se fossi ricco pagherei un bambino stonato per cantarla così

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Una lettrice mi scrive “potete cambiare il modo in cui canta il bambino, non si può sentire!”, riferendosi al nuovo spot della Negroni. Il celebre jingle delle stelle che sono tante milioni di milioni è stato prima interpretato in chiave soul-acid-lounge-jazz o qualcosa del genere addirittura dalla cavernosa e alquanto sexy voce di Mario Biondi (ne ho scritto qui), quindi dalla raucedine senza speranza di Noemi (ne ho scritto invece qui).

Mi ero perso, perdonatemi, la versione “Descrizione di un attimo” con il timbro di Zampaglione, che potete vedere qui


perché mi sono purtroppo concentrato sull’ultimo spot, quello del bambino stonato, che fa tanta tenerezza ma anche accapponare la pelle, sentite qui:

Malgrado questo incidente di percorso, spero che la Negroni continui così e mi aspetto non certo Mina, tutta presa da ben altri budget e da storytelling di tutt’altro genere, ma Vasco Rossi, i Me contro te e – perché no – i Cure. Ve lo immaginate Robert Smith vestito di nero con il rossetto sbavato che estrae il culatello dalla vaschetta di plastica?

E infine, cara lettrice che mi scrivi se posso “cambiare il modo in cui canta il bambino, non si può sentire”, ti ringrazio per aver pensato che questo blog sia la stanza dei bottoni della pubblicità nazionale. Sappi che hai preso un granchio. Io conto meno che il due di coppe quando è briscola bastoni, anche se non so cosa voglia dire perché non gioco a carte e ho trovato il motto googlando sull’Internet.

a piccoli passi

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Il processo di emancipazione dalla famiglia che vede protagonisti gli adolescenti non sempre è privo di ostacoli. Mia figlia ha scelto un liceo inutilmente impegnativo che ha penalizzato pesantemente la sua vita sociale, limitando le frequentazioni ai componenti della sua classe, altrettanto poco disponibili a incontrarsi tra compagni per mancanza di tempo libero. La scuola che frequentano si trova a Milano centro e raccoglie un bacino di utenza distante da dove viviamo, questo complica ulteriormente le relazioni, carenza parzialmente sopperita dalla tecnologia. Come se non bastasse, ad aumentare ulteriormente le difficoltà di vedersi con gli amici ci si è messa la pandemia. Un insieme di condizioni che fa sì che mia figlia trascorra il suo tempo quasi costantemente chiusa in casa. Quando avevo sedici anni io in casa non ci stavo mai né ci volevo stare. Ora mi pento di aver sprecato tutto quel tempo insieme a una manica di cazzoni anziché godermi i miei genitori, ma ai tempi non avrei rinunciato alla mia vita privata per nulla al mondo. Rimanevo in casa il minimo indispensabile per studiare – e studiavo molto poco – e basta. La formula che mia figlia si è trovata a dover adottare per incontrare le sue amiche è stare via per due giorni, sempre che le scadenze scolastiche lo possano permettere. Dorme ospite di qualche amica e rientra la mattina successiva. Per riuscire a muoversi a Capodanno, tra zone rosse e coprifuoco, ha raggiunto in centro il 30 la compagna di classe con cui ha trascorso il veglione, per poi rientrare il 2. Mia moglie ed io viviamo queste sue assenze, poche ma più lunghe delle uscite standard impossibili al momento, come prove tecniche di quando non vivrà più con noi. Una condizione con cui dovremo fare i conti, quando sarà adulta o anche se solo sceglierà di proseguire gli studi lontano. Ci capita di scherzare sull’utilizzo che faremo della sua cameretta, ma il cinismo è inefficace contro la nostalgia proattiva. Meglio non pensarci e vivere le sue assenze temporanee come intermezzo da una presenza assidua nelle nostre vite. Vivere a così stretto contatto è stato l’unico aspetto positivo del lockdown, anche se si tratta di un approccio decisamente egoista e tutt’altro che efficace per affrontare al meglio quello che ci aspetta.

