terapia

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Avete presente quella sensazione di angoscia che ci prende la domenica sera per tornare al lavoro il lunedì mattina? Io l’ho vissuta per vent’anni perché, fondamentalmente, facevo un lavoro che mi appassionava poco. Ora che sono un insegnante di scuola primaria le cose sono cambiate. Non tanto perché quello del maestro sia un mestiere appagante (e lo è, ve lo assicuro) ma perché quando la domenica sera mi prende l’angoscia di smontare la dimensione domestica del weekend per riallestire la mia credibilità professionale e il mio ruolo nel sistema economico-produttivo mondiale per il giorno dopo, penso che alle otto e trenta sarò circondato da diciannove bambini di sette/otto anni. Niente colleghe che si scaccolano nella scrivania accanto, nessun datore di lavoro isterico, nessun client di posta elettronica che ci mette un quarto d’ora a caricarsi e renderti operativo, nessun cliente che chiama al telefono per qualche attività da consegnare entro sera, niente preventivi o fatture che nessuno vuole pagare. Lo abbiamo detto più volte: lavorare con gli adulti è una merda, lavorare con i bambini è altrettanto faticoso ma si tratta di bambini e, per certi aspetti, anche se fare l’insegnante è un compito molto serio, sembra sempre di giocare e di vivere in un ambiente puro. I bambini, anche quelli più cagacazzo, sono veri e propri strumenti antistress. Sono loro, i bambini, i veri salvatori dell’universo, gli unici in grado di sollevarci dall’angoscia di stare al mondo in una pandemia globale. Con le loro voci, al lunedì mattina, appena entrano in classe.

la svizzera

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I due principali siti di e-commerce dedicati ai biglietti di concerti sono andati in tilt per il massivo attacco dei fan italiani di The Weeknd. La vendita apriva alle dieci del mattino e già alle dieci e zero uno secondi le pagine erano in palla e restituivano messaggi contraddittori. Ho provato a rivolgermi al supporto clienti e mi sono sentito rispondere che il sistema non regge a un assalto di tali proporzioni, malgrado la strategia di rendere disponibili quantità limitate in momenti diversi, utile a evitare speculazioni e rivendite successive a prezzi gonfiati. Il fatto è che era il compleanno di mia figlia e il biglietto del concerto di The Weeknd al forum di Assago lo aveva chiesto come regalo. Sapete cosa non si fa per i figli.

Purtroppo l’esito di certe operazioni è già scritto nella storia. L’impossibilità di aggiudicarsi la partecipazione a grandi eventi è un problema che da tempo affligge le persone normali come me e voi. Non si capisce perché non si ricorra a una gestione più efficace delle richieste nei casi in cui l’affluenza superiore alla disponibilità sia più che ovvia. Mi vengono in mente almeno dieci soluzioni diverse – tutte basate sull’informatica, eh – per evitare colli di bottiglia rispetto a quella più demenziale che, guarda caso, ogni volta mostra tutti i suoi limiti. Tutto questo rende ancora più surreale il paradosso di voler semplicemente ascoltare dal vivo il proprio artista del cuore: il costo dei biglietti è inqualificabile – l’industria musicale, tra mp3 e pandemia, è letteralmente impazzita – senza contare che, nel mio caso, la data prevista per il concerto è il 1 di novembre. DEL 2022. E i siti che vanno in tilt quando ce n’è bisogno sono ormai una caratteristica del nostro Paese, tanto quanto la mozzarella e i mandolini.

Poi ci è venuto in mente di controllare le date del tour di The Weeknd e abbiamo appreso che la tappa successiva era prevista a Zurigo. Due clic (a ore di distanza dall’apertura della vendita c’era ancora piena disponibilità), la digitazione del numero di carta di credito e il biglietto – peraltro nel golden ring – è arrivato nella mia casella di posta. E lo so: Zurigo è a 3 ore di treno mentre Assago a venti minuti di tangenziale. Pazienza. Magari è anche una bella città e per mia figlia – e l’amica che la accompagnerà – sarà l’occasione per una gita.

