due spaghi

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Ero al ristorante con mio marito quando quella del tavolo di fronte si mette a flirtare con lui. Non appena si accorge che li ho beccati in pieno, come se fosse la cosa più naturale del mondo gli fa un caloroso ciao con la mano e saluta platealmente anche me, nemmeno fossimo state a scuola insieme. Ma chi ti ha mai visto, mi verrebbe da dirle se non fossimo pagati per registrare uno spot e i dialoghi li avesse già scritti qualcun altro. Mi viene voglia di alzarmi e andarmene, non prima di rovesciarle un bicchiere d’acqua gelata in testa. Con mio marito, poi facciamo i conti a casa. E che modi: dalla borsa tira fuori una confezione di spaghetti e si mette a contrattare con il cameriere. Non ho mai visto nessuno portarsi la materia prima da casa. Una volta lo facevano i celiaci ma ora nei locali pubblici sono molto attenti alle allergie. Chi si crede di essere? Un’attrice famosa? Mio marito resta a bocca aperta da tanta disinvoltura, probabilmente è il lato della personalità di lei che lo attrae di più, perché subito dopo lo sfida e ci chiede se vogliamo favorire. Io da quella non prenderei nulla, ma il copione è rigido e ogni volta che ci passano in tv devo prestarmi a questa messa in scena. Mi hanno detto che l’hanno invitata a visitare gli stabilimenti in cui producono quel tipo di pasta ed è per questo che insiste sempre per farcela mangiare. E poi c’è il momento che odio di più: arrivano gli spaghetti, i camerieri sollevano la cloche dal vassoio, e ancora prima di assaggiare lei e mio marito si fanno a vicenda quel gesto con l’indice sulla guancia (che trovo di una volgarità inaudita, soprattutto in un ristorante) che significa che la carbonara è sicuramente buona ma, secondo me, è il segnale che tra loro c’è qualcosa. Non ho dubbi che la pasta sia una scusa per dirsi qualcos’altro.

insegnare domani

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Sono le 18:12 del 10 agosto 2016 e lo smartphone nella retina portabibite della sedia da mare brandizzata Ichnusa su cui sono seduto emette un inequivocabile tono di avviso. Mi aspetto l’ennesima rottura di scatole dall’ufficio, d’altronde sul bagnasciuga le conversazioni al telefono che cominciano con “sono in ferie ma dimmi pure” sono all’ordine del giorno. L’oggetto della e-mail, questa volta, è però qualcosa di completamente diverso: “Concorso docenti – Convocazione prova orale Scuola primaria”.

Una ditata sullo schermo e, in quella manciata di istanti che il dispositivo impiega per aprirla, capisco che è qualcosa di grosso. Passo in rassegna il colore del mare della Costa Rei, gli amici del campeggio che – come me – si godono le ore migliori della spiaggia, mia moglie sdraiata sul telo che legge, mia figlia che chiacchiera con le sue amiche, sul materassino al largo. Quindi torno a osservare il display. Mi colpisce l’intestazione del MIUR, il fatto cioè che ci sia gente che usa il logo della Repubblica Italiana in una e-mail, e che si tenti addirittura di ricreare l’impaginazione delle lettere cartacee, con la data da una parte, il destinatario dall’altra, il titolo al centro, senza rendersi conto che i client di posta e le webmail si comportano a modo loro, soprattutto se gli allineamenti a sinistra e a destra li fai aggiungendo gli spazi.

Il testo del messaggio però mi toglie ogni dubbio: il 2 settembre sono chiamato a sostenere la prova orale del concorso bandito con D.D.G. 105/16 per la scuola primaria. Questo significa che, contro ogni previsione, ho superato la prova scritta, il vero osso duro dei concorsi per entrare di ruolo. Se tutto va bene, sarò un insegnante.

A questo punto della storia è doveroso un flashback. Ho conseguito il vecchio diploma magistrale ai tempi dei Duran Duran e per caso. In terza scientifico mi sono accorto che avevo scelto un liceo fuori dalla mia portata. In più non avevo voglia di studiare, volevo diventare una rockstar e anche la prof di matematica si era messa di mezzo, sbattendomi in faccia la mia inadeguatezza. L’unica alternativa per ottenere un diploma senza ripartire da zero e senza perdere l’anno erano le magistrali, la scuola che ora si chiama liceo delle scienze umane. Nella piccola città in cui vivevo non c’era molta scelta. Ho preparato privatamente le materie d’indirizzo – pedagogia e psicologia, ho superato l’ammissione e, in due anni, sono giunto indenne alla maturità.

