il domani di ieri

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Quando l’elettricità fu introdotta nelle case per la prima volta, la gente scriveva ai giornali che era un pericolo per le famiglie, perché non avrebbero più avuto bisogno di riunirsi intorno a un focolare. Nel 1903, un famoso psicologo aveva incominciato a temere che i giovani perdessero il legame con i tramonti e i momenti contemplativi.

Jenny Offill, Tempo variabile

qualcuno ha detto scoiattolo

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Nel giardino della mia scuola stanzia una colonia di scoiattoli. In realtà non so quanto sia nutrita perché, al massimo, non ne ho mai non più di due simultaneamente e non potrei affermare con certezza se quello che vedo saltare da un albero all’altro singolarmente in realtà è sempre lo stesso esemplare che esce per approvvigionare il resto del gruppo oppure sono tantissimi e, ogni volta, ne vedo uno diverso. Premesso che ho molti amici scoiattoli – non è vero, eh – non me ne vogliano se affermo con convinzione che si fa molta fatica a distinguerli tra di loro. Una volta ne ho osservato persino uno da abbastanza vicino. Stava ritto su due zampe come uno di quei ratti di fogna che capita di incrociare nei bassifondi genovesi e lanciava un grido inquietante che, se avessi solo ascoltato il sonoro della scena, avrei ricondotto il verso a una delle tante cornacchie che infestano l’hinterland milanese. C’era però un cancello che ci divideva – io ero fuori dal giardino e lui sul ramo di una pianta all’interno – e ho avuto l’impressione che avesse la consapevolezza che non sarei mai riuscito a raggiungerlo per catturarlo. Non che ne avessi l’intenzione, naturalmente.

Quando accompagno la mia classe in giardino per trascorrere l’intervallo capita spesso che uno scoiattolo si lasci scorgere. Se i miei alunni ne vedono uno non capiscono più nulla ed è sorprendente che, ai tempi di Fortnite e di Batman, un comune roditore, per giunta nemmeno particolarmente attraente, susciti un entusiasmo così smodato. Uno dei bambini più esagitati per qualsiasi novità esclama “scoiattolo!” e, nemmeno avessi come alunni un branco di cani da caccia, tutti si scagliano di corsa sulla scia della direzione indicata dal braccio di chi ha fatto la scoperta, urlando e sbraitando come una tribù di guerrieri di quelli che siamo abituati a vedere nelle serie tv sulle popolazioni più selvagge. In quattro balzi e una manciata di decimi di secondo lo scoiattolo guadagna il vantaggio a garanzia della sua incolumità e si porta sui rami alti della vegetazione del giardino. I bambini restano sotto nella speranza che cada o che, più realisticamente, si renda visibile ancora una volta. Uno lo intravede sull’abete più avanti. Un altro sul massiccio tronco dell’acero dalle foglie rosse tutto scavato da potenziali tane di fronte. Per tutta la durata dell’esperienza di contemplazione però i bambini si prodigano in urla lancinanti, come se qualcuno li squartasse con un coltellaccio da combattimento. Si affacciano persino le nonne e i nonni delle abitazioni circostanti e, di questo, un po’ me ne vergogno. Da una parte vorrei intervenire per dimostrare agli anziani spettatori sui balconi che sono un efficace educatore e che la mia mission è quella di fornire strumenti ai miei alunni per comportarsi come si deve. E gridare come un ossesso non fa parte delle best practice delle competenze acquisite. Dall’altra però vorrei lasciarli fare come vogliono. D’altronde, non fanno male a nessuno.