Imagine – A Perfect Circle

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La maniera più elementare per insegnare la differenza tra maggiore e minore in musica è associare il primo modo alla serenità, il secondo alla mestizia. “Jingle Bells” è in maggiore, l’”Adagio di Albinoni” – che poi non è di Albinoni – in minore. Se avete studiato musica qualche riferimento a questa dicotomia vi sarà stato presentato, magari con esempi diversi. Se invece ne eravate all’oscuro e, grazie a questo incipit, avete pensato “cazzo, è vero”, divertitevi a cercare su Youtube gli esperimenti e le gag sui pezzi trasformati da maggiore in minore o viceversa (anche se fanno più ridere i primi) e constatate come passano all’opposto delle intenzioni di chi li ha composti. Ce ne sono migliaia, basta digitare “major key” o “minor key” nel campo di ricerca e il gioco è fatto.

Gli A Perfect Circle partono già con il piglio di chi non ha tanta voglia di scherzare e, con “Imagine” di John Lennon, sono andati fino in fondo. “eMOTIVe”, l’album che la contiene, è infatti una raccolta di esercizi di stile, da questo punto di vista. L’obiettivo è mettere sottosopra la speranza, l’ottimismo e anche la tranquillità in un momento piuttosto greve per la politica estera americana e per il mondo intero. È il 2004 e i fronti in cui l’esercito statunitense e i suoi alleati ci danno dentro con l’esportazione della democrazia non sono pochi. Di rimando, i messaggi di insofferenza verso il modello occidentale iniziano a palesarsi con una certa ricorrenza. Questo per dire che c’è poco da stare allegri e l’uso di una chiave di lettura pessimista per interpretare le cose può essere perfettamente in linea con l’indole già tutt’altro che leggera di Maynard James Keenan e soci.

Il risultato è una “Imagine” al contrario, una canzone di una cupezza senza confronti. A poco più di trent’anni dalla sua composizione, l’inno pacifista per eccellenza viene scardinato nella sua essenza tanto da diventare una straziante marcia funebre della civiltà come la conosciamo. Si passa a un livello superiore e decisivo in cui non c’è più niente da fare: se la versione originale voleva volgere le coscienze al primato della fratellanza, il nuovo arrangiamento ne accentua il fattore parodistico. I sognatori hanno perso, e l’idea di un unico paese in cui vivere tutti insieme – quello dell’economia globalizzata – non è certo ciò che aveva in mente John Lennon. Il video ne accentua, quindi, l’intento. La fine del mondo è prossima e descriverla con i versi di chi si era impegnato per arginare il decorso è il paradosso più eclatante.

“Imagine” in modo minore è la cover perfetta e, allo stesso tempo, la prova che basta qualche alterazione nella scala per dare un peso e un significato diverso alle parole e alle intenzioni con cui è nata una canzone. D’allora in poi, per insegnare la teoria musicale, gli A Perfect Circle possono risultare più che efficaci.

diritto alla disconnessione

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Uno degli aspetti che trasmettono appieno l’ingenuità del sistema scolastico italiano e il fatto che si sia sviluppato in una bolla di mercato pubblico mentre altrove la gente per sbarcare il lunario fa le notti e porta gli hamburger in bici sotto la pioggia va ricondotto alla rivendicazione del diritto alla disconnessione. Si tratta di un principio generale secondo il quale anche i docenti – come altre categorie di lavoratori del terziario – non dovrebbero essere disturbati con e-mail di lavoro durante il fine settimana e, in senso lato, al di fuori dell’orario lavorativo, ossia la libertà di non rispondere alle comunicazioni di colleghi, alunni e famiglie durante il periodo di riposo.

Una pratica che ha lo stesso flavour di quelli che abbassano la leva del contatore della luce prima di chiudere la porta e tornare a casa dall’ufficio spegnendo i server sui cui gira il sito con i servizi dell’azienda, oppure quegli altri che dal primo al trentuno di agosto staccano la batteria al cellulare di lavoro.

La pretesa più folle è che non ci si deve permettere nemmeno di inviarla, l’e-mail, come se quando teniamo la tv spenta i programmi dovrebbero interrompersi fino a quando non la riaccendiamo, oppure quando ci lascia un partner pretendere che non abbia più relazioni sentimentali con nessuno per il resto della sua vita. L’Internet e il resto del mondo – e per fortuna, dico io – continuano a restare attivi malgrado noi. Possiamo così scegliere di non aprirla nemmeno, quella e-mail del collega la cui notifica fa capolino ogni volta che prendiamo in mano il telefono per fare la foto al gatto nel week-end e per fare sapere al resto della nostra sfera privata che siamo connessi acca ventiquattro. Sta a noi lasciarci prendere e stabilire da chi non farci trovare.

