googlarsi un po’

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Che cosa resterà di noi? Per ottenere un’anticipazione è sufficiente mettere il proprio nome e cognome tra virgolette nel campo della ricerca di Google, cliccare invio e vedere che succede. Nell’ordine: il profilo LinkedIn. La pagina Facebook. Una scheda-curriculum in una community di professionisti della comunicazione. La presenza come autore musicale su Discogs. Il profilo Instagram. L’ultimo articolo pubblicato sul sito di recensioni discografiche. Una seconda scheda-curriculum su un’altra community di professionisti della comunicazione. Il canale Youtube. I brani di propria composizione presenti su Spotify. La pagina Wikipedia di una band ormai fuori attività da vent’anni. Un omonimo nell’elenco degli arbitri della federazione italiana tiro con l’arco. Un’intervista condotta a un noto blogger pubblicata sul sito di un’azienda di comunicazione. Una notizia pubblicata sul sito di un istituto comprensivo scolastico. Un articolo pubblicato su “Automazione Oggi”. Una piattaforma di streaming audio su cui sono presenti alcuni brani di musica elettronica composti in passato. Una seconda piattaforma di streaming audio su cui sono presenti alcuni brani di musica elettronica composti in passato. Il cognome nell’enciclopedia dei nomi. La recensione di un disco di una band fuori attività da dieci anni su Ondarock. Un omonimo uruguaiano citato in un articolo di un quotidiano perché morto dopo aver chiesto di incontrare i campioni della sua squadra del cuore, il Penarol. Una terza piattaforma di streaming audio (cinese) su cui sono presenti alcuni brani di musica elettronica composti in passato. Un omonimo in una classifica di una gara ippica di salto a ostacoli (ottavo posto con tre punti). Il link a un commento positivo messo a un articolo piaciuto su una webzine musicale. Un vecchio bilancio aziendale di una nota società di fairtrade redatto da libero professionista. La pagina MySpace di una band ormai fuori attività da vent’anni. Il credit in un remix di un dj. La citazione di un omonimo chef tra il personale di un hotel di lusso. Un racconto pubblicato in una raccolta da un’edizione molto indipendente. Una recensione di un album scritta per una webzine che non esiste più. La partecipazione con tanto di foto (l’unico senza cravatta) alla premiazione di un evento business del settore ICT. Una recensione molto pretenziosa di un libro su IBS. Una petizione firmata nel 1999. L’inspiegabile rimando in qualità di friend alla pagina Facebook della primissima fidanzata dei quattordici anni (solo lei su più di ottocento contatti). Tutto questo per dire che di noi resterà un totale di sette pagine di risultati.

non dire gatto se non ce l’hai nel sacco

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Facile dire da cosa ci maschereremo quest’anno a Carnevale. Lo scorso anno, a febbraio, mentre a occidente giungevano gli echi delle prime avvisaglie di quello tsunami sanitario, economico e sociale che di lì a poco avrebbe rivoltato le nostre certezze come un calzino, a scuola ci immergevamo in uno dei consueti brainstorming autoreferenziali tra docenti di arte e immagine per inventarci un lavoretto originale dedicato alla festa che si approssimava. Una di quelle attività pratiche che si fanno eseguire in classe ai bambini a sancire la conclusione dei grandi cicli che si susseguono nel corso dell’anno scolastico: Natale, Carnevale, Pasqua e fine della scuola. Le vere quattro stagioni. Per portarli a termine in tempo, i cosiddetti lavoretti si avviano con lauto anticipo, non potendovi dedicare più di due ore a settimana. Nell’annus horribilis 2020, ai primi di febbraio, ci siamo lanciati invece in un complesso sistema di ideazione, sviluppo e assemblaggio di maschere di Carnevale di vario tipo.

Inutile ricordare come è finita. La settimana prima del Carnevale ambrosiano, quando nelle scuole del milanese si fa vacanza a partire dal giovedì, abbiamo chiuso tutto per la pandemia. Avremmo dovuto consegnare i prodotti finiti del lavoretto il mercoledì, ma il venerdì precedente ci siamo salutati l’ultima volta, senza sapere bene a cosa saremmo andati incontro. Le maschere costruite dai bambini sono rimaste sul davanzale delle finestre dove erano state raccolte per asciugarsi a dovere, sapete i chili di colla che consumano i vostri figli.

