la nota blu

Standard

Sono in supplenza in una terza liceo ed è molto strano perché faccio l’insegnante alla primaria. La richiesta di coprire una classe vuota per un imprevisto è stata repentina. Ero in segreteria a configurare il back-end del Registro Elettronico di Axios quando il collega di musica che ricopre il ruolo di vicepreside irrompe nell’ufficio e chiede la mia disponibilità, è una questione di emergenza. Io ho con me l’hard disk con le mie lezioni e penso che non ci sia così tanta differenza tra un bambino di dieci anni e un ragazzo di sedici quando gli parli di generi musicali e di arte come espressione degli stati d’animo dell’uomo. Mi precipito in classe, collego tutto quanto, saluto l’uditorio e comincio. Dopo qualche minuto mi accorgo però che una ragazzina dell’ultima fila sta smanettando con lo smartphone nemmeno troppo di nascosto. Le chiedo di consegnarmelo e, mentre mi avvicino al suo banco, si premura di chiudere tutte le app attive e di spegnerlo. Glielo requisisco, ma non faccio in tempo a voltarmi per tornare alla cattedra che noto un altro studente che fa la stessa cosa, nonostante abbia appena ripreso la sua compagna di classe. Una cosa che ricordo sempre ai miei alunni – nella realtà – è che se dico che un comportamento non va bene è una regola che vale per sempre e quindi non è che, passato un giorno, possono ripeterlo. Nel sogno così gli faccio una analoga paternale e gli ritiro il dispositivo. Ritorno al mio posto ma il ragazzo, malgrado abbia già sbagliato, persevera nell’errore. Ha gli occhi rivolti verso il basso e, appena mi metto in punta di piedi, non mi è difficile sorprenderlo con un nuovo telefonino in mano. Mi verrebbe voglia di dirgli “ma sei scemo?” come ogni tanto mi succede in classe, purtroppo però agli insegnanti non è consentito insultare gli alunni ed è un vero peccato. Mi piacerebbe, per esempio, dire almeno una volta a Mattia “o pezzo di cretino, la finisci di muoverti come un idiota?” quando non riesce più a stare fermo nel banco e a contenersi. Ma non si può, e me ne guardo bene. Comunque, per continuare il racconto, attraverso di nuovo la classe fino all’ultima fila e prendo lo smartphone di riserva al ragazzo, che però, come fanno i maghi con conigli dalla maniche, ne estrae un altro già acceso e pronto all’uso dal tascone sul davanti della felpa. Gli prendo anche quello e gli chiedo il diario, una bella nota non gliela toglie nessuno. “La prego, non la scriva”, mi implora a quel punto. “I miei genitori me la faranno sicuramente pagare”. Mi sento onnipotente e irremovibile come non mai. Mi siedo alla cattedra, mi igienizzo le mani anche se nel sogno nessuno indossa la mascherina (probabilmente si tratta di una bolla asettica), cerco la pagina del giorno di oggi e mi accingo a scrivere. Solo a quel punto mi accorgo che anni di scrittura al PC hanno rimosso la memoria muscolare e, con la penna in mano, non ho idea da dove iniziare per muoverla sul foglio. Mi ricordo che quando a scuola scrivo le comunicazioni ai genitori dei miei bambini uso le lettere maiuscole, in modo che non ci siano rischi di comprensione per il mio corsivo da medico. Ma non posso fare lo stesso in un liceo. Cosa penserebbero le famiglie? Alla fine dell’ora decido di non restituire gli smartphone requisiti. So già che i genitori andranno su tutte le furie e considereranno il gesto una sorta di furto. Una cosa è mettere nel cassetto un portachiavi di Guerre Stellari, un conto un iPhone da mille euro.

il breakfast club del weeknd

Standard

Negli anni ottanta i pezzi veloci si ballavano così. Grazie a Molly Ringwald per aver prestato i suoi passi di danza a una canzone del 2020 ma che potrebbe essere uscita quarant’anni fa. Una delle cose più belle viste sull’Internet ultimamente. Anch’io ballavo così. Ci ho provato ma non ho più il fisico.