Out Of Control – The Chemical Brothers

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“Out of control” è allo stesso tempo il pezzo più bello dei Chemical Brothers e dei New Order. Non avete ancora chiuso la pagina? Bene, allora sentite qui, perché sono certo che alla fine mi darete ragione. In un’unica canzone infatti si compie qualcosa che ha del miracoloso. Il suono dei paladini del big beat lascia da parte i principianti delle comparsate nella musica trendy dell’epoca e si impreziosisce finalmente di uno dei timbri più caratteristici della new wave inglese, quello di Bernard Sumner, mentre i “postumi” – passatemi il termine – dei Joy Division, o almeno il loro storico frontman che in questo frangente ne ha la delega, ritornano alla completezza armonica e ritmica dei tempi migliori, dopo il lungo periodo di stasi artistica degli anni novanta.

“Out of control” è innanzitutto un brano che abbiamo vissuto in lungo e in largo. Lo abbiamo ballato quando i DJ non avevano nessun imbarazzo a mescolare la musica del periodo d’oro dell’elettronica alla techno, al rock e all’indie dei tempi. Lo abbiamo ascoltato contando il susseguirsi di suoni e rumori di tutti i tipi, bramosi nell’interminabile attesa dell’orgasmo indotto dalla inimitabile schitarrata che Sumner somministra come una cosa rarissima solo una volta, a tre quarti della canzone, quando la tensione raggiunge il culmine e, raggiunto il piacere sommo, ci lascia scemare l’estasi fino alla fine, ormai ebbri di appagamento sensoriale.

Lo abbiamo visto in un video che ha fatto storia, con una spaziale Rosario Dawson agli esordi di carriera che domina una scena di guerriglia urbana in un triste presagio di ciò che avverrà pochi anni dopo proprio qui in Italia. Una storia di amore sotto gli occhi delle forze dell’ordine che darà ispirazione all’iconografia delle effusioni scambiate tra manifestanti all’ombra di manganelli, scudi e lacrimogeni, se non addirittura alle istantanee di baci provocatori tra no-tav e poliziotti in assetto da battaglia, roba con cui i quotidiani on line negli anni duemila hanno raccolto centinaia di migliaia di clic post-adolescenziali.

Lo abbiamo lasciato fisso nelle numerose playlist che si sono susseguite nelle nostre sessioni di running. Centinaia di brani ritmati si sono susseguiti in anni di corse ignoranti verso il nulla urbano ma “Out of control” è rimasta meritatamente al suo posto, da lanciare nei momenti di maggior fatica quando il fisico e la convinzione a raggiungere il traguardo non bastano più e ci vuole qualcosa che consenta alle nostre gambe di non perdere il ritmo e chiudere l’allenamento secondo i tempi programmati.

“Out of control”, singolo tratto da “Surrender” e uscito agli sgoccioli del secolo scorso, conserva inalterata la sua perfezione tra suoni e cantato, tra post punk ed elettronica, tra passato e futuro e ad oggi risulta sempre attuale, tanto che non sfigurerebbe né in un nuovo disco dei New Order – se avete presente “Music complete” sapete a cosa mi riferisco – né in una nuova fase sperimentale dei Chemical Brothers, mantenendo in entrambi i casi invariato il suo messaggio di lotta e di speranza.

cerchiamo di essere serie

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Diciamo basta ai fine-settimana interi buttati via nella pratica del binge watching. Volete sapere perché i poteri forti insieme a big entertainment hanno inventato le serie tv? Ovvio: per farci chiudere in casa nelle belle e brutte giornate a guardare intere serie tv da dieci puntate a stagione per dieci stagioni in una botta sola e impedirci di non scendere in piazza a fare la rivoluzione. Quello dei telefilm è il nuovo oppio dei popoli. C’è una gag nell’Internet da qualche parte di una stand up comedist italiana che ammette di essere terrorizzata dall’uscire e incontrare altre persone perché non sostiene emotivamente i suggerimenti del prossimo circa le nuove serie tv uscite. L’hai vista questa? L’hai vista quest’altra? E tu ti senti in colpa perché nemmeno lo sapevi e ti servirebbero almeno due vite in più per stare al passo con l’industria della fiction.