Ai tempi, a 18 anni scarsi potevi dare subito inizio all’iter per diventare docente di ruolo nella scuola elementare. Io però ho fatto tutt’altro. Mi sono laureato in lettere – erano i primi anni 90 – e ho avuto la fortuna – più che l’intuizione – di mettere a frutto una latente passione da smanettone per i computer entrando in quello che allora, con il web agli albori, si chiamava “multimedia”. Ho iniziato come programmatore di cd-rom, quindi mi sono occupato di contenuti per Internet per poi fare a tutti gli effetti il copy in un’agenzia di comunicazione specializzata in tecnologia. Tutto questo per più di vent’anni, durante i quali non mi è mai passato per il cervello l’idea di insegnare. Da dipendente privato, il meccanismo dei concorsi pubblici mi sembrava un sistema di recruiting anacronistico e fuori mercato, prima che impossibile da affrontare. Per non parlare dell’inferno delle graduatorie, i sindacati, la burocrazia, le supplenze e tutte quelle inutili leggi da imparare, parte del programma.

Nel frattempo ho cresciuto mia figlia e sono entrato in contatto – da utente – con la scuola pubblica italiana. Ma mi ero anche in parte stufato della routine professionale. Ore e ore al pc, creatività a comando, aspettative non corrisposte mettevano in ombra i lati positivi del mio lavoro: l’ambiente dinamico, la modalità flessibile e la consistenza della busta paga.

Avevo letto che il concorso per diventare docente di ruolo alla scuola primaria del 2016 sarebbe stata l’ultima occasione per i candidati come me, in possesso del vecchio diploma, privi della laurea in Scienze della Formazione e senza nemmeno un’ora di servizio. Ma, a dirla tutta, pur sentendo il bisogno di dare una svolta alla mia vita, fare il maestro continuava a rimanere all’ultimo posto delle priorità. Mi sembrava uno spreco, però, rinunciare a quella opportunità in extremis e sapevo che, se non ci avessi provato, mi sarei pentito per sempre.

Il processo però sembrava tutt’altro che semplice. L’iscrizione al concorso passava tramite l’attivazione di un profilo su un portale dedicato e la richiesta andava posta a una qualsiasi segreteria scolastica, che non è certo l’ambiente più user-friendly per i non addetti ai lavori. Non solo. Una volta attivato l’accesso, il sistema mi ha confuso con un omonimo, riportando dati anagrafici errati. Benvenuto nei database della PA. Alla fine, sempre per fortuna più che per caparbietà, ce l’ho fatta e ho inoltrato la domanda.

Il 30 maggio del 2016 mi sono presentato alla prova scritta “computer based” che mi ha catapultato nell’universo degli aspiranti insegnanti. C’era uno come me che si vedeva che era fuori luogo, aveva persino le iniziali cucite sulla camicia. Un altro, salito apposta da un paesino della Calabria, faceva il muratore ma “un concorso è un concorso”, mi ha detto. E poi quella ragazza che aveva fatto appena ritorno da un anno in Australia. Chissà che fortuna i suoi bambini, ho pensato, con una maestra cosmopolita.

Il fatto è che non mi ero minimamente preparato – il lavoro e la famiglia assorbivano tutte le mie energie – e persino mia moglie aveva tentato di farmi desistere dalla volontà di andare a fondo. La prova di inglese, la prima a cui mi sono sottoposto, si è rivelata alla mia portata. Nella comprensione dei testi e nella traduzione me la cavo piuttosto bene. A quella sono seguite alcune domande di cui ora non ricordo granché, se non il fatto di aver dato sfogo alla mia esperienza di copy e di aver scritto come un forsennato. Sono stato molto attento alla grammatica e alla forma e sono persino riuscito a mettere qua e là certe parole di tendenza – storytelling su tutte. Ero in un istituto tecnico per geometri a Cantù e fuori pioveva a dirotto. Uscito da lì mi sono persino sentito a disagio per aver sprecato un giorno di ferie per quella messa in scena. Ero consapevole che nessuno, leggendo le fanfaronate con cui avevo riempito le risposte alle domande aperte, mi avrebbe mai dato il minimo credito per qualunque posizione, tantomeno per quella di educatore di bambini.