ernia al disco

Standard

Vi ricordate, da ragazzi, quei fanatici dell’hi-fi domestico e delle autoradio che vi tiravano scemi sulle innumerevoli combinazioni dei componenti dello stereo per avere il suono perfetto? Ognuno professava una dottrina propria per la conformazione ideale dell’equipaggiamento ideale e delle relative marche per ascoltare nel modo più ottimale dischi, musicassette e poi cd, snocciolando dati e parametri incomprensibili (spesso non richiesti) indipendentemente dal target di riferimento, con massimo sbigottimento dei non addetti ai lavori, a dimostrazione che per ogni cosa c’è un mondo da scoprire e i nerd sono noiosi indipendentemente dalla disciplina in cui manifestano il loro disturbo ossessivo-compulsivo. Voglio dire, è un argomento che può anche appassionarmi ma se me lo presenti come un dogma per me il discorso è chiuso. Mi sono iscritto a un gruppo Facebook dedicato ai giradischi in cui ho rivissuto ciò che accade per qualunque altro settore della conoscenza umana, dove i social network hanno questo potere di Re Mida al contrario per cui ogni cosa che toccano si trasforma in noia. A me piace mettere i dischi quando sono a casa e basta, tutto qui. Ho un impianto dignitoso, mi sembra che si senta bene e non riesco a capire quali possano essere i margini di miglioramento con quella roba pazzesca che pubblicano i frequentatori di quella pagina. Ma, volendo spezzare una lancia a favore dei maniaci delle cose, la passione dei dischi in vinile – acquisto dopo acquisto – sta prendendo in me le sembianze di una fissazione a tutti gli effetti. Appena ho un momento libero corro a mettere un ellepì. Altre volte mi sorprendo a contemplare le centinaia di copertine impilate e penso a come potrei valorizzare la collezione, per esempio comprando un mobile su misura con gli scaffali delle dimensione giuste a contenere i trentatré giri. Ho maturato persino la convinzione che una civiltà che si rispetti dovrebbe impedire la progettazione e la vendita di soluzioni di contenimento e di arredo con form factor inadeguate all’archiviazione ottimizzata di dischi. Se volete altri segnali, ho acquistato un copia promozionale di un 45 giri di una band pop-new wave sconosciutissima italiana uscito nell’82 perché sento che mi abbia formato musicalmente. Poi torno a osservare la mia collezione e penso che non uscirei più di casa perché mi basta accendere lo stereo, mettere un disco e sono felice così.

che livello

Standard

Le nuove direttive ministeriali hanno trasformato per l’ennesima volta il criterio e i metodi di valutazione per la scuola primaria. Ad essere precisi, quest’anno – l’anno del Covid, delle mascherine e di tutte le limitazioni alle attività di classe a cui siamo soggetti – c’è stato un doppio cambiamento con triplo salto mortale carpiato e quadruplo avvitamento. Nel giro di un paio di mesi siamo passati prima dai voti ai giudizi (ottimo, distinto ecc…), e poi, ad anno scolastico inoltrato, dai giudizi ai livelli (avanzato – intermedio – base – in fase di acquisizione). In realtà c’è un misunderstanding di fondo. Nessuno ha ben chiaro se si debba attribuire un livello di competenza raggiunta in ciascuna materia o, addirittura, anche un livello conseguito per ogni obiettivo definito nella materia. Per capirci, se un docente in inglese debba attestare il livello avanzato di Anton Luca come espressione della media dei livelli raggiunti in comprensione, lettura, writing e speaking oppure se debba indicare il singolo livello di ciascuno dei componenti della disciplina. Il tutto articolato tenendo conto del grado di autonomia dell’alunno, della sua familiarità con le prove che si trova ad affrontare, delle risorse che è in grado di mobilitare per superarle e della continuità o la sporadicità nella manifestazione dell’apprendimento. In pratica, un vero e proprio report per ogni bambino che è sicuramente fantastico per fornire un approfondito identikit didattico alle famiglie. Il problema è se le famiglie siano dotate degli strumenti per comprenderne la portata e se, soprattutto, saranno in grado di superare le barriere pregiudiziali dovute al complesso del voto. Il livello intermedio corrisponde a 8 o 7?, si chiederanno e si risponderanno i genitori sui gruppi Whatsapp di classe. Purtroppo il passaggio non sarà rapido e indolore. Ci vorranno anni per abbattere nell’opinione comune la logica della valutazione numerica. D’altronde viviamo nell’era della semplificazione e della riduzione a parametro imposta dal primato dell’informatica e del digitale. L’introduzione di una maggiore complessità corre il rischio di allontanare ulteriormente la scuola da tutto il resto.