La serie tv è il nuovo modello di consumo americano supersize e, tanto quanto il resto delle cose a cui ci dedichiamo, ci siamo ancora una volta cascati in pieno. In otto ore di fila – la durata media di una stagione, a stare larghi – ci stanno una corsetta, un paio di scopate, un centinaio di pagine di libro, una telefonata alla mamma lontana, una pizza e una birra e pure un film di lunghezza standard. Che poi, come tutte le altre sovraesposizioni a cui siamo soggetti, oltre al buon senso si perde l’essenza delle cose. La storia che dura otto-dieci episodi dev’essere come minimo la “Divina Commedia”, i “Promessi Sposi”, “Guerra e pace”. Altrimenti lo standard a due tempi da quarantacinque minuti con intervallo è più che sufficiente. Mia moglie ed io, alla sigla di coda dell’ultimo episodio della prima stagione dell’ennesima serie numero uno in Italia su Netflix dal titolo “L’estate in cui imparammo a volare”, iniziata domenica dopo pranzo e terminata alla mezzanotte dello stesso giorno, abbiamo detto basta. Basta serie tv. Almeno fino a domenica prossima.

un canto agreste

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C’è solo una lingua più morta del latino ed è l’italiano che ti insegnano a usare per tradurre dal latino.

la didattica intelligente

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Avete presente lo spot di quel supermercato che pubblicizza la spesa intelligente con i suoi clienti travestiti da Einstein? Ci sono app per lo smartphone che ti mettono facce da coniglio o da unicorno o da quello che vuoi quando ti inquadrano il viso, e probabilmente da qualche parte c’è anche un effetto che ti fa i capelli e i baffoni da scienziato pazzo, che è un po’ come giocare a carnevale tutto l’anno anche se, per fortuna, gli scienziati sono molto più assennati di noi scrittori americani. I trucchi che ti cambiano i connotati sono funzionalità che, per loro natura, fanno parte della sfera ludica della nostra vita, anche se l’amara considerazione che più spesso ci facciamo è che da quando esistono queste cose è tutto sempre tempo libero. Certo, poi noi ci convinciamo che no, lo stiamo facendo per lavoro perché stiamo al computer tutto il giorno e perdere una manciata di minuti ogni tanto per dare un’occhiata ai social o farci un selfie da pubblicare su Instagram non è certo un problema. Io sono convinto che la crisi economica degli ultimi tempi derivi dal fatto che, a furia di rosicchiare tempo per like da pochi secondi su scala mondiale, abbiamo accumulato ore e ore di produttività in meno, ma non ho dati concreti a supporto di questa teoria. Tanto vale accodarci al trend globale e individuare nella trasformazione digitale della realtà il vero progresso. Ci sono anche effetti positivi. Pensate anche alla scuola e a come sarebbe andata se la videoconferenza e le piattaforme di didattica a distanza non fossero state inventate prima. Avremmo chiuso tutto con il Covid e chi si è visto si è visto, costringendo l’umanità alla didattica parentale. Ma per nostra fortuna la comunicazione tra docenti e studenti e docenti e famiglie si è avvalsa del mezzo del video e lo farà finché tutto non tornerà come prima, riuscendo a portare avanti uno straccio di programma. La prof di inglese di mia figlia è una vera entusiasta del lavoro che svolge e della sua mission. Lo si evince dal fatto che si presenta agli incontri online sfoggiando uno sfondo super-contestualizzato alla materia che insegna, tutto Union Jack e guardie della regina e cabine telefoniche e double-decker bus. Ma se lo può permettere perché è anche molto simpatica. La prof di matematica, al contrario, è pallosissima e trasmette perfettamente la sua scarsa predisposizione al mestiere dell’insegnamento. Probabilmente vorrebbe essere altrove e anziché fare la coordinatrice di classe per genitori sin troppo ingerenti guidare qualche team di ricerca tra un capo e l’altro del tunnel che collega i laboratori del CERN. Ho pensato che per lei l’app che ti fa sembrare Einstein da applicare a Microsoft Teams sarebbe perfetta, perlomeno risolverebbe almeno uno dei suoi problemi, quello dell’empatia.