La coppia di bambine più pacifiche corre subito ad avvisarmi che il resto della classe sta spaventando gli scoiattoli. A me gli scoiattoli non mi sembrano un prodigio di pucciosità animale. Voglio dire, ci fosse un panda o qualche altro animaletto grazioso la cosa mi toccherebbe. Gli scoiattoli, pur con le dovute differenze, mi ricordano i ratti dei bassifondi genovesi, l’ho già scritto prima. Quindi non mi dispiace se qualcuno li spaventa un po’. Credo che però se gli scoiattoli scelgono di rimanere nel giardino di una scuola, che durante le due ore dell’intervallo, pioggia permettendo, è infestato da mini-esseri umani che giocano a fare gli indemoniati, sono consapevoli del fatto che un bambino che corre e urla nella sua direzione non costituisce un pericolo di vita. Gli scoiattoli non sono ancora emigrati. Saranno fatti loro.

un anno del gatto

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Se chiedessimo l’opinione agli animali domestici, sono certo che ci risponderebbero che quello che volge al termine è stato l’anno più bello della loro vita. Non credo che cani e gatti abbiano mai passato così tanto tempo a tu per tu con i loro padroni. Averci a disposizione così tanto per starci appiccicati così a lungo non si ricorda a memoria di essere vivente. Per questo il 2020 passerà alla storia come un anno bestiale e i nostri amici a quattro zampe tramanderanno questo evento eccezionale di generazione in generazione. Un’esperienza agli antipodi di quella dei nostri figli, con i genitori con il fiato sul collo 24x7x365 a impicciarsi nella loro vita scolastica da remoto, privi del piacere dell’abbandonarsi agli eccessi con i coetanei come ogni ragazzo di quell’età dovrebbe fare. Ci vorrà uno psicologo per riabituarli allo stare fuori casa, ovviamente mi riferisco ai più giovani. Ci vorrà anche qualcuno bravo per cani e gatti una volta che i nostri appartamenti torneranno ad essere disabitati di giorno e gli animali riprenderanno a vivere la loro esperienza di cattività di lusso da protagonisti, ma senza gente in giro. Ho trascorso mesi a preparare attività al computer per la didattica a distanza, a tenere lezioni in videoconferenza, a partecipare a riunioni, collegi docenti, colloqui con i genitori, e non credo di aver passato così tanto tempo al pc nemmeno nella mia precedente attività lavorativa. All’opera seduto alla scrivania con il portatile davanti, non è passato istante in cui la mia gatta, da un anno e mezzo da sola dopo la morte del fratello, non si sia stravaccata sul mio avambraccio/polso sinistro facendo le fusa, ricercando ossessivamente il mio sguardo e costringendomi a scrivere sulla tastiera in un modo innaturale di cui il mio tunnel carpale prima o poi chiederà giustizia. Anche ora, mentre sto compilando questo resoconto di fine anno, è adagiata come di consueto e osserva le lettere comparire in sequenza a formare parole e frasi in questo articolo. Ogni tanto si abbiocca, poi ha un sussulto, si alza, si stiracchia per poi riposizionarsi allo stesso modo di prima. Ecco un altro segno di come è cambiata la dimensione domestica. Peccato per tutto il resto perché, a essere sincero, non mi dà nessun fastidio.

la musica nell’anno di mani pulite (e igienizzate)

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Allora com’è andato questo 2020, chiedono gli alieni che sbarcano sulla terra per le loro ricerche di mercato. Di merda, risponde all’unisono il genere umano ormai rassegnato, sempre che a parlare con la mascherina davanti alla bocca si comprenda qualcosa. La retorica ci ricorda che è dai momenti di tensione che nascono le opere d’arte più durature, anche se avremmo preferito un po’ meno ispirazione in cambio di contesti più banali come l’anno scorso, quello prima o tutto il resto che si è avvicendato ma rigorosamente non antecedente al 1946. Ci saremmo accontentati di uscire, andare al cinema, darci i baci sulle guance quando ci si incontra, abbracciare i nostri genitori anziani senza paura di dar loro il virus di grazia e, comunque, di prodotti culturali atrettanto eccezionali. Invece ci siamo trovati dieci mesi su dodici sul cosiddetto filo del rasoio. In ambasce per una pandemia bella e impossibile dal sapor estremo-orientale, poi barricati in casa a guardare il mondo da un oblò annoiandoci un po’ mentre la natura si riappropriava dei suoi spazi mandando in avanscoperta scoiattoli e cinghiali, quindi eroi tutti giovani e belli decisi a rinascere nell’estate per mandare poi tutto in vacca nell’autunno successivo fino agli ultimi scampoli dell’anno, quando ancora non sappiamo che minchia succederà e cosa potremo o non potremo fare da dopodomani.