Invece mi sbagliavo, e di grosso.

Torniamo così sulla spiaggia del campeggio, in Costa Rei. Metto al corrente mia moglie del contenuto della e-mail e lei mi guarda come se avessi vinto alla lotteria. Ci precipitiamo a Cagliari dove è tutto chiuso per Ferragosto. C’è solo una Feltrinelli aperta a ridosso del porto dove, ancora per puro caso, trovo l’ultima copia di un testo adatto per preparare l’orale. Il titolo è beneaugurante: “Insegnare Domani”.

Eppure, ancora una volta, mentre sfrutto al massimo i pochi giorni di tempo per approfondire i vari esempi di lezioni da simulare riportati nel libro – la prova orale consiste proprio in quello – mi convinco che la cosa non fa per me. Che cosa ci azzecca un copywriter, ex-musicista, collezionista di vinile, blogger ed esperto (a parole) di trasformazione digitale con una classe di mocciosi?

Il giorno precedente all’orale, sorteggio al cospetto del presidente della commissione la lezione di prova che dovrò tenere 24 ore dopo. Conservo ancora, tra le reliquie professionali, quel bigliettino. Traslazione, rotazione e simmetria delle figure piane in una quarta di una scuola ubicata in un paese rurale. Già, non ho pensato che i maestri della primaria insegnano anche matematica. Ecco un altro segnale: non è la professione che fa per me.

Rientro a casa mi metto a scartabellare su Internet, coinvolgo mia cognata insegnante e capisco che, privo di qualsiasi competenza pedagogica, posso solo contare sul mio background professionale e sull’improvvisazione.

Metto insieme una serie di spunti scommettendo tutto sull’interdisciplinarietà: il tangram, le foglie da raccogliere dal vero in una passeggiata nel bosco, la visita alla mostra di Escher a Milano, le frasi palindrome, le scale musicali, le melodie trasportate in diverse tonalità che mantengono i rapporti tra le note, le funzionalità di editing grafico per trasformare le figure con i software open source più comuni. Riporto quindi tutto su una presentazione PowerPoint creando vere e proprie infografiche e scegliendo accuratamente le illustrazioni, proprio come faccio per i miei clienti in ufficio. Aggiungo persino un titolo creativo alla lezione: “La geometria fa riflettere (ma anche traslare e ruotare)”. Quindi, atteggiandomi a relatore di TED, mi esercito ripetendo più volte fino a notte fonda il mio intervento scorrendo, come vedo fare agli eventi business di cui curo i contenuti, le slide dalla prima all’ultima. Forse, davvero, insegnare è un po’ così.

Avevo fatto un sopralluogo presso la sede del concorso un paio di giorni prima per verificare in cosa concretamente consistesse la prova. I candidati, anzi, le candidate erano numerosissime e c’erano diverse commissioni. Alcune mi avevano sorpreso per l’approccio piuttosto garantista che mi aveva rincuorato. Una, invece, si distingueva perché composta da commissari decisamente ingerenti nello svolgimento delle simulazioni e pignoli della discussione. L’abbinamento mi penalizza, assegnandomi proprio a loro. Nell’attesa della sessione in cui sarei stato valutato e molto probabilmente umiliato, nel frattempo ritrovo, destinati alle commissioni più abbordabili, il candidato con le iniziali sulla camicia, che al posto del Powerpoint ha con sé un foglietto a quadretti con qualche appunto e basta, e la ragazza tornata dall’Australia. Del muratore calabrese, invece, nessuna traccia.

Del mio gruppo vengo estratto per primo. Inserisco la chiavetta USB (avevo preso la precauzione di esportare l’elaborato in pdf in modo da mantenere il Google Font a cui tenevo moltissimo) e parto con il mio show. Il più severo dei due membri, però, mangia immediatamente la foglia e, alla terza slide, mi ferma per chiedermi su quale corrente pedagogica si basassero le tecniche che stavo mettendo in pratica nella mia finta lezione. Mi sembra corretto mettere in chiaro, così, il mio caso: a differenza delle candidate che si sarebbero avvicendate davanti a loro e di tutte le altre che, nelle aule attigue di quella scuola del centro, stavano sostenendo la stessa prova, avevo zero esperienza. Nonostante ciò mi sentivo motivato, entusiasta e pronto a mettere al servizio della scuola pubblica le mie competenze nella comunicazione, nel digitale, nella tecnologia, nella lingua inglese e nella musica. La tensione si stempera, gli esaminatori si incuriosiscono, notano persino la cura nella grafica delle slide. Porto così a termine la mia esposizione, sostengo una veloce e formale conversazione in inglese, racconto di ciò di cui mi occupo in agenzia e, infine, mi accomiato. Mi prende una sete mostruosa unita al down che segue alle imprese che mettono adrenalina. Mi fiondo in un bar nei pressi per consumare alla goccia una Lemonsoda ghiacciata.