riproduzione

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La mia amica Patrizia ha pubblicato sulla sua pagina Facebook una foto natalizia di un angolo di casa sua. Nell’immagine si vede un piccolo albero con festoni, palline colorate e lucine accese. Il problema è che Patrizia ha posizionato l’albero sul coperchio del giradischi. Ho reagito commentandole che, se fosse successo qui da me, avrei già chiesto al mio avvocato di preparare i documenti per il divorzio. Qualche giorno prima riflettevo sulla stanza della musica del mio amico Nick. Nick colleziona compulsivamente musica e ha allestito una cameretta dedicata alla conservazione e all’ascolto, le cui pareti sono coperte interamente da scaffalature zeppe di cd e dischi. Massimo invece è la prova dell’evoluzione del modo in cui si ascolta musica in casa. Ha messo a punto un sistema di casse bluetooth distribuite tra i vani del suo appartamento, connesse alla stessa rete domestica e gestite tramite Alexa. Questo gli permette di fruire dell’infinito archivio di Spotify ovunque si trovi e, cosa non da poco, di muoversi da una stanza all’altra senza perdere una nota della playlist in programmazione.

Si tratta di tre visioni differenti, tre modi diversi di intendere la relazione degli esseri umani con la musica. Ci sono quelli per i quali si può rinunciare alla disponibilità di un giradischi perché non è così fondamentale, ai tempi dello streaming, e le canzoni preferite si possono ascoltare con svariati altri sistemi, e comunque se un riproduttore è momentaneamente indisponibile non importa: una canzone si può procrastinare senza problemi. Ci sono persone che hanno dovuto, per i più svariati motivi, occultare l’intero patrimonio discografico in un ambiente dedicato. Una nicchia per godere appieno di un nuovo album appena uscito o per rivivere l’appagamento dato dalle proprie band preferite, e talvolta un compromesso con il partner per il quale tutti quei supporti e l’impianto hi-fi non costituiscono un componente di arredo per i vani di rappresentanza. Altri, invece, vivono al passo con i tempi e sfruttano per intero i vantaggi della domotica. Ma, in questo caso, che ne è della stereofonia? I più moderni impianti a innumerevoli vie e pensati per l’home theatre dolby sorround come se la cavano con i canali left-right di un disco inciso prima dell’avvento dei CD?

La questione non è delle più semplici, anche se io ho la fortuna di vivere con persone che condividono la mia stessa passione. Mia moglie è sicuramente meno ossessionata di me, mia figlia invece accompagna ogni cosa che fa con la musica. Per me sarebbe impensabile una casa senza lo stereo al centro, ubicato nell’ambiente più vissuto. Una parte di un mobile-libreria della sala è occupata così da piatto, amplificatore e casse. Ho anche un lettore CD che da poco si è guastato ma vi assicuro che i cd ormai qui non li ascolta più nessuno, soppiantati in toto da un tablet collegato all’ampli e dedicato esclusivamente a Spotify. L’impianto è posizionato al centro della mia collezione di dischi, ordinati alfabeticamente e pronti per essere scelti e messi sul piatto. Mia figlia passa molto tempo nella sua cameretta, con le cuffie e Spotify. Nella stanza dove dormiamo non c’è nemmeno una radio, ma la zona notte è la meno frequentata. Sento la mancanza però di un riproduttore in bagno, quando faccio la doccia. Ho provato con lo smartphone connesso a una cassa ma, con il rumore dell’acqua, ci vuole ben altro. Nell’insieme, non abitando in un castello, non ci sono grossi problemi. Lo stereo, in sala, diffonde musica in tutto l’appartamento. Durante il lockdown ci siamo raccolti spesso intorno a questo focolaio sonoro, vi assicuro che è molto romantico e consente di fare un sacco di altre cose nel frattempo.

scherzi informatici

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“Che fai”? chiede Chandler.
“Lo sapevi?”, risponde Ross. “C’è un sito per ex studenti dell’università. È forte: puoi spedire messaggi alla gente, dire a tutti quello che stai facendo”.

L’episodio 17 della stagione 9 della serie “Friends”, dal titolo “Scherzi informatici”, è andato in onda a marzo 2003 e Facemash, il predecessore di Facebook sviluppato da Zuckerberg per gli studenti di Harvard, risale al 28 ottobre dello stesso anno. Chissà se la visione di quella puntata dell’inarrivabile sitcom americana è stata decisiva nella volontà di creare il più pervasivo e duraturo social network della storia. Ma se Zuck è stato ispirato da Ross e Chandler, spero sia stato altrettanto previdente nell’allestimento delle precauzioni di privacy e sicurezza degli utenti. Vi ricordate infatti come prosegue l’episodio?