Ho rimesso piede in classe in pieno lockdown, sarà stata la seconda settimana di marzo, e le maschere erano ancora lì, coperte di polvere, a restituirci l’impressione che il genere umano si fosse estinto disintegrato da un invasore alieno, come quei film di fantascienza in cui si vedono quattro gatti sopravvissuti che poi, diciamocelo, a quel punto, se succedesse sul serio, è meglio morire tutti. Alla successiva procedura di sanificazione degli ambienti scolastici, i lavoretti dei bambini rimasti sono stati gettati nella spazzatura senza tanti complimenti.

Niente maschere di Carnevale per i bambini ma tante mascherine anti-Covid, questo sì. Ci sono piaciute così tanto che le portiamo ancora adesso. Non so voi ma io non le sopporto più. Mi fanno arrossare la pelle del collo e del mento e sono arrivato a un punto in cui sono sempre lì a tirarmela giù, tanto che ho chiesto ai miei alunni di avvisarmi quando lo faccio in classe perché sto spiegando matematica e mi manca il fiato. Quest’anno, così, la collega più creativa di arte ha proposto di far disegnare ai bambini una semplice maschera a forma di gatto. Niente elastico, che tanto c’è già quella chirurgica sotto. Un muso di felino in cartoncino su cui applicare strisce per i baffi e un cono incollato per il naso in 3D. Il tutto colorato e pinzato su un bastoncino realizzato con un foglio A4 arrotolato, da consegnare ai bambini appena pronto, anche a due settimane dal martedì grasso. L’obiettivo è farcela, quest’anno, a far arrivare il lavoretto di Carnevale alle famiglie. L’anticipo con cui siamo partiti è più che previdente, il lavoro è irrisorio, la resa assicurata. Un gatto di Carnevale. Speriamo porti bene.

Vertigo Days – The Notwist

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Una delle strisce dei Peanuts più amate dagli appassionati di musica indie è quella che ritrae Charlie Brown e Lucy seduti intorno a un giradischi in funzione, un modo di trascorrere il tempo in auge tra i ragazzi prima dei videogiochi e di Internet. «Questa canzone mi deprime sempre», esordisce Charlie Brown, contemplando sul piatto un vinile compiere alcuni dei suoi 33 giri (e un terzo) al minuto e sprigionare due crome del brano in ascolto. «Mi riporta alla mente ricordi tristi. Capisci cosa voglio dire?». Ora è Lucy, con espressione altrettanto malinconica, a osservare il mistero del disco che ruota e del braccio che, al termine del solco finale, va riportato in posizione di riposo, come se fosse la meccanica la vera depositaria del segreto in cui risiede la risposta che vorrebbe dare al suo amico, ma che non trova dentro di sé. Charlie Brown così si rivolge direttamente a lei, che ora tiene il disco in mano. «Non ho mai sentito una canzone che mi deprima come questa. Suonala di nuovo, vuoi?».

Non siamo in pochi a fantasticare che i due Peanuts siano stati ripresi da Charles M. Schulz durante uno degli innumerevoli ascolti di “Neon Golden” dei The Notwist. Non a caso i fratelli Acher sono campioni mondiali di musica felicemente deprimente proprio dal 2002, anno di uscita di quel disco, un primato che – tra il pubblico dei depressi compiaciuti – si contendono con i Radiohead. Un trofeo che ha un suo fondamento, considerando che, davvero, non si capisce che senso abbia ascoltare musica non deprimente.

Il fatto è che il suono di “Neon Golden” sembra essersi cristallizzato da allora, come se qualcuno avesse fermato l’orologio sull’ultima nota di “Consequence”, in una specie di incantesimo. Avete presente cosa combinano le fate nella “Bella addormentata nel bosco”? Il tempo riprenderà a scorrere solo quando i The Notwist pubblicheranno un secondo capitolo altrettanto significativo, e solo allora il genere umano potrà riprendere a muoversi e a guardare al futuro.