Il verdetto sarebbe stato pubblicato sulla porta dell’aula in cui avevo appena dato il meglio di me stesso solo al termine delle prove di tutti e sei i candidati. Rientro nella sede del concorso e seguo gli altri orali. Una ragazza con diversi anni di esperienza in una di quelle graduatorie dagli acronimi fantasiosi da cui le scuole attingono personale precario ogni anno, cade ingenuamente sul rimando a una teoria poco opportuna per la lezione sorteggiata. Da lì, l’esaminatore più intransigente si accanisce per smontare tutta la ricerca che, a mio parere, trasmette comunque una certa preparazione. Quella dopo non sa spiccicare nemmeno una parola di inglese. E non ricordo se la quarta o la quinta, quando le viene chiesto di copiare il file della presentazione dalla chiavetta al pc per metterla agli atti, ammette di non aver dimestichezza con la tecnologia. Per fare un copia e incolla. L’ultima, invece, si presenta lanciatissima e super-professionale e prende il voto più alto di tutti.

Insomma, per farla breve, alla fine sono stato promosso anch’io. La candidata a cui avevano contestato tutto è risultata invece insufficiente e, pur felice per il mio esito, mi sono sentito fortemente in colpa, come quando rubi il posto a qualcuno che ne ha diritto più di te. Tornata a casa, avrà sicuramente inveito contro quel cialtrone che ha fatto persino la beatbox durante la prova di un concorso per la scuola, per dimostrare che si può insegnare musica con qualsiasi cosa a disposizione. Ma la cosa più importante è che, uscito da lì, ho ripensato all’entusiasmo e alla motivazione che avevo millantato poco prima per convincere i commissari e, in tutta sincerità, mi è sembrato che fosse davvero così. Non avevo mentito più di tanto. Quella sera sono rimasto a cena sui navigli con mia moglie e mi sono persino ubriacato.

Superato o no il concorso, era comunque tardi perché la macchina organizzativa riuscisse a portare a termine l’operazione nell’anno scolastico in corso. Le graduatorie sono state pubblicate a novembre e l’Ufficio Scolastico ha emanato solo a fine luglio 2017 la convocazione dei primi millecinquecento neo-docenti. Io venivo poco dopo, mille seicento e qualcosa, un ritardo che ho vissuto nuovamente come un ostacolo al cambiamento a cui anelavo. Ai miei datori di lavoro, ovviamente, non avevo detto nulla. Il mio contratto in agenzia prevedeva tre mesi di preavviso. Così avevo messo in conto di prendere servizio con la chiamata che presumevo si sarebbe tenuta alla fine dell’estate successiva, nel 2018. Avrei dato le dimissioni verso maggio in modo da rimanere in agenzia fino al 31 agosto, per poi iniziare a scuola il primo settembre.

Si vede che non conoscevo per nulla il rocambolesco mondo della scuola pubblica. Non passa nemmeno un mese dalla prima convocazione e a pochi giorni dal rientro dalle vacanze (niente più campeggio in Sardegna ma un viaggio in UK) scopro una seconda chiamata per i successivi cinquecento candidati, programmata per il 28 agosto.

Mi precipito all’ufficio scolastico il giorno stabilito, firmo l’entrata in ruolo, scelgo l’ambito territoriale e, nel pomeriggio, la scuola in cui dovrò insegnare. Questo significava tre giorni utili appena per salutare l’agenzia in centro a Milano in cui avevo lavorato per sedici anni senza alcun passaggio di consegne e un inizio in affanno della nuova vita di maestro elementare, in una primaria di provincia. Non mi sentivo assolutamente pronto.