Consoliamoci allora, per quanto possibile, con i dischi usciti quest’anno. Ho scelto un po’ di album che è difficile posizionare in una classifica. Sarebbero tutti numero uno, al vertice di qualcosa che non saprei definire, ciascuno con i suoi punti di forza e con le sue debolezze.

C’è stato tutto un fiorire e rifiorire di post-punk e suoi derivati.
Su tutti “Stray” dei Bambara

“Container” dei The Wants

“A Hero’s Death” dei Fontaines DC

“There Is No Year” degli Algiers

“Ultimate Success Today” dei Protomartyr,

“Just Look At That Sky” dei Ganser

“The Menace Of Mechanical Music” dei Team Picture

“Fantasize Your Ghost” delle Ohmme

“Auto-Pain” dei Deeper

“Void Moments” dei FACS

“Unmask Whoever” degli Activity

“Every Bad” dei Porridge Radio

e anche “Kompromat” degli “I Like Trains”.

Mi sono anche piaciuti molto “Kitchen Sink” di Nadine Shah

“100% Yes” dei Melt Yourself Down

“Shabrang” di Sevdaliza

i dischi omonimi dei Muzz di Paul Banks

e dei Keleketla! (ovvero i Cold Cut in salsa afrobeat)

“Live Forever” del sorprendente Bartees Strange

l’elegante “Off Off On” di This is the Kit

l’esotico “Zan” di Liraz

il cerebrale “Automatic” dei Mildilife

e “Konke” dei sudafricani Seba Kaapstad.

Di italiani nemmeno uno? Due, in verità. “L’ultimo a morire” di Speranza

e “Canale paesaggi” dei Post Nebbia.

Ci vediamo nel 2021. Almeno, questo è il buon proposito.

cashback

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C’è un bar tavola calda proprio a trecento metri dalla filiale italiana della multinazionale in cui, tra poco più di un’ora, parteciperemo alla riunione. Anche se è presto per pranzare meglio portarsi avanti e riempirsi lo stomaco, chissà per quanto ne avremo. Ci consigliano di andare comunque in auto perché, a piedi, la strada non ha un marciapiedi a lato e la visibilità non è delle migliori. In macchina per così poca distanza?, ci chiediamo io e il mio collega. Alla prima curva lo scenario si trasforma, Roma defluisce in un misto di periferia e rovine antiche prima e aperta campagna subito dopo. Ma, prima del definitivo salto di dimensione della città verso il nulla, un cartello invita a voltare a destra per una pausa di ristoro. Il parcheggio è ubicato proprio sopra la piccola salita, davanti all’ingresso del bar. L’edificio è fatiscente ma l’insegna ha un nome all’inglese e spicca per un font che sa di modernità low cost. Una combo che altrove tradirebbe una gestione made in China. Invece gli inservienti ci accolgono con l’inconfondibile parlata del posto. Solo che la vetrinetta a lato del bancone risulta vergognosamente sguarnita per gli standard della capitale della gastronomia. Qualche tramezzino dimesso e dolci inequivocabilmente industriali sono agli antipodi delle vestigia della cacio e pepe o della carbonara. Non conosciamo la zona e si rischia di fare tardi, quindi ci accontentiamo. Per garantire almeno un po’ di piacevolezza al gusto prendo una lattina di Pepsi. L’esperienza è, se possibile, ancora peggiore delle apparenze. Consumiamo alla svelta il pasto freddo in uno dei tavolini dozzinali ubicati all’esterno, sotto ombrelloni decorati con il brand di un produttore di dolci da grande distribuzione. A fianco c’è un’officina da cui entra ed esce un tizio minaccioso in tuta da meccanico e, dalle finestre sopra al bar, si sente gente litigare al telefono in una lingua dell’est europeo, a completare il set perfetto per una serie tv su mafia capitale. Rientriamo per pagare senza nemmeno prendere il caffè e la donna dietro al bancone estrae uno di quei registri cartacei che si impiegano per segnare gli incassi degli esercizi pubblici. “Abbiamo aperto stamattina”, ci confida mentre scrive l’importo che dovremo pagare, naturalmente in contanti. Non hanno nemmeno la cassa, figuriamoci il POS. Il mio collega per fortuna chiude la discussione con una banconota da 50 euro e il cameriere si offre di farla cambiare al gestore dell’officina a fianco. Siamo i primi clienti della nuova avventura commerciale e, manco a dirlo, non ci spetta nessun trattamento speciale.