Peccato che la band tedesca non sia certo una di quelle che sforna un album a cadenze di brevi periodi. In poco meno di un ventennio hanno centellinato la loro produzione in appena un paio di lavori non altrettanto fortunati, ma vorrei vedere voi a mantenere la qualità di un capolavoro così ingombrante come “Neon Golden”. Troppe aspettative e, soprattutto, le cose nel frattempo sono cambiate. L’indietronica, così tanto di moda a cavallo tra i due secoli, ha lasciato il passo a suoni nuovi, più modernamente antichi, riducendo la gamma espressiva di una band così orientata all’auto-citazionismo.

Ma non è un problema. La storia ci insegna che è solo questione di aspettare il momento giusto. Nel 2021 la ruota dei corsi e ricorsi musicali si è fermata difatti a quel punto lì. È uscito “Vertigo Days” ed è di nuovo il 2002. L’incantesimo si è spezzato. Possiamo sederci intorno al giradischi e assumere ancora l’espressione malinconica di Lucy e Charlie Brown, al cospetto del nuovo e felicemente deprimente album dei The Notwist.

Vi consiglio però sedie comode, considerando che ci gravano vent’anni in più sul groppone e che “Vertigo Days” è un disco da ascoltare senza soluzione di continuità. Le tracce confluiscono l’una nell’altra, un fattore che penalizza qualunque versione streaming. I versi delle canzoni cercano di catturare il periodo storico in cui è stato concepito, con tutte le sue stranezze che, come dice il titolo dell’album, fanno girare la testa. “L’impossibile può accadere in qualsiasi momento”, annuncia la band tedesca nel comunicato stampa che accompagna la pubblicazione dell’LP, quando sostiene che rimanere seduti nell’incertezza è coraggioso. Proprio come i due Peanuts intorno al giradischi e allo spleen che scaturisce dal nuovo disco e pervade l’ascoltatore, facendolo sentire vivo. Missione compiuta, quindi. “Vertigo Days” è un album traboccante di vita, di entusiasmo e di amore per la musica e per chi ne affronterà le tracce con gli occhi spalancati e sognanti.

E ci sono svariati motivi per fare di “Vertigo Days” l’ascolto ossessivo compulsivo che merita. Almeno uno per ogni titolo. “Al Norte” è un’intro che arriva diretta dagli albori della retromania, quando – al tempo dei CD – imperava il vezzo di stendere, sotto le canzoni, un tappeto di rumori campionati con l’effetto puntina su vinile, una trovata anacronistica oggi perché in grado di mandare in crisi i nuovi cultori della riproduzione analogica.

Ma bastano i suoni di elettronica elementare di “Into love/stars” e la stessa semplicità del cantato, che è lo stesso di ”One Step Inside Doesn’t Mean You Understand”, a rassicurarci sul fatto che sono davvero tornati gli stessi The Notwist con cui ci siamo crogiolati allora. Due pezzi in uno, considerando la drum machine giocattolo uno spartiacque che emerge a metà brano e che si porta via il resto, fino alla fine, fino a fondersi con il brano dopo. “Exit Strategy To Myself” ci tiene quindi in pugno con il suo andamento veloce, retto dalla chitarra, in uno di quei crescendo che non esplodono mai, nemmeno quando entra l’organo distorto come anteprima stoner dello sconclusionato epilogo noise.

Con “Where You Find” e “Ship” si volta pagina. Due tracce ma quasi la stessa canzone, prima in versione ruvida e poi levigata, l’una la cover simmetrica dell’altra, almeno sotto il profilo timbrico. Solo la presenza della cantante giapponese Saya le rende distinguibili. La coda di synth ci trascina all’intro di chitarra e piano di “Loose Ends”, forse l’episodio più toccante del disco, anche solo per la vetta di bellezza del riff di chitarra che completa il brano fino alla conclusione.