Su suggerimento di una ex collega che aveva seguito lo stesso percorso prima di me, ho proposto al dirigente della scuola a cui ero stato assegnato un anno di aspettativa per portare a termine ciò che avevo in mente. Durante i successivi dodici mesi, oltre a continuare il mio vecchio lavoro, mi sono dato da fare studiando, informandomi, seguendo corsi online e, soprattutto, trascorrendo diverse ore di tirocinio volontario in classe. Un’esperienza utilissima perché mi ha restituito l’idea cosa sarei andato a fare. La futura collega che, sempre volontariamente, si è prestata a seguirmi in questo percorso, mi ha anche permesso di tenere una lezione ai suoi bambini, per la quale mi sono preparato meticolosamente proprio come avevo fatto per la simulazione al concorso. Ho allestito un percorso di musica nella sua quarta. Sono partito da Miles Davis, cosa che mi ero promesso di fare se avessi mai messo piede in un’aula scolastica, e ho coinvolto la classe lungo un viaggio nel ritmo, nella melodia e nella storia della musica che ascoltano a casa.

Il racconto finisce qui, perché, da allora, è filato tutto liscio, Covid permettendo. Ho comunicato le mie intenzioni ai miei datori di lavoro ad aprile e, dal primo settembre 2018 e a 51 anni, mi sono reinventato insegnante. E ho davvero messo le esperienze di una vita al servizio della scuola pubblica. Nell’istituto comprensivo in cui lavoro da allora gestisco il sito, il laboratorio di informatica compresi i dispositivi di classe e tutto ciò che riguarda la piattaforma di didattica integrata. Ho tenuto corsi di digitalizzazione agli altri docenti. Cambio persino i toner alla fotocopiatrice. Quando ci siamo trovati in lockdown ho messo in piedi e amministrato il sistema che ha permesso ai colleghi e agli studenti di continuare l’attività a distanza.

Ma la cosa più bella del lavoro che faccio ora è stare ogni giorno in mezzo ai mocciosi, proprio quello che temevo di più. Lo scorso anno ho preso una prima che ora è una seconda. Se non ci fossero problemi di privacy vi farei vedere le loro facce, perché sono loro i veri protagonisti della storia che ho appena raccontato. Io mi diverto moltissimo. Insegno matematica, informatica, inglese, arte e musica. Li aspetto in classe ogni mattina e, quando arrivano, ognuno mi saluta a suo modo. Il sorriso si capisce dagli occhi e si intravede sotto la mascherina. Non so se sono bravo, ma secondo me lo sto diventando.

scarabocchio

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Ho conosciuto Valeria al raduno nazionale dei fan di Garbo. Eravamo quattro gatti ma gli organizzatori ci hanno diviso lo stesso a seconda della canzone che ci rappresentava di più, requisito che in molti avevano frainteso con una banale dichiarazione del proprio brano preferito. In realtà si trattava di un’attività da team building aziendale, forse poco adeguata al contesto ma che comunque mi sembrava coinvolgente. Io e lei eravamo gli unici nel gruppo di “Cose veloci”, la canzone che Garbo ha presentato al Festival di Sanremo dell’85. Ci siamo presentati e, dopo i convenevoli, la conversazione si è immediatamente incentrata sull’esibizione in playback del giovedì alla manifestazione canora. Garbo sembrava Lloyd Cole, con quel dolcevita marrone chiaro e l’avveniristico ciuffo laterale. Niente a che vedere con il look dell’esibizione dei giorni successivi. Ci siamo ricordati però del paradosso del brano che, malgrado il titolo, aveva un andamento downbeat. Nonostante ciò c’era qualche dj che lo passava, considerato che il bpm rallentato non costituiva un’eccezione nelle selezioni per intrattenere la gente in pista, una sorta di warm-up propedeutico alle proposte più consone per una programmazione orientata al ballo. Valeria mi ha mostrato la copia del 45 giri autografata che aveva portato con sé al raduno e che custodiva in una di quelle buste in plastica trasparente in cui si conservano i dischi da collezione. Io le ho confessato di non esserne munito ma di avere l’mp3 da qualche parte. Mi è sembrata delusa dalla mia inadeguatezza. Mi ha detto che nessuna celebrità metterebbe mai la firma su un file. Stavo per raccontarle della cartolina promozionale di “Sorrisi e Canzoni TV” con dedica di cui mi aveva fatto omaggio di persona prima di un concerto ma nel frattempo, nella sala, ha preso il via il provvidenziale ascolto dei più famosi successi del cantautore, e la cosa è finita lì.

