Tangk ĆØ il nuovo disco degli Idles e, per me, il 2024 potrebbe anche chiudersi qui.
Tanto per cominciare, il remake del video di āYellowā dei Coldplay, realizzato grazie allāintelligenza artificiale per la clip di āGraceā, ĆØ forse, almeno ad oggi, lāapplicazione piĆ¹ pertinente e meglio riuscita della tecnologia deepfake. Un uso magistrale che si dovrebbe insegnare nelle scuole. Altro che capi di stato che dichiarano guerra ad altri capi di stato o personaggi famosi che straparlano a botte di corbellerie o tutte le altre stronzate che ci lasciano presagire che lāAI, dopo le tv Mediaset e i social, ĆØ lāinvenzione che darĆ il colpo di grazia alla nostra civiltĆ come lāabbiamo conosciuta.
Ma ĆØ tutta la storia a essere bellissima: Joe Talbot che scrive un pezzo che parla dāamore e si sogna proprio Chris Martin nel fiore dellāetĆ che, con la sua andatura dinoccolata sul bagnasciuga sotto la pioggia allāalba, intona tutto lo struggimento del suo omologo di ventiquattro anni dopo in sostituzione di quello (altrettanto melenso) della canzone originale di ventiquattro anni prima. E Chris Martin che, anzichĆ© sottrarsi al divertissement (o, peggio, andare per vie legali per questioni di copyright come unāisterica rockstar miliardaria qualunque, priva del senso dellāumorismo e dellāironia con cui lāoperazione ĆØ stata pensata) non solo concede il suo benestare per trasformare l’idea in realtĆ , ma contribuisce ad addestrare l’AI per rendere la sua performance vocale piĆ¹ realistica, in modo che il risultato balzi immediatamente ai vertici delle classifiche dei video musicali piĆ¹ iconici di tutti i tempi.
Non trovate tutto questo commovente? Il risultato ĆØ che āGraceā ĆØ una delle canzoni piĆ¹ significative della storia recente, un pezzo che potrebbe davvero stare nel repertorio dei Coldplay, perchĆ© no? La voce di Talbot ĆØ incredibilmente delicata e, con un arrangiamento piĆ¹ rassicurante, non sfigurerebbe nel repertorio di uno dei gruppi piĆ¹ famosi al mondo.
E poi cāĆØ la questione dellāamore. Sembra che nei quaranta e rotti minuti diĀ Tangk, Joe Talbot pronunci la parolaĀ loveĀ quasi trenta volte e dia sfogo, quasi senza soluzione di continuitĆ , a buoni sentimenti come laĀ freudenfreude, quello stato dāanimo da oratorio che consiste nel provare gioia per la gioia degli altri, o la gratitudine per ogni mattino che ci viene regalato. Tenete conto che il suo approccio al prosieguo diĀ CrawlerĀ ĆØ stato quello di rispondere a urgenze condivise, a partire dal mondo in caduta libera post-pandemia, e ad altre molto personali, e decisamente agli antipodi tra di loro, come il lutto e la passione.
Ma il britpop, le dita che si uniscono a forma di cuore e Hall&Oates non sono le sole cose che mai ti aspetteresti di trovare in un album degli Idles. Pensate alla melodia a bocca chiusa nel finale di āIdea 01ā, cosƬ spiazzante da sembrare un violino interpellato a chiudere una prima traccia praticamente perfetta, un incipit che chiunque, in futuro, gli invidierĆ , con quellāaccompagnamento di piano suonato dal chitarrista e co-produttore Mark Bowen (sporcato a opera dāarte) che accompagna una melodia straordinariamente premurosa, preludio allāamore nella dimensione paterna di āGift Horseā.
E pensate a āPop Pop Popā, con quella metrica da ninna nanna a cavallo tra la conta che fanno i bambini per designare sotto a chi tocca e alla trap. Ma anche il soul di “Roy”, con un Talbot in versione Otis Redding, lo stile piĆ¹ adatto per farsi perdonare dalla propria amata per certe cose dette la sera prima, e una band sotto che suona un punk-blues decisamente oltre ogni aspettativa. O ancora la voce sussurrata di āA Gospelā, coda naturale della traccia precedente, tutta pianoforte e archi. Per non parlare del modo di edulcorare il brutalismo degli esordi in āJungleā, vero capolavoro dal suono indefinibile, e del sax che si erge repentino dalle macerie negli ultimi istanti di āMonolithā, ancora un sorprendente blues scelto come improbabile chiusura di una tracklist in grado di lasciare di stucco anche gli animi piĆ¹ scettici.