“Bene, così tutti sapranno che sono disoccupato e che non ho figli”, ammette Chandler.
Ross però tira dritto. “Invece è interessante scoprire quello che fa la gente. Ti ricordi di Andrea Ritch?”
Chandler lo incalza: “Quella ragazza che ti aveva respinto?”
Ross annuisce con la testa e prosegue: “La società dove lavorava è fallita e ha perso un orecchio in un incidente di barca”.
La battuta di Chandler è assai cinica: “Ora ci starebbe”, ma mai come la risposta di Ross: “No, gliel’ho già chiesto”.

A quel punto l’attenzione si sposta sul social network. Chandler infatti legge sullo schermo come si è descritto Ross nel suo profilo. “Laureato in paleontologia, due figli, con Karol è finita perché avevamo interessi diversi. Credevo non avesse funzionato perché avevate un interesse in comune!”. Ross allora chiude il discorso: “Bene, lo completerò più tardi” e va a prepararsi per uscire con gli amici. Mentre Ross è in camera, Chandler e Joey architettano uno scherzo per Ross completando il suo profilo con informazioni inventate: “Ho clonato un dinosauro femmina nel mio laboratorio. Ora io e lei ci siamo fidanzati. Non mi importa quello che dice la gente, ma non ho mai fatto l’amore come con lei”.

Da quel momento ha inizio una gara di quello che oggi chiameremmo hackeraggio di un account personale e diffamazione in rete tra i due. Ross scrive sul profilo di Chandler che l’amico è gay. Addirittura dichiara di voler acquistare un “programma fotografico e tante riviste gay” per pubblicare fotomontaggi di Chandler.

Pensate quanto è cambiata la nostra sensibilità sulle tematiche relative all’omosessualità e sulla riservatezza delle informazioni su Internet. Oggi nessuno potrebbe permettersi di pensare che una trovata come un fotomontaggio altrui, diffuso su Facebook, non ferisca la sensibilità di chi vi è ritratto e che possa essere considerato uno scherzo, soprattutto se inerente l’orientamento sessuale. Chi controlla i contenuti su Facebook sarebbe il primo a impedirne la condivisione e, nel caso, si scatenerebbe giustamente un putiferio.

anima mia torna a casa tua

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Non sono il solo a sostenere che la pratica della multiproprietà degli immobili applicata agli esseri umani sia la soluzione. Ma ci pensate? Un solo corpo abitato da due anime, due coscienze, due volontà, due personalità, due entità preposte alle decisioni e no, non mi riferisco alla schizofrenia. Intanto ci annoieremmo di meno. Si estinguerebbero certe tecniche come le seghe mentali (che, in due, sarebbero considerate petting intellettuale a tutti gli effetti) o il solipsismo. Ci sarebbe maggiore possibilità di confronto e, di conseguenza, di fare la cosa giusta. Ci permetterebbe di non affrontare la morte da soli. Soprattutto, ci consentirebbe di vedere le cose sotto un punto di vista diverso, quello dell’altro se stesso.

Anzi, sapete che vi dico? La condivisione di un corpo tra due anime è la formula originaria che è stata pensata per l’uomo e che poi ci è stata sottratta e ora siamo vittime di un complotto affinché nessuno ne reclami il diritto, che ci mette ben più a rischio di quello ordito per i vaccini anti-covid. Qualcuno ha scoperto che, se l’essere umano provasse questo tipo di esperienza, non si accoppierebbe più perché si realizzerebbe in se stesso mettendo a repentaglio la conservazione della specie e forse è andata proprio come diceva quel filosofo, e cioè che una volta le anime gemelle erano tutt’uno e poi qualcuno le ha separate e, da allora, tutti cercano il coinquilino del proprio corpo ma non lo trovano, quindi si ostinano a flirtare e a trombare a destra e a manca fallendo l’unione originale e, per questo, siamo destinati a soffrire le pene d’amore e c’è il male nel mondo. Ma i poteri forti non ce lo dicono.