una lezione di musica

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Non credo che l’essere umano preferisca la musica di merda per sua natura. Ascoltiamo musica di merda perché ci educano, sin dalla nascita, ad ascoltarla. E chi ci cresce con proposte musicali di merda lo fa perché, a sua volta, ha avuto approcci con la musica di merda sin da bambino dovuti ai gusti di merda di genitori e insegnanti. La teoria secondo cui la musica di merda sia di più facile ascolto e di assimilazione più immediata non regge. C’è moltissima musica di facile ascolto che non è assolutamente musica di merda, questo indipendentemente dai gusti. La gente ascolta Baby K o Alessandra Amoroso con i Boomdabash perché nessuno offre loro delle alternative da piccoli. La prova del nove è che se offri delle alternative è facile che i gusti delle persone siano più variegati, questo senza andare a scomodare i mostri sacri della musica classica e del rock ma solo limitandoci alla proposta musicale a noi contemporanea.

Il fatto è che a nove o dieci anni i bambini sono già talmente intrisi di musica di merda – e la trap vi assicuro che è il minore dei mali – che riuscire a penetrare il loro universo sonoro con qualcosa di qualità è impossibile. Un buon cavallo di troia è quello dei video. I più giovani, quelli che non usano ancora Spotify – che è la cosa più vicina alla collezione di dischi che avevamo noi ragazzi degli anni ottanta – ascoltano musica su Youtube, arrivando cioè alla dimensione dell’audio tramite quella del video. Ed è proprio questa una delle modalità di educazione all’ascolto che ho adottato alla primaria: cerco videoclip musicali con una trama, un inizio e una fine. Veri e propri film da tre o quattro minuti, e, con la scusa di farli riflettere sulle immagini, propongo ascolti un po’ diversi dal pop italo-caraibico e iramo-ultimistico che va per la maggiore.

Mi sono preparato una playlist di brani con video annesso che ormai posso considerare rodata e con la quale riesco a catturare – e mantenere, che poi è la cosa più complessa – l’attenzione dei bambini. Una lezione di musica da due ore circa che propongo alle classi più alte – quarte e quinte – e con la quale, ad oggi, riesco sempre a fare centro.

La premessa con cui introduco la lezione è che nei video delle canzoni in cima alle loro preferenze c’è gente che balla, che si struscia e che si adopera per sedurre l’ascoltatore, anzi, lo spettatore. Che va benissimo, ci mancherebbe. Ma esistono video diversi dal modello che va per la maggiore e che, a seguirli con la dovuta attenzione, sono storie a tutti gli effetti proprio come quelle che si guardano alla tv o al cinema.


Inizio con “Coffee and TV” dei Blur. I bambini cominciano a muoversi a ritmo appena parte la batteria e, quando si anima il cartoncino di latte con manine e piedini, scoppiano a ridere. Nell’era degli effetti specialissimi, una rudimentale animazione anni novanta strappa un sorriso. La storia raccontata nel video consente diversi spunti di discussione: come ci si sente a essere minuscoli – non solo per le dimensioni fisiche – in una grande città, perché un ragazzo sceglie di andare via di casa e far soffrire mamma e papà (con l’aggravante del comportamento finalizzato a voler fare il musicista), come identificare altruismo e indifferenza, l’amore a colpo di fulmine, la gioia di riabbracciare i propri cari dopo esser stati via per molto tempo, il fine ultimo della vita che è fare del bene e, portata a termine la propria missione, si può anche volare in cielo. Il brano, dal timbro smaccatamente indie-brit-rock, non sempre convince una generazione così conformista come quella dei millennials. Però, come dicevo, è un brano oggettivamente di qualità e ci sono bambini che – giuro – prendono il diario e si segnano il nome della band e il titolo (per farne cosa, non so).