lassatievi

Standard

Se le più note composizioni per pianoforte di Satie risolvessero problemi di stitichezza a causa della loro inascoltabilità, il titolo di questo post sarebbe perfetto e spero abbiate colto il magistrale gioco di parole. Invece, da che mondo è mondo, le tre incantevoli “Gymnopédies”, rispettivamente n. 1 “Lent et douleureux” in Re maggiore, n. 2 “Lent et triste” in Do maggiore e n. 3 “Lent et grave” in La minore, sono usate in ambienti e contesti diversissimi tra di loro come musica da relax. La scuola italiana è piena di docenti che le mettono di sottofondo durante le ore di arte e immagine, mentre i bambini rovesciano bicchieri colmi d’acqua per pulire i pennelli sui banchi e in terra, nel bel mezzo di un disegno con le tempere o gli acquerelli. Oppure durante qualunque altra attività che necessiti di calma e concentrazione grazie a un approccio musicoterapico entry-level, da università della vita o, peggio, da gruppi Facebook di mamme scettiche sulla didattica tradizionale. Il fatto è che le tre incantevoli “Gymnopédies” – che adoro e che ogni volta che le ascolto mi viene da improvvisare un balletto da étoile del Balletto dell’Opera di Parigi – più che rilassare l’ascoltatore lo fanno addormentare. Anzi, faccio coming out: mi fanno crollare ovunque mi trovi. Sono la migliore ninna nanna sul mercato, altro che musica evocativa per artisti in erba. E finalmente ho trovato qualcuno che mi dà ragione: il nuovissimo spot di Sognid’oro Camomilla ha scelto proprio uno dei brani di Erik Satie come colonna sonora per il sonno a prima vista. Confermo. Mi bastano solo le prime note e improv

cosa si può fare e cosa no

Standard

Intanto è vietato stare qui davanti in più di due persone contemporaneamente. A parte che è pericoloso anche se leggete con la mascherina, ma correte il rischio di beccarvi una multa per assembramento. E poi come fate a capire cosa c’è scritto a più di un metro di distanza? Vi consiglio di farlo da casa, così evitate di uscire dal vostro comune di residenza e, considerate le temperature rigide del momento, vi mettete al riparo dai malanni di stagione e non rischiate di farvi scambiare per quei fanatici che non possono fare a meno di prendere il caffè al bar, avete presente? Stanno sotto i portici con la tazzina di plastica rovente in mano, in gruppetti da tre o quattro, a chiacchierare al freddo come degli Ernesto Calindri qualunque che stanziano al tavolino apparecchiato in mezzo alla strada a sorseggiarsi l’amaro e leggere il giornale, incuranti del traffico. Con tutto il rispetto per gli esercizi che dal primo lockdown non hanno più aperto, però il caffè è meglio farselo da sé. Si abbattono le possibilità di contagio, almeno nella zona rossa dell’Internet.