venti minuti di musica senza interruzioni

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Virgin Radio è quella radio che trasmette la visione del rock che hanno i network commerciali e non c’è ogni coda di brano rock che non ci ricordi che siamo su Virgin Radio. Dopo ogni cazzo di canzone rock qualcuno ci ricorda che siamo su Virgin Radio. Il fatto è che su Virgin Radio trasmettono un programma che si chiama “Personal Giulia” che comprende un inserto dal titolo “Venti minuti di musica senza interruzioni”. Si tratta di una manciata di brani rock i cui titoli vengono presentati prima dell’inizio dell’inserto, uno dopo l’altro, con la consueta pronuncia iperinglese con cui passano il rock a Virgin Radio. Quindi mettono la prima canzone della lista. Alla fine della prima canzone ecco un’interruzione con un vocione da rock di Virgin Radio che dice “Personal Giulia, venti minuti di musica senza interruzioni” e poi mettono la seconda canzone della lista. Anche al termine della seconda canzone il flusso di venti minuti di musica senza interruzioni viene interrotto dalla voce rock di uno speaker di Virgin Radio che dice “Personal Giulia, venti minuti di musica senza interruzioni”. Poi c’è il terzo pezzo che però non sfuma nel quarto direttamente. La stessa voce di prima ci ricorda ancora che stiamo ascoltando “Personal Giulia, venti minuti di musica senza interruzioni”. Stessa cosa tra la quarta canzone e la quinta. Ora non so in venti minuti di musica senza interruzioni quanti brani musicali ci stanno. Resta il fatto che almeno una ventina di secondi sono occupati da tutte le volte in cui i venti minuti di musica senza interruzioni sono interrotti dalla voce che dice “Personal Giulia, venti minuti di musica senza interruzioni”. Insomma, non ho ancora capito se a Virgin Radio sono scemi o cosa.

i migliori dentisti di Croazia

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Un architetto del Delaware si è sottoposto a un intervento chirurgico per farsi rimuovere dalla testa un motivetto di Howard Jones eseguito con il synth con cui è stato contagiato da uno di quei rari brani della storia della musica privo di ritornello cantato ma con un tema strumentale che ne fa le veci. Fabrizio ha sentito questa improbabile news provenire dallo stereo dell’auto che gli si era incolonnata a fianco mentre si trovava in coda al casello e, malgrado la temperatura e lo smog nonostante l’imminente anniversario del lockdown, aveva pensato di cambiare aria all’abitacolo. Io sono come lui: quando sento uno di quegli innumerevoli speaker idioti delle radio commerciali dire stronzate cambio subito canale ma, poiché di mattina presto è impossibile evitare sulla gamma delle frequenze il susseguirsi di circhi della deprivazione, alla fine metto Spotify. Fabrizio però stamattina si è svegliato più depresso del solito e ha deciso che nessuno sarebbe mai più riuscito a sorpassarlo in macchina. Una sfida non da poco, considerando il traffico delle sette e trenta in tangenziale. Da ragazzo sprecava i resti in moneta in un arcade da bar in cui una moto immobile su una strada a otto bit che gli scorreva sotto doveva superare tutti gli altri concorrenti della gara e raggiungere per prima non ricordo quale città americana. Ma la realtà non è un videogame, nemmeno quando passano quello spot in cui uno dei sedicenti migliori dentisti di Croazia – con un superfluo accento tedesco – pubblicizza una meta da turismo medicale odontoiatrico con il sottofondo dei Rondò Veneziano. E, a proposito di musicisti in maschera, ho ancora vivido nella memoria il ricordo di noi due, Fabrizio ed io, ripresi per caso dalle telecamere di un’emittente locale in occasione della sfilata dei carri di Carnevale della nostra cittadina nell’82. Io indossavo uno di quei giacconi blu scuro a bottoni da marinaio che usavano una volta. Passava la gente in maschera e nel servizio del tg avevano inquadrato noi proprio mentre sfoggiavamo la nostra espressione più perplessa per l’iniziativa. Odio Carnevale tutt’ora, e quando i miei alunni mi chiedono di osservare in qualche modo la festività faccio cadere il discorso e passo a qualcos’altro, per esempio alla primavera che ormai è dietro l’angolo. Fabrizio mi ha anche raccontato che dopo alla radio hanno anche detto che quando scrivi una certa combinazione di parole è come se si aprisse un varco spazio-temporale per un’altra dimensione, ma non si ricorda quale.