Poi metto “Paradise” dei Coldplay, un po’ più alla loro portata. Ma la sicurezza del pop lascia subito spazio a quello che trasmettono le immagini. La voglia di tornare alle proprie radici, l’Europa e l’Africa, gli artisti di strada e i modi più estremi di guadagnarsi da vivere, fare l’autostop, ritrovare la famiglia o i propri simili perché è bello stare con chi fa le stesse cose che facciamo noi, nel caso del video rivedersi per suonare insieme per poi avere un successo mondiale e tornare, però, ancora a casa perché non c’è posto più bello. Un bel messaggio, no?


A quel punto porto al limite la loro disposizione all’ascolto al di fuori della confort zone proponendo “Just” dei Radiohead. Li preparo prima dicendo che è musica un po’ vecchia e che i tipi che stanno per vedere sono un po’ weirdo, però la storia merita e soprattutto è una sfida alla loro immaginazione per scoprire il motivo che spinge il protagonista a non volersi alzare dal marciapiede su cui è sdraiato e quale ragione adduce per convincere poi tutti gli altri. Dal confronto con i bambini vengono fuori le cose più strambe, ma provate a chiedere alla classe se a qualcuno è mai capitato di avere un punto di vista o una teoria così convincente da persuadere gli altri a comportarsi come farebbe lui. C’è un leader in classe? E perché gli altri lo percepiscono come tale? Tutto questo al netto della soddisfazione di avergli fatto ascoltare i Radiohead.


Stesso discorso con “Instant street” dei dEUS. Quando dalle bocche degli avventori della discoteca escono quelle bolle strane i bambini iniziano ad appassionarsi alla trama, e il finale con il balletto all’alba al cospetto delle forze dell’ordine e lungo la via li manda in sollucchero.


Chiudo la serie con l’immancabile “Happier” di Marshmello feat. Bastille. Il motivo? Dopo essermi così tanto allontanato dall’epoca che vivono, è bene atterrare alla fine del viaggio su un territorio più simile a quello in cui sono nati e cresciuti. Prima chiedo chi ha già visto il video perché è molto popolare tra i più giovani, e se qualcuno alza la mano li prego di non spoilerare con i compagni. Io cerco di non seguirlo alla LIM perché, ogni volta, mi mette in difficoltà. La storia la sapete tutti. Alla fine chiudo il browser e, quasi sempre, cala il silenzio. La percentuale di bambini in lacrime è sempre consistente. Alcuni si arrabbiano perché, secondo loro, un insegnante non dovrebbe far piangere i suoi studenti. Così piccoli, poi. Invece il bello è proprio quello: trovarsi una classe di ragazzini sbruffoni e smantellare la loro presunzione prepuberale orientata all’adolescenza facendoli scoprire il pianto come sfogo naturale e infantile a un disorientamento emotivo. Nel caso di “Happier”, quello del dolore. Risulta però fondamentale portarli a riflettere sul significato della storia raccontata nel video: vale la pena soffrire per la perdita di un cane solo per tutte le gioie che ci ha dato con la sua amicizia disinteressata, tanto che il padre, diventato nonno, fa ripetere l’esperienza della figlia, ora mamma, alla nipote. Il finale del video riconcilia con il mondo, è vero, ma lascia un po’ di amaro in bocca perché è la vita stessa ad essere così: molto bella ma anche un po’ meno bella, a volte, però vada come vada vale sempre la pena. Un valore che può essere applicato in ogni relazione e per ogni aspetto che la vita ci riserva. La fine delle cose, per quanto poco piacevole, non cancella tutto quello che accade in mezzo, a partire dall’inizio.