La jazzista americana Angel Bat Dawid è l’ospite di “Into The Ice Age”, con il suo apporto al clarinetto a ricamare l’ossessivo loop di chitarra ripetuto sino al capovolgimento di fronte, quando un’atmosfera dilatata e completamente priva di ritmo inghiotte gli ultimi strumenti rimasti. La successiva “Oh Sweet Fire” ha una matrice psichedelica e si lascia trascinare nella sua colta sgangheratezza dalla voce del polistrumentista americano Ben LaMar Gay, altro ospite in quota dub e jazz. E dopo l’interludio strumentale “Ghost” e le sue reminiscenze alla Steve Reich, “Sans Soleil” e “Night’s Too Dark” arricchiscono l’album con le strutture compositive più rassicuranti e comuni della canzone indie-acustica tipica delle trame di “Neon Golden”. In “Al Sur”, agli antipodi di “Al Norte”, è la cantautrice argentina Juana Molina a prestare la sua voce alla movimentata sequenza ritmica breakbeat, disturbata e asciugata secondo i canoni del krautrock elettronico. E così si interrompe la lunga suite di “Vertigo Days”. La coda di “Into Love Again” è infatti il rimando conclusivo al genere che i The Notwist hanno inventato vent’anni fa, con il cantato volutamente disinteressato al contesto sugli incroci di pattern reiterati di suoni folk e lo-fi.

Il disco finisce e, al risveglio dalla trance, ci si scopre letteralmente appagati. “Vertigo Days” risulta così l’inizio di un nuovo corso in cui, come per “Neon Golden”, si renderanno necessari almeno vent’anni per costruire un mito, comprenderne l’essenza per poi dimenticarcene distratti dai generi derivativi che nasceranno nei tempi a venire, e per riappropriarcene poi alla fine, lungo una traiettoria ciclica che ci riporterà ancora al punto di partenza, ad ascoltare musica deprimente per sentirci sempre meglio.

prole

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Vivere in una bolla composta da gente che va dagli otto ai sei anni pone l’insegnante di scuola primaria in un mondo delle idee così confortevole e distante dalla realtà reale che poi non si ha più voglia di tornare indietro. Crisi di governo ed emergenza sanitaria passano in secondo piano rispetto alla verifiche parallele di fine quadrimestre. Passo così tanto tempo con dei bambini – e sempre con gli stessi – che mi viene da fantasticare sul fatto che siano tutti figli miei. Questo è un problema, se considero che ho già fatto fatica a educarne una (che poi è tutto da vedere se ci sia riuscito) figuriamoci diciannove. Quest’anno si è aggiunto alla mia prole uno nuovo, proveniente da un’altra scuola dove ha avuto altri insegnanti meno ingombranti di me e infatti si vede la differenza, quello che si dice figli e figliastri. Interviene in modo inopportuno e poi non si capisce niente di quello che dice, e la mascherina è l’ultimo dei problemi. Gli chiedo di parlare lentamente e di scandire bene parola per parola. Lui allora se la abbassa e ripete la cosa che nessuno ha afferrato – ho già appurato che non si tratti di un problema legato al fatto che sono vecchio e sordo come una campana – enfatizzando i movimenti della mandibola e a un volume più che accettabile. Così, per gratificarlo, gli dico che dovrebbe sempre parlare sempre in quel modo, anche quando deve dire delle cose che lo rendono inviso ai suoi nuovi compagni. Io sono un genio, sono il più intelligente, sono il più coraggioso. Non so da dove gli vengano e cosa spinga un bambino alla presunzione, per di più fuori luogo. Per fortuna sono ancora piccoli e gli altri non ci fanno caso più di tanto. Se la cava piuttosto bene ma non è raro che prenda certe cantonate che mi verrebbe voglia di ricordargli, prima di vantarsi, di controllare i voti sul registro elettronico. E anche in classe capita che qualcuno abbia problemi di salute. È da prima delle vacanze di Natale che J. entra ed esce dall’ospedale per un problema che coinvolge fegato e reni. Ha sintomi che manderebbero nel panico qualunque genitore. Si gonfia e le sale la pressione e quando la mamma me li descrive su Whatsapp – meglio così perché non parla benissimo l’italiano – non riesco a mantenere la calma e penso che, se davvero fosse in parte mia figlia come ho scritto prima, dovrei essere in grado di risolvere la questione come fa un padre spirituale che si rispetti. Mentre i compagni lavorano in silenzio osservo il suo banco vuoto e cerco una risposta al dubbio di saper davvero fare questo mestiere. È giusto farsi coinvolgere? Poi succede però che le cose vanno per il verso giusto. Mi ha mandato un vocale con la sua vocina sofferente per avvisarmi che è tornata a casa e che, in settimana, riprenderà a frequentare. Le cose tornano a scorrere per il verso in cui devono scorrere, il pericolo è rimandato al secondo quadrimestre.

