storia romana che coltivavo ai tempi dell’università, mi sono scritto a decine di gruppi Facebook avviati per riunire chi si pasce di questa inclinazione. Gruppi verticalissimi frequentati da fanatici che perdono le staffe perché gli attori di Romulus cavalcano con le staffe. Fatto sta che nella mia timeline di Facebook da qualche tempo si legge solo di Impero Romano, repubblica, monarchia, Roma antica, archeologia romana, letteratura latina, latino, protolatino, barbari, invasioni barbariche, Barbari nel senso della serie Netflix, imperatori romani, re di Roma, consoli, senatori, uomini carbonizzati a Pompei, Pompei, scavi archeologici. La morale è che i gruppi Facebook verticali ti fanno passare la passione per l’argomento verticale a cui vorresti dedicarti nel tempo libero, che c’è gente che non sta bene e che su Facebook sta peggio, e che è molto meglio frequentare i gruppi orizzontali dove si parla di tutto e se parli di Impero Romano ci fai un figurone perché non è detto che gli altri ne sappiano qualcosa, e che è più salutare coltivare le proprie passioni in autonomia almeno finché non si potrà uscire di nuovo di casa e riprendere a partecipare ai gruppi di lettura in biblioteca, fare attività sportiva, andare ai concerti, spegnere la tv, spegnere il telefono, spegnere il pc, spegnere l’Internet.

che piacere è

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Il diagramma di flusso di un distributore del caffè è una procedura esemplare che si utilizza a scuola per fare chiarezza su coding, algoritmi, programmazione informatica e tutte quelle cose di cui ci si riempie la bocca quando si parla di didattica innovativa. Nonostante ciò le macchinette distributrici a scuola restituiscono un caffè più che discutibile. La signora Anna è una collega collaboratrice – l’evoluzione dei bidelli – che mi chiede ogni ventitré del mese di stamparle il cedolino perché dice di non essere capace, a differenza di me che sono anche l’animatore digitale e responsabile della piattaforma didattica della scuola. Mi ha dato persino le sue credenziali del sito NoiPA – almeno finché anche questo accesso non diventerà ennesima esclusiva dello SPID – da cui scaricare ogni mese il PDF della busta paga per poi fornirglielo in formato cartaceo e archiviabile fisicamente. Così tutte le volte che mi vede nell’aula caffè, che casualmente è anche il locale in cui è posizionata la stampante e fotocopiatrice di plesso, mi chiede se può offrirmi qualcosa e io per educazione e perché non voglio creare precedenti faccio finta di essere impegnato a sistemare il toner o un cassetto inceppato e rifiuto giustificandomi con il fatto di averlo appena bevuto, anche se non è vero. Oggi addirittura, per sviare la conversazione, le ho pure confidato che, secondo me, il caffè della nostra macchinetta non è proprio da buttare via. La signora Anna conosce la mia storia, sa che ho una carriera di copywriter alle spalle e che, passando alla scuola pubblica, ho fatto un balzo economico a ritroso tutt’altro che irrisorio. Così mi ha risposto che, in confronto al caffè che si trova negli uffici delle aziende private, secondo lei, non dev’essere nulla di che. Pensavo che avesse voglia di fare quattro chiacchiere e così le ho raccontato che uno dei clienti dell’agenzia in cui lavoravo aveva dei distributori di caffè superlativi. Negli spazi comuni si trovavano erogatori di una marca fighissima biologica e fair-trade che sparavano fuori l’espresso più buono del mondo, una miscela di gran lunga superiore al Nespresso con cui l’avevano sostituita tempo dopo per fare i fighi e perché c’era George Clooney a fare gli spot. Ci avevano persino ingaggiati per realizzare una sorta di parodia video per pubblicizzare un loro evento marketing, trenta secondi in cui facevano il verso alla pubblicità in cui l’ex medico in prima linea faceva il piacione e chiedeva “What else?”. Avevamo girato tutto con una telecamera sola ripetendo le battute tra piani e contropiani e alla fine il risultato non era venuto nemmeno male, anche se i dipendenti che si erano prestati a interpretare la scenetta erano tutto fuorché attori professionisti. Mi è anche venuto in mente che, in agenzia da me, il mio capo ci aveva messo a disposizione più marche di caffè – con relative macchinette – lasciandoci la possibilità, attraverso una survey interna, di scegliere quella che a maggioranza preferissimo. E, a furia di parlarne, mi è venuta voglia di caffè. Così, appena la collaboratrice se n’è andata, ho inserito la chiavetta e mi sono servito. Io lo prendo amaro senza zucchero e macchiato caldo. Ho studiato le componenti e gli ingredienti dei distributori automatici perché insegno anche informatica e so benissimo che dentro non c’è del caffè vero ma del surrogato in polvere che si mescola all’acqua. Nonostante ciò lo bevo lo stesso. La signora Anna, la collega collaboratrice, non si preoccupa nemmeno del fatto che conservo i suoi cedolini nella chiavetta che uso per stampare sulla fotocopiatrice e che so che guadagna quanto me che faccio l’insegnante. Per questo non mi offro mai di restituirle il caffè che ogni tanto, per non sembrare scortese, mi tocca accettare.