intransigente

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Ci sono cose che non si fanno e basta. Se scartabellate con attenzione nell’elenco di queste cose troverete, al paragrafo “Televisione”, partecipare a trasmissioni tv come il grande fratello, presentare trasmissioni tv come il grande fratello, guardare trasmissioni tv come il grande fratello, parlare di trasmissioni tv come il grande fratello. Scrivere di trasmissioni tv come il grande fratello invece è consentito ma esclusivamente quando, come in questo caso, lo si fa in modo ottuso e accecato da pregiudizi morali senza aver visto nemmeno un fotogramma della trasmissione e facendo finta di non sapere nemmeno su quale emittente va in onda (anche se basta mettere in campo l’intelligenza per capirlo). Se hai qualcosa a che fare con trasmissioni tv come il grande fratello in senso lato, cioè quel tipo di trasmissioni in cui partecipa gente tatuata, tamarra, vestita male, deprivata e poco acculturata – mi vengono in mente numerosi reality e talent show prodotti degli ultimi vent’anni e che hanno portato o riportato alla ribalta semplici-nessuno e vip-nessuno – è un marchio che ti resta addosso per tutta la vita e puoi provare a re-inventarti intellettuale come Daria Bignardi o braccio destro di statista come Rocco Casalino ma è inutile. Il grande fratello – vip o dei morti di fame che sia – ti resta appiccicato tutta la vita come una cicatrice che nessun intervento di chirurgia plastica ti potrà mai cancellare. Pensate, invece, a quelli che sono stati concorrenti a “Il pranzo è servito” o alla “Ruota della fortuna” o a “Rischiatutto”. Oppure a quei giovani che siedono al cospetto di studiosi del calibro di Barbero e alla corte di Paolo Mieli nelle trasmissioni della nicchia della nicchia che parlano di storia. Sono esperienze che puoi metterle anche nel curriculum. Almeno, fosse capitato a me non avrei esitato a scriverlo. Vi faccio un esempio. Nella scuola in cui insegno io è arrivato un docente precario che ha partecipato a uomini e donne, un programma talmente di basso profilo il cui nome non è degno nemmeno delle virgolette. In quella in cui lavora mia cognata c’è addirittura un docente di sostegno che arriva da temptation island. E io lo so che sono programmi che voi vedete perché fa figo seguirli sui social e giocare a prenderli sul serio perché è il modo più diffuso di fare sarcasmo e ironia. Invece i veri intransigenti non se ne curano e basta e schifano chi, in qualunque modo, ne sia stato a contatto. Rocco Casalino, portavoce di Conte, ha persino scritto un’autobiografia. Qualcuno l’ha letta e ne ha scritto qui. Il vero intransigente, invece, apre e chiude una parentesi giusto per condividere il suo punto di vista su queste cose, che sono – appunto – cose che non si fanno e basta, come partecipare a trasmissioni tv come il grande fratello, presentare trasmissioni tv come il grande fratello, guardare trasmissioni tv come il grande fratello, parlare di trasmissioni tv come il grande fratello.

case turche

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Bir Başkadır, o Ethos, come lo conosciamo noi, è una delle cose più belle che si possono vedere su Netflix ultimamente. Se non volete saperne nulla prima e vi fidate ciecamente del mio consiglio non perdete tempo, chiudete questo articolo e correte subito qui.

Se vi va, invece, mettiamoci comodi e parliamone.

La Turchia è un paese immenso e pieno di contraddizioni, proprio come il nostro. Ci sono i bigotti del sottoproletariato di periferia appiattiti dalla superstizione e ci sono i ricchi istruiti e laici del centro, una dinamica che in voti, in Italia, si traduce con la provincia che vota Lega e quelli della zona 1 che sono di sinistra. In questa geografia umana e discriminatoria si consuma una storia corale di donne che si sfiorano a un solo grado di separazione l’una dall’altra, ciascuna con il proprio fardello esistenziale represso, e una spruzzata di uomini di contorno che, nell’insieme, non ci fanno proprio una bella figura, malgrado da quelle parti (ma anche da noi) si arroghino i cardini del potere. Il buttafuori che non è in grado di gestire il complesso stato d’animo della moglie, il playboy smascherato in tutte le sue debolezze dalla madre e dalle amanti, la guida spirituale che fornisce supporto religioso prefabbricato e secondo modalità standard uguali per tutti, indipendentemente dal tipo di turbamento. Tutti comportamenti che aumentano il divario di spessore con la testardaggine di Meryem, l’algida professionalità di Peri, la follia emotiva di Yasin, la portata rivoluzionaria di Hayrünnisa, solo per fermarci alle protagoniste della nuova generazione e senza citare quella delle madri sottomesse dalla società e dai suoi veli. Un rigore nella rappresentazione dei principi che regge fino all’ultimo episodio, quando uno dopo l’altro i protagonisti sciolgono i loro stati d’animo abbandonandosi alla semplicità emotiva – il pentimento, il pianto, il perdono, l’amore – e tutto finisce apparentemente bene.