per un pelo

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Non è l’aver messo sul piatto di sera un disco di jazz molto mainstream dono del mio insegnante di piano quando avevo undici o dodici anni e, appunto, studiavo pianoforte, a farmi sentire vecchio. Bensì il fatto che il mio parrucchiere Vincenzo, giovanissimo, è già la seconda volta che, tagliati i capelli, mi chiede se voglio accorciare le sopracciglia. E io gli dico di sì. La sensazione è bellissima. Non ho vergogna a dichiarare che, con le pinzette, mi strappo via quelle grigie e quelle che impazziscono e crescono a dismisura, non so se capita anche a voi. Ma non è tutto. Ieri mattina ho notato un ciuffetto di tre o quattro peli smisurati e insolenti sulla spalla destra. Dev’essere il primo segnale di quando è troppo tardi.

ricorso

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Scopro solo ora, a distanza di dieci anni, che qualcuno ha insegnato a mia figlia ai tempi della scuola primaria “Strada facendo” di Claudio Baglioni come canzone per uno spettacolo, con tanto di balletto. Probabilmente un’insegnante di religione. E proprio stamattina Marco si è presentato in classe con una felpa tutta colorata di fiamme. Si è avvicinato alla cattedra tutto orgoglioso e ha messo l’indice della mano destra a fianco del logo disegnato come uno scudetto all’altezza del petto. “Maestro, la conosci questa canzone?”. Ho inforcato gli occhiali e sono andato a vedere. Era l’inconfondibile marchio degli AC/DC, il che spiegava il fuoco infernale stampato sull’indumento. “Non è una canzone”, gli ho risposto. “Gli AC/DC sono una band di hard rock”. Mi sono pentito immediatamente di aver fatto il puntacazzista, ma non riesco a fingere di fronte alle cose serie. “Conosci qualche canzone?”, mi ha chiesto, tutto affatto che turbato della cantonata che aveva preso. Allora ho pensato che possono andare affanculo quelli che insegnano le canzoni di Baglioni ai bambini. E ho messo questa.

ghost

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Una volta ho scritto la prefazione di libro per un mio cliente, nel senso che poi la prefazione è stata pubblicata a nome dall’Amministratore Delegato dell’azienda che mi aveva commissionato il pezzo. Credo che l’attività rientri in quello che si chiama ghostwriting e che è la tipologia di lavoro di scrittura dietro le quinte in cui ci metti la testa e un po’ di cuore ma non di certo la faccia. La vera leadership, altro che posizione da gregario.

autorevolezza

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Fare l’insegnante è un mestiere in grado di accrescere l’autostima perché, quando lo fai bene, c’è il rischio che la gente che ti ascolta alla fine ti dia retta. Così, se nel mondo degli adulti vi scontrate spesso con le difficoltà di dimostrare che le vostre proposte sono le più adatte per risolvere un determinato problema e così, per evitare discussioni o semplicemente perché giungete alla consapevolezza che non ne valga la pena, non esitate a desistere, dare consigli e risposte a una classe di bambini può fare al caso vostro. E più sono piccoli e maggiori sono le soddisfazioni che, da questo punto di vista, ricaverete. La vita con gli studenti è il principale serbatoio di libidine professionale esistente in natura e vale anche nell’ambiente scolastico stesso. Dopo ore di sterili confronti con i colleghi, infatti, l’amarezza del livello di dibattito risulterà sicuramente più sostenibile se vi affretterete a ricordare che il mattino dopo, mascherine o meno, rimetterete piede nell’aula e vostri bambini saranno lì seduti ad aspettarvi, con la penna in mano e il quaderno aperto sulla prima pagina vuota disponibile, pronti a scrivere quello che gli detterete voi.