tecnologia indossabile

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Se volessimo introdurre un’analogia convincente tra dispositivi e capi d’abbigliamento potremmo tirare in ballo quelle maglie che vanno di moda da qualche anno principalmente tra i bambini. Si tratta di indumenti con disegni ricoperti di lamelle con i lati colorati diversamente che permettono di cambiare la resa dell’illustrazione passandovi la mano sopra. Quest’anno ne sconsigliamo l’utilizzo a scuola perché, prima del Covid e quando non c’era problema a tocchignarsi a vicenda, costituiva un divertimento tra i compagni curiosi di scoprire le due versioni o anche solo per abbandonarsi a qualche prima esplorazione dei corpi altrui. Oggi mettersi le mani addosso tra bambini, almeno a scuola, è vietatissimo, il motivo lo sappiamo tutti. Fatto sta che magliette e felpe di tale foggia sono diventate merce rara. Malgrado ciò, possiamo a tutti gli effetti ricondurre l’intento con cui sono stati ideati ai dispositivi touch.

Questo comunque non è niente in confronto al mio alunno cinese che si è presentato a scuola con un paio di Geox dotate di led posteriori su cui è possibile programmare la visualizzazione di un testo a piacimento. Intorno ai suoi piedi a comando scorreva il suo nome preceduto da un ingenuo augurio di buon compleanno in rosso su sfondo nero, se non ricordo male, nemmeno calzasse un gadget da posizionare su una Lancia Delta Integrale con l’obiettivo di renderla ancora più tamarra di quello che è. Se le avessi io scriverei insulti dedicati ai trend topic che la gente sui social esaspera e rende ricorsivi fino a farci impazzire, cose tipo “andate affanculo voi e Manuel Agnelli a torso nudo” o “mettetevi sta cazzo di mascherina e statevene a casa”, ma non ho idea del massimo di caratteri utilizzabili e se, soprattutto, sia possibile un livello così avanzato di customizzazione. Comunque le Geox con il led equivalgono ai totem per il Digital Signage, un fenomeno tecnologico che qualche anno fa sembrare costituire il futuro del marketing ma che, a dirla tutta, non ha mai interessato nessuno. Ma la vera evoluzione delle scarpe che si accendono sono quelle che si è fatto regalare il mio alunno rumeno per il suo compleanno. L’intera suola si accende di verde e di rosso – proprio nel senso di una di verde e una di rosso, non ricordo se la destra o la sinistra – con un bagliore che illuminerebbe completamente l’aula in caso di black out e che distrae anche gli studenti più diligenti.

L’indumento che però suscita maggiormente l’invidia di bambini e insegnanti (nella fattispecie io) è il maglione di lana a tema natalizio che mette ogni giorno la mia alunna egiziana. Il disegno della renna che ha sul petto è completato da un naso che, quando lo schiacci, suona “Jingle Bells”. Anche in questo caso il rischio pandemia frena i compagni più dispettosi dal premere il naso della renna per beneficiare a ripetizione del motivetto contestuale al momento dell’anno. La bambina però non presta sufficiente attenzione al posizionamento del pulsante sull’indumento e così, ogni volta che si appoggia al banco per scrivere o voltare pagina del libro, il tema di “Jingle Bells” (in quel timbro elettronico tipico dei gadget che sta alla musica come il linguaggio macchina sta all’html5) risuona nell’aula scatenando – ogni volta – la stupidera dei compagni. L’idea però di avere capi di abbigliamento che suonano mi ha conquistato moltissimo. Mi piacerebbe esser rivestito da tessuti che amplificano suoni, potentissime casse bluetooth dalla foggia di felpe o pantaloni. Ci pensate? Cammini e spari a tutto volume i tuoi pezzi preferiti sui passanti. Spero che la ricerca si concentri nel prossimo futuro su questo tipo di innovazione. Mi sembra davvero che ne valga la pena.

francobollo

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Il layout a mosaico di Google Meet anche in collegio docenti ordina impietosamente in righe e colonne fino a 49 partecipanti con un meccanismo volutamente casuale. Quando si supera abbondantemente il numero massimo consentito tutti i colleghi dal cinquantesimo in poi finiscono nel dimenticatoio – una specie di sottosopra dello schermo del pc – a meno che un rumore diffuso dal microfono lasciato inavvertitamente acceso durante l’ordine del giorno li riporti in primo piano e, di conseguenza, ai vertici della notorietà. Le campane della chiesa a fianco, un figlio che impreca in un inglese inventato giocando a Fortnite, l’effetto delle casse del pc riprese dal microfono e ritrasmesse nelle casse del pc e ri-riprese dal microfono e ri-ritrasmesse dal pc e ri-ri-riprese dal microfono in un loop di ritorni che, se la preside non chiudesse l’audio di chi ha scarsa dimestichezza con la tecnologia, andrebbe avanti in eterno.