Una considerazione che si ripropone a valle della visione del cartone “Soul”, il nuovo successone della Pixar/Disney. C’è un momento chiave nel film in cui l’anima di Joe Gardner, insegnante di musica delle scuole medie e ispirato pianista jazz, anziché riunirsi correttamente al corpo da cui è stata accidentalmente separata si ritrova in quella di un gatto lasciando il suo posto di umano a 22, un’anima cinica da sempre abitante del limbo perché rea di non aver mai trovato una passione e, per questo, consapevole che la vita sulla Terra non abbia alcun senso.

L’esperienza di 22 nel corpo di Joe ha la duplice valenza di accendere nell’anima cinica l’amore per le piccole cose della vita e, allo stesso tempo, fornisce a Joe una visione da spettatore di come sarebbe se stesso con questa variante della sua personalità, che anni di estasi compositiva avevano sopito. Il punto è che poi, quando la trama trova la sua ricomposizione e Joe Gardner torna a essere posseduto dalla sua vera anima, il pianista si accorge che la sua passione – la musica – non basta a dare un senso alla vita ma ci vogliono tutte quelle piccole cose che ha lasciato la fugace esperienza di 22 nel suo corpo e di cui si riempie la nostra quotidianità.

“Soul” ha riacceso il dibattito sul target dei lungometraggi animati Pixar, e cioè che – come “Up” o “Inside Out” – siano pensati e destinati a un pubblico adulto. Non c’è dubbio che facciano riflettere su un piano di maturità superiore rispetto a quanto ne possa trarre un bambino da una visione entry-level, focalizzata sulle gag e sulla resa a cartoon della realtà.

In molti infatti sostengono che “Soul” consenta allo spettatore di trovare un nuovo senso alla vita, soprattutto in questo periodo di forti limitazioni al modo di condurla che conosciamo da sempre. Le aspettative di conseguenza sono altissime e, malgrado l’insuperabile qualità di confezionamento dei temi proposti, se di mestiere come me fate l’insegnante (con l’aggravante dell’ex musicista) il rischio di una delusione è concreto e vi spiego il perché.

Joe Gardner insegue per tutta la vita il sogno di esibirsi con jazzisti di alto livello. Per sbarcare il lunario fa l’insegnante e non lo fa in modo distratto come quei docenti che, seduti in cattedra, si chiedono a ogni inconveniente “che cosa ci faccio io qui?”. Si accorge persino del talento della sua allieva trombonista che si distingue dalla massa di coetanei, i compagni di classe per i quali la banda jazz che Gardner dirige costituisce solo un impedimento a quello che preferirebbero fare.

L’equivoco del film è proprio questo: sarà la vocazione didattica la scintilla che accenderà la nuova vita di Joe Gardner? Quando le cose si rimettono a posto e l’anima di Joe Gardner torna nei ranghi, il pianista riesce ad esibirsi in tempo con Dorothea Williams, la saxofonista che gli ha concesso l’opportunità di una vita. Ultimato il concerto, un vero e proprio successo grazie al quale Dorothea conferma l’ingaggio del pianista anche per le serate successive, Joe Gardner si accorge, e lo confessa, che non fosse quello l’obiettivo che stava perseguendo. Se qualcuno di voi fa il musicista sa bene di cosa parlo. Quante volte, a fine serata, ci siamo trovati da soli tra mille perplessità? Un’esperienza forte come un concerto, un sogno rimasto a fermentare e a lievitare per giorni nel brodo dell’entusiasmo dentro di noi, si esaurisce nel giro di una manciata di canzoni e ci lascia con quella nostalgia di qualcosa che, invece, continua a salire di una tacca ma che solo uno su mille – lo diceva anche un cantante che è stato proprio uno degli uno su mille – riesce a capire cos’è. E comunque un rapporto verosimile è più vicino a uno su centomila.

Joe Gardner mette a confronto questo ancestrale spleen con tutte le prime volte provate, nel suo corpo, da 22: una ciambella, il canto di un busker nella metro, i rimasugli di una bevanda gassata rinvenuta sotto un sedile, la pizza, il sole che filtra tra gli alberi di New York e un seme di acero che ti cade in mano mentre contempli la scena seduto al margine di uno di quei viali che fanno da sfondo ai film di Woody Allen. Così, chi per deformazione professionale auspica che Gardner trovi il senso della vita nello trasmettere la passione per il jazz – o per la musica tout court – negli altri (che poi è la mission dell’insegnante) rimane deluso. Dovevamo aspettarcelo: la scena della trombonista che cerca conferme con il suo insegnante – in quel momento posseduto dal cinismo di 22 – per non smettere di suonare è resa in modo sbrigativo e non ha alcun impatto sul resto della trama. Gli altri studenti – gli improbabili componenti della banda che Gardner dirige – hanno un ruolo meno che marginale.