brucia ancora

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Se c’è una prima volta per ogni cosa, mi chiedo chissà che effetto faccia ascoltare per la prima volta “Shine On You Crazy Diamond”. Interpretate questa domanda come preferite: chissà come un orecchio umano ancora vergine ai Pink Floyd possa reagire alla prima traccia del lato A di “Wish You Were Here”, sempre che ci siano persone al mondo che non conoscano ancora i successi della band di Gilmour e soci. Oppure chissà come il pubblico di oggi, con l’estetica musicale a forma di trap e di pop, può reagire al blues psichedelico. O anche chissà se gli ascoltatori educati alla dinamica delle composizioni in auge, tutte intrise di stop and go mozzafiato, bassi da infarto ed emozioni forti connesse, sono in grado di apprezzare un espediente come il fill in crescendo con cui esordisce la batteria nella canzone in questione. O, infine, se gente irreggimentata dalla fretta della comunicazione in tempo reale e dai ritmi imposti dai radio e video edit ha la pazienza di seguire il compimento di una suite musicale sino alla fine, lungo tutti i 13 minuti e 31 secondi solo della prima parte. Mi piacciono tutte, queste domande, e le trovo plausibili. Io però intendevo un’altra cosa, e cioè che è un peccato avere già ascoltato “Shine On You Crazy Diamond” migliaia di volte dal 75 ad oggi, perché sarebbe bello invece non averla mai ascoltata per ascoltarla sempre la prima volta e provarne la bellezza per la prima volta. Tornerei indietro nel tempo solo per ascoltare “Shine On You Crazy Diamond” per la prima volta, appena uscita, in un tempo in cui non l’ho mai ascoltata, magari in quell’anno lì in cui è stato pubblicata, per scoprire davvero che effetto fa, la prima volta.

lipu

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I gabbiani fanno paura, a vederli da vicino, e se li sorprendi a sbranare la carcassa di un piccione ti chiedi che bisogno ci sia di associarli a scenari da sogno. Il mare, i pescherecci al largo, il bar sul porticciolo e il Pastis che ti stordisce prima di cena, malgrado le arachidi e le patatine. Quando mettono su famiglia e hai la sfortuna di vivere in un appartamento al piano alto non passa notte che non ti facciano chiudere occhio, con le loro scuole di volo e i loro rumorosi battibecchi tra esemplari adulti che insegnano e gabbiani pulcini che si esercitano. L’equivalente lontano dal mare sono le cornacchie, che basta un velo di nebbia a trasformare tutto in Transilvania anche se Maps sul telefono ti avvisa di svoltare all’uscita per Cinisello Balsamo. Cerco di tenermi buona una delle specie di esseri viventi che mi fa più ribrezzo – quella dei volatili – spargendo copiose quantità di briciole sul balcone per la gioia di merli e pettirossi. E se transita qualcosa di più grosso te ne accorgi dalle dimensioni delle feci e ti riprometti di non aiutarli più. Il fatto è che i libri per bambini sono pieni di storielle di uccellini provati dal freddo che si posano di davanzale in davanzale alla ricerca di qualcosa di commestibile. Così, il giorno dopo, mi sento in colpa e mi ritrovo nuovamente a scuotere la tovaglia fuori, inventando versi di richiamo per specie animali inesistenti. Ieri mattina però c’era un pennuto stranissimo che camminava per la via dietro casa mia. Pioveva e quella specie di gallinella tutta bianca con il becco arancione non ne voleva sapere di alzarsi in volo. Sono giunto alla conclusione che si trattasse di un esemplare appena nato di qualche grande uccello di quelli che, quando ne vedi uno fuori contesto, devi avvisare la protezione animali o chi di competenza. Dopo una manciata di secondi è sopraggiunta un’auto che lo ha mancato per un soffio. A pochi centimetri dall’impatto l’uccello ha spiegato le ali e si è spostato volando a lato di qualche metro. Poi ha ripreso la sua goffa camminata da pinguino, ha raggiunto un piccolo parcheggio e si è nascosto sotto una macchina, come un gatto randagio qualsiasi. Ho provato a chiamare i rinforzi ma non ha risposto nessuno, e quando sono tornato per controllare la situazione il volatile si era volatilizzato. Non è trascorsa nemmeno un’ora che sul gruppo Facebook del paesello ne han dato notizia. C’è una minuscola comunità di aironi bianchi in un parco a poche centinaia di metri da casa mia. Probabilmente uno dei rampolli sta esplorando il territorio. Qualcuno gli dica di stare più attento.