L’unica certezza configurabile è il primo video a francobollo in alto sulla sinistra, quello in cui ci sono io. Un io che varia di partecipante in partecipante, sia chiaro. Sul mio schermo ci sono io, sullo schermo della collega che urla con la figlia perché usa il suo pc per le videolezioni e poi non ricollega le cuffie della mamma (perché la mamma non sa ricollegare le cuffie al pc) ci sarà la collega che urla con la figlia e così via. Ciascuno di noi ha un suo io la cui figurina viene incollata da Google Meet nel primo spazio in alto a sinistra, come il portiere di una qualunque squadra di calcio in un album digitale Panini.

Il fatto è che mi trovo a disagio a essere lì in bassa risoluzione e come capo cordata della riunione. Mi sento fuori luogo perché la telecamera del pc è una tacca sotto rispetto agli specchi del parrucchiere, quelli che per un effetto di luci studiato in qualche laboratorio della NASA ti fanno sentire una merda, da un punto di vista estetico. Ma forse il problema è solo mio perché io, a tutti gli effetti, sono una merda da un punto di vista estetico. Ecco. In video sembro peggio ma, soprattutto, sembro un vecchio di settant’anni. Ma forse il problema è solo mio perché io, a tutti gli effetti, sono un vecchio di settant’anni ma questa volta ho le prove che non è così. Ho un certificato di nascita.

E ho provato a indossare la camicia, perché il collo degli anziani spesso è cascante. E ho provato a radermi anche se mi faccio la barba tutte le mattine per non vedermi quei puntini grigi sulla faccia con la lampada del mio scrittoio sparata sulla faccia. E ho provato a tenere gli occhiali sulla fronte come gli architetti fighi e gli intellettuali un po’ vintage. Ma niente. Anche se sono quello che fa cose pazzesche sulle piattaforme digitali e sui dispositivi IT che nemmeno il prof più innovativo del mondo vedo dopo di me, nel layout a mosaico, tessere più giovani di me e più in linea con il nuovo millennio perché vestite e con tagli di capelli più in linea con il nuovo millennio. Ma a me la gente del novecento che si atteggia a duemila mi fa solo tristezza. Si vede che sono uno del novecento, lì nel primo riquadro.

Uno del novecento che schiuma di invidia per i trentenni con le loro dentature perfette e i toraci depilati e le creste con le righe rasate e le sopracciglia disegnate e i tatuaggi di ogni genere, su qualunque parte del corpo che flirtano tra di loro appena tornano nella parte alta della lotteria dei quarantanove francobolli. Anche se fanno gli insegnanti e, a tutta questa deriva, mi ci devo ancora abituare.

giùggol

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Oggi a scuola non mancava solo il bambino, quello nuovo, quello che la segreteria mi aveva detto avrebbe iniziato stamattina e che chissà da che istituto viene e perché si è trasferito proprio nella mia classe e se avrà già fatto la tabellina del quattro e che sono rimasto ad aspettarlo all’ingresso al freddo e al gelo solo con il maglione e la t-shirt sotto, tanto che la rappresentante dei genitori mi ha detto di indossare la giacca che alla classe servo sano.