Quindi, in poche parole, se il senso della vita non è suonare (e posso essere d’accordo) e non è nemmeno fare l’insegnante (qui un po’ meno), che cosa ci rimane? Una ciambella sbocconcellata e un seme di acero?

Così, ecco come invece avrei preferito che il film andasse. Joe Gardner realizza che l’orgasmo indotto dall’estasi improvvisativa degli standard jazz è una sensazione volatilissima. Il piano di intersezione tra il mondo reale e quello dell’astrazione dovuta a quello che suoni dura quel che dura e, come ogni altra droga, al risveglio lascia un vuoto. Crea una dipendenza. Così torna in classe dal suo talento al trombone che, a quel punto, costituisce la scintilla per tutti gli altri. La sua mission, la didattica, è soffiare sulla brace ancora accesa per incendiare di passione gli studenti svogliati, quelli a cui non interessa nulla di nulla, per non parlare dei ragazzi che poi si stufano perché non hanno stimoli e mollano tutto.

Il messaggio di “Soul” sarebbe azzeccatissimo se non ci fossero due temi così forti in ballo come il jazz e la scuola. Probabilmente se Joe Gardner fosse stato un piastrellista (premesso che ho molti amici piastrellisti) con la passione delle riprese con i droni (premesso che ho molti amici che si dilettano con i droni) il senso della vita nella ciambella e nel seme di acero sarebbe stato più che sufficiente. Così, invece, si fa un po’ di fatica a dare credibilità al film. Sempre che una favola debba avere per forza credibilità.

coi fiocchi

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Odio guidare con la neve. Patisco l’instabilità dei veicoli sulla strada, a partire da quello che odio guidare fino a quelli che precedono e seguono il mio, passando per quelli che procedono nell’altro senso. Sono proprietario di un’auto poco adatta alla neve, con le gomme lisce e senza le catene. Se anche me ne dotassi (sprovvisto sono a tutti gli effetti un fuorilegge) non saprei da dove cominciare per montarle. Mentre viaggio a velocità ridottissima guido nel terrore di perdere il controllo, di scivolare sull’asfalto innevato, di posizionarmi perpendicolarmente alle carreggiate e di non riuscire a spostarmi più da lì con tir e mega-suv che strombazzano perché ingombro il traffico e i loro proprietari che scendono dall’abitacolo per sollevare la mia auto con me dentro, a mani nude, per parcheggiarmi nella corsia di emergenza mentre tutti ridono. Un vero incubo. Una delle poche cose di cui sono fiero del mio Paese è che vivo in un Paese in cui nevica poco, almeno in teoria. Quando vado in montagna – rigorosamente in estate – penso che la montagna sia davvero bella, ma dentro di me so che il giudizio comprende il fatto che, a sera o il giorno dopo o di lì a poco, ritornerò a casa mia, in città, dove il rischio di neve è limitato. Il problema è che almeno tre o quattro giorni l’anno nevica anche a Milano, e in uno o due di questi tre o quattro la neve attacca un po’ e mi tocca affrontare il problema. Ci sono i veicoli spargisale e gli spazzaneve, ma l’hinterland non è l’Alto Adige e nessuno è sufficientemente reattivo. Questo per dire che ha nevicato e devo prendere la macchina. Odio guidare con la neve.