Di certo mettono piĆ¹ a nostro agio le volte in cui la band manda affanculo tutto e tutti, re compreso, violenta gli strumenti con una distorsione disumana, percuote le pelli dei tamburi con la rabbia tipica dellāhardcore (āGratitudeā su tutti), urla tutto il suo disagio possibile e invita al pogo con il patrocinio e il bpm disco-punk degli LCD Soundsystem.
E sapete come andrĆ a finire, vero? AndrĆ a finire che, al cospetto di questo album monumentale, lāamore per gli Idles (e lāamore secondo gli Idles) ci dividerĆ di nuovo: apocalittici e integrati, o detrattori e entusiasti, insomma quella dicotomia lƬ. Il punto ĆØ che la band di Talbot ha bruciato le tappe. Cinque long playing in sette anni e ora si trova giĆ in quella fase di presunta morbidezza in cui cascano tutti, quella in cui gli snob dei āmi piacevano i primi due dischiā, i piĆ¹ pessimisti, gli intransigenti e i disillusi del bicchiere mezzo vuoto vedono solo compromessi e decadenza, mentre i piĆ¹ curiosi e intelligenti, chi, in genere, approccia lāarte come naturale evoluzione della multiforme indole umana, riconosce il vero genio.
Se state dallāaltra parte, quella che avrete capito essere opposta alla mia, quella sbagliata, insomma, vi lancio unāaltra provocazione: provate a fare sempre uguale la cosa che vi piace di piĆ¹ e poi ne parleremo quando, del vostro estro, rimarrĆ solo un mozzicone impossibile da impugnare. Per me, un disco comeĀ TangkĀ ĆØ uno di quelli che, tra trenta o quarant’anni, definiremo, anzi, definirete epocale, una delle opere piĆ¹ influenti della vostra vita, il punto di non ritorno per una band punk sempre meno post e ormai molto radicale nel suo non esserlo come gli Idles che,Ā sono sicuro di averlo scritto da qualche parteĀ eĀ di ripetermi, sta alla moda musicale del momento come i Killing Joke di āWardanceā stavano allāanalogo movimento nel primissimo scorcio degli anni Ottanta.
ConĀ TangkĀ gli Idles hanno ampiamente sconfinato nellāempireo degli artisti che fanno la differenza. Una scalata alla vetta giĆ avviata con il precedenteĀ CrawlerĀ (bello come solo sa essere unāopera di passaggio) che taglia definitivamente ogni legame con la genuina ferocia degli esordi e definisce al meglio un gruppo di musicisti che hanno tutto lo spazio e il tempo per esprimersi al massimo e in ogni forma.
La speranza ĆØ che gli Idles siano diventati sin nel midollo tutto questo: cattiveria sperimentale, impeto con il valore aumentato della ricercatezza, rabbia che tracima nellāavanguardia artistica grazie alle larghe intese con tutte le cose belle con cui vale la pena mescolarsi. Il risultato ĆØ una assoluta meraviglia, la piĆ¹ credibile colonna sonora degli anni venti, unāopera in cui la raffinatezza di cui ĆØ pervasa stride meravigliosamente con lāidea che abbiamo maturato degli Idles, in tutto questo tempo. Le loro pose truci, il look beffardo, il suono gratuitamente aggressivo, la mancanza di grazia compositiva e quel mix di cinismo e di noncuranza come conseguenza della sfacciataggine incosciente figlia dellāinsicurezza.
Sulla morale diĀ TangkĀ cāĆØ poco da dire. Come la favola di Esopo āIl Sole e il vento del Nordā, che ne ha ispirato la composizione, āNo god, no king, I said, love is the fingā, pronunciato cosƬ, con la F al posto della TH come fanno i veri gentleman, ci ricorda che la gentilezza e la cortesia vincono dove la forza e la spavalderia falliscono.Ā Un approccio che, nel punk rock, si mette in pratica con una produzione come quella di Nigel Godrich, il sesto Radiohead, per capirci. Di sicuro,Ā TangkĀ ĆØ un ellepi che nessuno dovrebbe assolutamente lasciarsi sfuggire, un album intriso di suoni e parole dāamore da urlare sgomenti, il piĆ¹ efficace deterrente al senso di vuoto invadente di questi tempi pessimi che, detto tra noi, ci sono ottime possibilitĆ che siano davvero gli ultimi.
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