Oggi a scuola mancava Google perché era giù, insieme a tutta la piattaforma di didattica a distanza. Dicono gli hacker russi. Dicono gli studenti della secondaria di primo grado del comprensivo in cui insegno io, quelli che sbagliano di proposito tante volte la password dell’account della prof di matematica così le si blocca l’accesso e per ventiquattr’ore niente lezione. Dicono gli emuli di quel gruppo trasversale di goliardi di un liceo di provincia negli anni 80, che telefonavano per dire che c’è una bomba e che al primo di aprile hanno cementato un water e un bidet davanti al cancello principale. Dicono un black-out alla primaria che ha messo fuori uso persino il sistema che apre il cancello elettrico – appunto – che ha bloccato tutti dentro e l’erre esse pippì, di indomite origini pugliesi, si è messo a smadonnare in dialetto tra lo sgomento dei genitori in attesa fuori. Se un virus biologico mette fuori uso la didattica in presenza, un virus informatico non può mandare in tilt la didattica digitale integrata. Poi Google è tornato con le sue mail, il suo archivio nel cloud infinito, la sua videoconferenza e gli scherzi che i ragazzi fanno ai professori. Non funziona il microfono, non la vedo, non va Internet, la-sen-to-a-scat-ti, la mail con il compito è tornata indietro con un messaggio di errore, la mail gliel’ho mandata ieri sera, non l’ha ricevuta?

Alcuni hanno però sperato che si spegnesse tutto, una volta per sempre, per una di quelle conclusioni drastiche che auspichiamo nelle serie tv che vanno tanto per le lunghe in cui, a un certo punto, non si capisce più niente. Bisognerebbe ripartire dal primo episodio, di questa scuola da remoto, e ripercorrere le trame che ci hanno condotto a relazioni a singhiozzo, a raccapriccianti metodi didattici, a sistemi di valutazione randomizzati. Quello che è certo è che il bambino, quello nuovo, quello che oggi avrebbe dovuto iniziare ma che invece ha preferito un sopralluogo da fuori per mano con la mamma, durante l’intervallo lungo quando i bambini sono in giardino con tre gradi perché è più salutare che stare seduti in classe, comincerà domani. Stamattina avevo persino scritto “Benvenuto Mattia” sulla lavagna, quella di ardesia, quella che si usa col gesso, quella sulla quale, se Google non funziona, i disegni delle cose che spieghi – per farle capire – li devi fare ricordandoli a memoria.

quando io ascoltavo gli Offlaga Disco Pax tu nemmeno ti facevi le pippe

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Uno dei principali meriti – uno dei tanti – che vanno ricondotti agli Offlaga Disco Pax è quello di aver finalmente spodestato il primato dell’ironia citazionista appartenuto a Elio e le storie tese fino alla consacrazione degli ODP a band italiana più importante degli ultimi vent’anni. Con l’extra bonus che i racconti musicati di Max Collini sono mille volte più intelligenti, meno volgari e più raffinati rispetto a “Servi della gleba” e compagnia bella, principalmente perché, a differenza degli elii, gli ODP sono tutt’altro fuorché un gruppo di musica demenziale. Anzi, per fornire delle coordinate, con gli Offlaga ci troviamo nella narrativa indie-intellettuale ma alla portata di ogni curioso che voglia esser introdotto a quel modo di interpretare la realtà lì. Racconti su misura per gente nata tra i sessanta e i settanta, cresciuta con la new wave e il PCI, in un’Italia in cui il modello emiliano trattino romagnolo era la best practice per la cosa pubblica, da seguire a ogni livello. L’immaginario rosso e militante raccontato nei tre dischi della band reggiana, l’epilogo di un momento storico in cui si è guardato continuamente alla fine del secolo scorso come punto massimo e irraggiungibile di sviluppo e civiltà, si è imposto prepotentemente nel lessico famigliare di noi ultra trattino cinquantenni, coetanei di Collini e stra trattino maledettamente felici di ritrovarci nei suoi pezzi. Come sappiamo, il cammino degli ODP è stato poi interrotto bruscamente dalla scomparsa di Enrico Fontanelli. Max Collini lo si può seguire nelle sue iniziative estemporanee e sui suoi profili social, nei quali ha attirato una bolla intorno a sé in cui il Pci continua a prendere il 74% e la Democrazia Cristiana il 6%. Qualche sera fa Collini ha dato il meglio di sé con la lettura e l’esegesi di “Romagna mia”. Io mi sono capottato dalle risate, e ho deciso di rimandare alla sua comparsata anche da qui, perché è imperdibile.