le canzoni di Natale

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Le festività natalizie sono quel periodo dell’anno in cui, Whamageddon a parte, sale la voglia più che mai di ascoltare della musica a tema. Il fatto è che le canzoni sul 25 dicembre non sono infinite. Anzi, la storia ci insegna che sono sempre le stesse (let it snow, let it snow, let it snow). C’è qualche artista che si lancia a comporre nuova musica ad hoc ma è tutto da vedere se, da quel momento in poi, avrà dignità di far parte della tradizione. Ci sono riusciti gli Wham, appunto, e pochi altri, ma per motivi che hanno ben poco da spartire con la religione cattolica. Quest’anno si è scomodato Robbie Williams, per dire, ma solo i posteri potranno testimoniare se l’ex Take That ha colto nel segno. La varietà delle playlist presenti in giro non riserva nessuna sorpresa. Se ne deduce che il Natale impone il rispetto di dogmi difficili da smantellare anche in ambito musicale, a meno che non si scelga volutamente di comportarsi da bastian contrari come quel mio amico che festeggia provocatoriamente con menu anti-clericali ed etnici in una sorta di dispetto al sentimento e al gusto della massa. Anch’io, nel corso della cena della vigilia, dopo qualche brindisi di troppo ho messo i Bauhaus, ma – come avrete inteso – non è questo il punto. Un approccio serio alla soluzione del problema mette in stretta correlazione consuetudini come candele accese, lucine intermittenti e tovaglioli con le renne con la musica classica. Risulta fondamentale, però, conoscere i grandi compositori del passato, e se pensate che questo articolo ora prosegua con una guida alle migliori cantate o messe per organo e corali vi consiglio di sintonizzarvi su una radio più competente o, comunque, cercare un blogger specializzato. Per una efficace colonna sonora di musica classica natalizia occorre infatti conoscere che cosa proporre ai propri commensali: il rischio che qualcosa vada storto non è così remoto. La selezione dev’essere nelle corde di chi l’ascolta. Anni di canzonette, purtroppo, hanno reso ancor più faticosa la musica cosiddetta colta e l’impegno richiesto – anche nel caso costituisca un mero background alla conversazione – può guastare l’atmosfera.

Il 2020 è stato però il 250esimo anniversario della nascita del più importante di tutti, Ludwig van Beethoven. Un evento passato in sordina (non è una battuta) (nemmeno questa) per l’emergenza sanitaria che ha piallato qualsiasi guizzo di vitalità dell’anno più nefasto dalla seconda guerra mondiale. Qualche giorno fa Rai5 ha trasmesso una maratona-Beethoven per un binge-listening delle nove sinfonie dirette da Claudio Abbado, una estenuante programmazione che mi ha reso felice. Ogni mattina di Natale ho infatti l’abitudine di aprire il cofanetto con la collezione in vinile delle sinfonie dirette da Von Karajan – era di mio papà – e riempire l’atmosfera di casa con quell’esplosivo concentrato di genio musicale. Non so se Beethoven sia natalizio, probabilmente no. Ascoltandolo, però, ho la sensazione di assistere al passaggio di un piccolo pezzo di storia proprio qui, attraverso questi luoghi domestici in cui si svolge una vita ordinaria con un tornado che spazza via la quotidianità grazie alla potenza di un impeto immortale. Forse alle canzoni di Natale si chiede altro. Si chiede di celebrare lo spirito. Con Beethoven è tutto il contrario, ma a me va bene così.

spotify

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Che non si possa più regalare dischi per Natale è un vero peccato. Far trovare un 33 giri sotto l’albero, un pacco dal volume e dalle dimensioni così facilmente prevedibili, resta il modo più personalizzato – eguagliato solo da un libro – di dire qualcosa proponendo al destinatario una parte di sé. Da quando la musica è interamente gratuita e disponibile in tempo reale ci affligge la percezione che sia stata depauperata della sua essenza artistica nonché depotenziata del piacere della sua scoperta. Per questo, scegliere un CD o un disco significa regalare solo un supporto o un involucro o, peggio, il materiale con cui è costruito, in poche parole una metonimia. Tanto vale adattarsi al mercato e dare in dono smartphone o altri elettrodomestici. Contenitori virtuali.

Così quest’anno, per Natale, mi sono regalato Spotify Premium. Lo aveva già in dotazione mia figlia dalla scorsa primavera e mi è bastato aggiungere qualche euro al mese per avere un account in più. Dopo la sbornia del peer to peer e dell’mp3, da quando ha ripreso ad essere prodotto sono tornato ad approvvigionarmi di musica prevalentemente comprando vinile quando disponibile a un prezzo accettabile. In realtà rientro nella categoria dei collezionisti e acquirenti ossessivo-compulsivi, profilo che spero di mantenere malgrado il passaggio alla piattaforma digitale. Utilizzavo già ampiamente Spotify ma nella versione gratuita, tollerando senza particolari fastidi le dovute interruzioni pubblicitarie ogni tot brani. Ho collegato un vecchio tablet all’impianto stereo e usavo la piattaforma di streaming nei casi in cui prevedevo di non aver voglia di correre a girare il disco sul lato B dopo pochi brani, che poi è la scocciatura su cui la civiltà musicale più pigra della storia risulta più intransigente. Poi è successo che anche su tablet, come già accadeva su smartphone, la versione free ha ridotto pesantemente le funzionalità. L’altra situazione tipo in cui ascolto musica in formato playlist è quando vado a correre. Ho una libreria da 64 gb di mp3 copiati su una schedina di memoria, un’enormità di canzoni per la gente normale ma che a me stava sempre più stretta.