Sul fronte delle libertà di movimento, chi, come me, ha la fortuna di non potersi permettere una seconda casa in cui trascorrere weekend e ponti, non cade nemmeno nella tentazione di infrangere le regole imposte dai vari DPCM sugli spostamenti tra regioni diverse. Perché mai dovrei rinunciare a casa mia nei finesettimana per prendere la macchina e andare chissà dove? Non potrei fare a meno dei panorami che si godono qui dentro, a casa mia. Quando a mia moglie e a me capita di vedere, in un negozio, un suppellettile o un complemento d’arredo che ci piace ma che costa troppo diciamo sempre a voce alta che potremmo comprarlo per la nostra casa in Provenza o quella sulle Dolomiti o quella in Corsica. Avere più case è come avere più personalità, e la scienza ci conferma che costituisce un vero e proprio disturbo. E poi che palle, scusate, a vedere lo stesso posto ogni volta. Meglio variare con i libri, le serie tv, i film, i dischi.

E prima di cliccare sui pulsanti per andare all’articolo precedente e successivo ricordate di lavare sempre con cura le mani. So che molti di voi le hanno consumate, a furia di lubrificarle con il gel disinfettante. Non ci ricordiamo più come sia stare con le mani zozze e mettersi le dita nel naso. Di certo, se questa volta lo facciamo bene, potrebbe essere davvero l’ultima. L’ultimo sforzo, poi il vaccino e poi basta. Almeno proviamoci.

pizzini

Standard

Il MIUR dovrebbe mettere a disposizione di ogni insegnante di scuola primaria un magazzino o un deposito in cui conservare i bigliettini e i disegni con dedica che i bambini realizzano mossi da quell’affetto – inspiegabile – che provano per i loro maestri e dalla voglia di dargli forma attraverso la loro percezione della realtà. Ne parlavo oggi con una collega mentre, in aula caffè, entrambi svuotavamo le rispettive cartelle in cuoio scuro – un classico dell’estetica della didattica – di chili di foglietti impiastrati di svariate grammature e tagli, ricevuti in dono dai bambini nel corso dell’anno scolastico.

Il format più comune è quello dei retro di fotocopie sprecate in formato A4. Su un lato un ritratto astratto del maestro al fianco dell’autrice completato da una dedica sgrammaticata. Sei il maestro più bravo del mondo e ti voglio bene sono i grandi classici della messaggistica di classe, il tutto in un tripudio di cuoricini e di operazioni inventate, se insegnate matematica. Dall’altra, una verifica avanzata perché qualcuno quel giorno era assente o, peggio, qualche documento personale stampato inutilmente, portato da casa e messo a disposizione della classe. Io per esempio avevo riciclato diverse risme di fatture provenienti dall’ufficio di mia moglie. I bambini usavano la facciata libera per pasticciare nell’intervallo e molti di quei fogli poi sono stati riposti in cartelletta e portati a casa, con tutti i loro dati sensibili riportati in intestazioni e colonne di Excel in barba alla riservatezza dei dati. Ogni volta che un mio alunno si approvvigionava ripensavo ai miei genitori che avevano la fobia della documentazione domestica gettata integra nei contenitori della carta e si erano provvisti di un trita-fogli, come se la CIA non vedesse l’ora di spiare le bollette del gas o della luce nella spazzatura della gente comune. O, peggio, qualche vicino curioso. Ho però la certezza che nessun genitore dei miei alunni faccia, come secondo lavoro, l’agente segreto o il detective privato. C’è un carabiniere, ma non mi sembra proprio il tipo.

Comunque i disegni con dedica dei bambini mi permettono di avere il polso della classe e di verificare il mio grado di popolarità tra gli alunni. La mamma di Rebecca mi dice che sua figlia adora me e la mia collega di italiano e riporta come dogma tutto ciò che diciamo. Me ne accorgo perché sta diventando fanatica dello stare a scuola e il fatto che capita che ci chiami papà e mamma è il minore dei lapsus.