Il passaggio a Spotify sta cambiando le mie abitudini? Avevo giurato che non avrei mai permesso ad un algoritmo di impormi una scaletta. Invece trovo in parte utili i consigli di ascolto correlati ai dischi e artisti che mi piacciono. Quando corro, malgrado il consumo dei dati (si lo so che potrei scaricare le canzoni direttamente da Spotify ma allora saremmo da capo), è impagabile il fatto di aggiungere in coda tutta la musica che mi viene in mente, per non parlare di interi album o compilation tematiche altrui, tenendo conto che posso skippare tutto quello che non ho voglia di sentire al momento. In casa, giradischi a parte, ho la musica diffusa in continuazione e con i dispositivi connessi al wifi domestico con lo stesso account posso scegliere gli ascolti dallo smartphone a distanza, mentre il tablet è amplificato dall’impianto. Inoltre mi risulta più facile reperire i dischi da recensire su Loudd, senza doverli scaricare con Soulseek o tramite i siti di file sharing. Mi sento anche più onesto, a dirla tutta, sperando che gli artisti e i compositori traggano profitto dalle mie scelte. Spero, comunque, di continuare ad acquistare dischi in vinile. Sarebbe un peccato perdere questa meravigliosa abitudine.

ultras

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L’amico Massimo è mancato qualche giorno fa a 52 anni per un bruttissimo male, a quanto ho saputo, ma l’evento è stato organizzato molto prima dalla locale squadra di pallanuoto in cui ha militato da giovanissimo, vincendo qualche scudetto in massima serie e ottenendo persino la convocazione in nazionale. Vista la crisi del settore sportivo dovuta al coronavirus, la federazione – in collaborazione con l’amministrazione comunale – ha messo in pista un trofeo a cui partecipano le sedici più importanti squadre nazionali, molte delle quali sono liguri tanto quanto la nostra. L’obiettivo è chiaro: riportare lo sport ai fasti degli anni ottanta, quando la compagine cittadina si giocava ogni anno i playoff per aggiudicarsi il titolo nel campionato di A1.

Il numero delle società in gara è facile desumerlo. Gli organizzatori hanno allestito una bellissima coreografia all’interno di una cornice quadrata divisa in sedici settori, quattro in orizzontale per quattro in verticale. Ogni parte è ulteriormente suddivisa in quattro quadrati, due sopra e due sotto, occupati a scacchiera da altrettanti palloncini colorati secondo i due colori sociali di ciascuna squadra – i nostri sono il bianco e il rosso – sulla cui superficie si può anche leggere il nome siglato della società.

I palloncini sono manovrati da giovanissime cheerleader acconciate con pettinature in voga all’epoca e vestite solo con costumi da bagno in tinta con i palloncini che reggono. Cantano una canzone da stadio che si poteva ascoltare tra gli ultras durante gli incontri e muovono a ritmo i palloncini creando un avvincente effetto ottico. Trovo anche molto riuscito il contrasto tra la musica che esce dall’impianto della piscina comunale all’aperto e il fatto che le ragazze si esibiscano senza microfono come se fossimo a teatro, una trovata filologica che mi spiego come un tentativo di ricordare a tutti un’epoca in cui non esisteva ancora Internet e vivevamo tutti disconnessi. Quando noto la portata dell’iniziativa penso che forse, in concomitanza con il decesso dell’ex campione, le prossime edizioni saranno dedicate interamente alla sua memoria.

Io partecipo tra gli spettatori grazie a un biglietto ridotto che mi ha procurato la donna che poi, nella realtà, diventerà mia moglie anche se è di Milano ma si sa, nei sogni non si va tanto per il sottile. Lei occupa un posto nelle tribune vip in quanto giornalista chiamata dalla testata in cui lavora – una specie di Vanity Fair ma di sinistra – a documentare il torneo. Mi sono piazzato nell’adiacente anello di gradinata, ubicato proprio sotto di lei. Prima del calcio di inizio – anche se lo so che non si gioca con i piedi ma si fa così per dire – fanno ingresso alcune personalità importanti del mondo dello spettacolo. Il primo si fa largo tra la folla ma di lui ricordo solo di conoscerlo bene di persona. Potrebbe trattarsi di Fabio Fazio. Penso che potrei darmi delle arie salutandolo ma lascio perdere. Subito dopo ecco i Ricchi e Poveri in grande spolvero avviarsi verso i loro posti riservati.

Mi sono messo accanto a due amiche, sedute poco più avanti. Con una so di avere buone possibilità ma ora è tutta presa dal fare delle foto ai giocatori al di là delle transenne con lo smartphone. Ho deciso di venire anche se a me lo sport in generale non mi interessa, ancor meno la pallanuoto. Il fatto è che i componenti della squadra, in una città di provincia come la nostra, sono – giustamente – delle vere e proprie celebrità e le ragazze la sera si muovono nei locali che sanno esser frequentati dai giocatori. Di conseguenza noi maschi facciamo altrettanto e cerchiamo di beneficiare di quella tecnica di conquista a strascico, come si dice, cercando cioè di pescare nel mucchio e, conseguentemente, prediligendo l’alta concentrazione di esemplari. Le due groupie con cui mi accompagno, in particolare, fanno le smorfiose con un giocatore straniero, dalla pelle scura, ben contento di trovarsi al centro dell’attenzione. Usano una di quelle app che permettono di posizionare effetti in tempo reale sulle immagini e si alternano nella realizzazione di selfie con il loro beniamino.

Riesco comunque a collocare cronologicamente il momento della mia vita in cui si svolge il tutto. Sono al quarto anno di università perché ho i capelli lunghi sulle spalle, e li ho ancora tutti, neri e a boccoli, nell’insieme ho un discreto appeal e riesco persino a gestire due e anche tre relazioni allo stesso tempo (ma non tutte insieme, eh). Le due supporter sono prese nei loro flirt da bordocampo ma comunque inizio a baciarmi con la giornalista nella tribuna distinti dietro. La mia futura moglie è giovane come me, anche se la sua versione ventenne la conosco solo dalle sue vecchie foto. Ha i capelli corti e mentre siamo abbracciati nei rispettivi settori degli spalti mi accarezza il torace. Terminano le partite e ci spostiamo a casa nostra, insieme a una cara amica di famiglia. Probabilmente ci siamo sposati nel frattempo e ci troviamo al corrente Natale. Ci sono degli avanzi nel frigo e mia moglie tenta di abbrustolire un mazzetto di radicchio rosso direttamente su un fornello, così le faccio notare che si brucia e che è meglio utilizzare la griglia smokeless che abbiamo preso con i punti dell’Esselunga.

al quinto posto

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La rivista “2000 People” mi ha collocato al quinto posto della Top 100 delle persone più gentili dell’anno, classifica che – ricordo – è stilata a livello mondiale. Mia moglie dice che per garantire il più ampio margine di manovra alle altre macchine, quando si trovano in difficoltà, a volte prendo dentro con le ruote gli spigoli dei marciapiedi, ma lo sostiene solo perché qualche anno fa è capitato a lei e ha forato, e comunque non credo che l’abbiano intervistata per calcolare il punteggio finale, si sarebbe dimostrata troppo di parte. Quindi grazie alla redazione della testata immaginaria che mi ha insignito di un premio così di valore e di una onorificenza così difficile da mantenere. Più che un riconoscimento è quindi una responsabilità che la lista che compone quella classifica si impegna a osservare con comportamenti adeguati anche lungo tutto l’anno prossimo. Che figura ci faremmo se, a dicembre 2021, ci scoprissimo in una posizione più bassa o, addirittura, fuori? Il buon, anzi, ottimo proposito quindi è migliorare per scalare la vetta. Confermare l’elevato tasso di accortezza nelle relazioni con il prossimo in casa e sul posto di lavoro in ogni gesto proprio come abbiamo fatto quest’anno, involontariamente e senza nemmeno sapere che esistesse una classifica di questo tipo. Se poi vi interessa provare di persona la mia gentilezza, siete i benvenuti. Buone feste a tutti.