In genere cerco di non buttare via i biglietti dei bambini perché mi ritraggono sempre molto più giovane di quanto sono. Magrissimo, altissimo e bellissimo e soprattutto esasperano il mio ciuffo corredando la testa con capigliature degne dei Sigue Sigue Sputnik. Sotto Natale, poi, la produzione di foglietti aumenta esponenzialmente e ora ho uno scaffale dell’armadio dove conservo il materiale didattico pieno. Alissa, addirittura, ha creato un cuore con la plastilina, colorandolo e incidendo un’epigrafe d’amore con un punteruolo. Ci sono poi complicate architetture in carta e nastro adesivo create per far sì che il contenuto del messaggio resti ben nascosto all’interno. I bigliettini, a parte gli scherzi, riempiono di gioia perché quando sei adulto nessuno te li scrive più. Io insegno da poco e quindi, finché non è un problema, di gettarli non ci penso nemmeno.

blu da ba dee

Standard

Io sono un tipo blu. Per anni, da ragazzo, sono stato un tipo nero, tanto che adesso il nero non lo posso nemmeno più vedere. Figuriamoci a mettermelo addosso. Al massimo faccio il grigio ogni tanto, ma grigio elegante. Tweed. Vorrei tanto essere un tipo verde, ma l’ultima volta che l’ho fatto mi hanno preso per un pescatore. Oppure un tipo bordeaux o anche, perché no, un marrone perché il marrone è un colore molto rassicurante e avvolgente. Il color tabacco, pensate un po’. Il color tabacco. Mi faccio tentare ma poi alla fine torno a posizionarmi nel mio blu perché nel blu ci sto bene, e più è scuro e più sto meglio.

Mi spaventano i tipi arancioni, sempre gira-solari, per non parlare di quelli gialli. Giallo banana, giallo limone, giallo canarino. Ma dove pensano di essere? Nella giungla? In Amazzonia? In una foresta equatoriale? Al circo? Per non parlare di quel tipo bianco che son rimasto a osservare meravigliato per ore in discoteca, un’estate prima di tante estati fa. Aveva pantaloni bianchi, scarpe bianche, giacca bianca con sotto una maglietta bianca. Non era giovanissimo, era tutto pelato, ballava come Michael Jackson e spiccava per essere l’unico tutto vestito di bianco in una discoteca. Faceva così caldo che il sudore evaporava in fumi dalla sua testa lucida, ma lui continuava inarrestabile con i suoi passi da camminata sulla luna. Qui da noi, nell’Italia settentrionale, per fortuna è tutto blu. Blu scuro. Loden blu scuro, pantaloni di velluto blu scuro, maglioncino misto cashmere blu scuro, camicia blu scuro di cotone, quando fa un po’ più caldo.

E mi spiace perché non potrò mai essere un tipo rosso, anche se sono rosso molto, dentro, avete capito la metafora. Il rosso mi sbatte, fa pugni con la mia faccia specialmente se ho la barba incolta, e mi spiace perché il rosso fa molto intellettuale di sinistra, fa molto giovane della FGCI. Blu invece fa un po’ scout, cattocomunista, è da sempre indice di persona seria e io voglio esserlo e per questo mi atteggio a tipo blu.

Capita spesso che Jasmin, la mia alunna egiziana, mi chieda quale sia il mio colore preferito. Io rispondo blu, anzi blu scuro, con fermezza, e Jasmin torna al suo banco a ultimare il ritratto che mi sta dedicando. Afferra il pennarello blu più scuro che ha nell’astuccio e termina il disegno con cura. Poi me lo porta. Un maestro di fantasia ma tutto in blu. Lo sciocco in blu, come cantavano Cochi e Renato. O il blu-block, come mi chiamava Fulvio ai tempi del G8. Vestivo di blu anche allora. Vestivo di blu anche alle medie. Sono un tipo blu. Vorrei essere un tipo verde, un tipo rosso, ma non mi posso permettere altro che il blu.

quanto sei triste in una scala che va da uno alla stagione dieci di Friends

Standard

Qualche tempo fa Netflix ha diffuso la notizia che avrebbe cancellato “Friends” dal suo palinsesto. Apriti cielo. Il fatto è che, a partire più o meno dalla scorsa estate, ho ricominciato a rivederlo tutto. La tecnica è semplice: “Friends” è perfetto per stirare. Mi piazzo con l’asse e il Rowenta di fronte alla tele. Collego le cuffie perché con il rumore del vapore non riuscirei a seguire bene i dialoghi. Sintonizzo la tv su Netflix e avvio la riproduzione automatica. Con “Friends” riesco perfettamente a esaurire settimane di accumulo di indumenti, lenzuola, asciugamani e tovaglie senza accusare fatica, il tutto seguendo il mio programma preferito. Non riuscirei a farlo con nessun’altra serie, soprattutto con quelle più impegnative. Con “Friends” posso perdere anche qualche passaggio o qualche battuta senza compromettere l’esperienza di visione. Metto mano al telecomando solo per saltare la sigla: gli episodi non sono lunghi e – anche se divertente – la canzone dei Rembrandts (chissà quanto si sono arricchiti con i diritti di “I’ll be there for you” e se esisteva anche prima di essere scelta) alla lunga rompe i maroni. Ho letto quindi della volontà di Netflix di togliere la sitcom a metà dicembre. Non vi dico la corsa per arrivare sino alla fine e, soprattutto, la soddisfazione provata quando Netflix ha accolto le proteste della fanbase e ha cambiato idea. Sono riuscito ad arrivare così all’ultima puntata con maggior calma. Tenete conto che l’ho già vista tutta almeno tre o quattro volte, che in commercio ci sono fior di cofanetti di DVD con le stagioni al completo e che, nel dubbio, avevo scaricato la collezione completa grazie a Emule anni orsono. Il punto è che l’ultima stagione ha un mood molto diverso dalle altre. A partire dal primo episodio si percepisce già che tutto si sta muovendo in funzione di una chiusura senza ritorno. É meno spiritosa delle altre, come se la sceneggiatura volesse rispettare il lutto che si stava consumando. L’ultimo episodio, poi, visto a vent’anni di distanza, è struggente da togliere il fiato. Si chiude definitamente la porta dell’appartamento di Monica e Chandler, sulla giovinezza e sulla spensieratezza, e di tutti loro non se ne saprà più nulla. Almeno fino a quando riprenderò dalla prima stagione, sicuramente stirando, la prossima estate.

non è per sempre

Standard

Ho appena scoperto che il vaccino anti-covid ha una durata limitata e ci sono rimasto male. Per esempio, il vaccino Moderna dopo un anno perde il suo effetto. D’altronde, leggo su Facebook, anche il vaccino contro l’influenza bisogna farlo ogni inverno. Ma ero convinto che il motivo fosse riconducibile al fatto che ogni anno il ceppo dell’influenza è diverso. Però, in effetti, le varianti del coronavirus sono già in giro come quella inglese che, dice mio cognato, è pericolosa perché arriva già contromano. Io pensavo invece che, come le malattie esantematiche, una volta che le fai poi basta e quindi gli anticorpi che sviluppa il nostro organismo dopo il vaccino fossero per sempre. Eterni. Perpetui. Ma io sono una scarpa in scienze sin dalla seconda liceo, quindi me la merito tutta questa ignoranza. Quando ascolto mia figlia ripetere chimica o biologia penso che due coglioni e come è possibile che ci siano ragazzi che si appassionano alle materie scientifiche. Però, se fossimo tutti latinisti o esperti di new wave, nessuno penserebbe a scoprire vaccini e a salvarci la vita in situazioni come queste. Quindi, a chi sceglie la carriera in laboratorio, tanto di cappello. E, soprattutto, grazie.