Ma, spoiler a parte, le storie che si dipanano lungo gli otto episodi sono stemperate in lunghi silenzi in cui sono gli ambienti a parlare. La città, la periferia urbana e la campagna corrispondono rispettivamente all’emancipazione (relativa) dalla tradizione, a un primo livello di salita sociale e alla semplicità rurale, offrendo spaccati di vita e interni di ambienti perfettamente esemplificativi. Il design ricercato e l’hi-tech dell’agiatezza contrasta con l’approssimazione dell’arredamento da edilizia popolare, per non parlare del rustico genuino della povertà immerso tra stalle, ovili e orti. Le stanze e i mobili sono parte integrante di ciò che accade, per cui non fatevi prendere troppo dai dialoghi e dalle interpretazioni degli attori. Ethos è una serie da seguire con attenzione dal primo istante sino all’ultimo titolo di coda, complice una regia e una fotografia superlative. Se decidete di arrivare in fondo, non perdetevi il minimo dettaglio.

scrivere in 3D

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Nutro un’attrazione smodata per i libri pop-up per bambini perché lo trovo un concept paradossalmente affascinante, se ci pensate. Le parole e i disegni, in condizioni normali, si stampano a due dimensioni. Forse un giorno, in un futuro alla Blade Runner, ci saranno le stampanti 3D di storie, ologrammi con effetto presenza che sprigionano i personaggi dei romanzi fuori dalle pagine in una sorta di finzione aumentata, passatemi il termine, ma niente a che fare con il digitale. I libri pop-up in cartone sono una realtà, esistono da sempre e lasciano i cinquantenni mocciosi come me a bocca aperta. Si tratta di una passione che coltivo sin da da piccolo ed è appagante, quando ne mostro uno ai miei bambini, osservare lo stupore che prende vita sui volti, una reazione testata già nella mia precedente carriera di padre, in barba alla concorrenza delle tecnologie oled e qled.

Sarà per questo che, quando l’argomento lo consente, faccio creare figure che saltano fuori in qualche modo dal quaderno. Qualche esempio? Animali che spalancano la bocca per definire la classificazione in base a ciò di cui si nutrono e, soprattutto, geometria solida. Ho fatto il cubo e il prisma in classe dando le indicazioni con i quadretti per disegnarlo al meglio su un foglio a parte per poi colorarlo, ritagliarlo, incollarlo e ricomporlo. L’attività è proseguita con la richiesta di realizzare un parallelepipedo a casa partendo da una scatoletta di cartone di qualunque prodotto. Per esemplificare ho mostrato in classe la confezione vuota delle mie pastiglie per l’ipertensione, anche se a prima vista non sembrasse forse la cosa più appropriata. Ho pensato che passare il messaggio di rovistare nell’armadietto dei medicinali per i compiti del weekend andasse a scapito della privacy delle famiglie. I problemi di salute sono top secret e non ne ho mai capito il perché, come se fosse colpa mia e mi dovessi vergognare se ho la pressione alta.

Comunque la rappresentante mi ha fatto sapere che non tutti i genitori hanno capito bene l’attività che i figli avrebbero dovuto svolgere. Quando c’è qualcosa che non va sul lavoro il mio approccio è di pensare – come prima cosa – che sia colpa mia. Ho ricondotto così ogni eventuale equivoco alle indicazioni che ho scritto alla lavagna da ricopiare sul diario. Andavo un po’ di fretta e ho usato il verbo esplodere in modo transitivo, forse impropriamente. Si dice, infatti, “esplodere un intero caricatore di colpi contro qualcuno”, ma “esplodere un parallelepipedo” può risultare inappropriato. Avrei dovuto girare la consegna: “cerco una scatolina di cartone in casa e ricreo un parallelepipedo esploso sul quaderno seguendo l’esempio delle figure realizzate in classe”, ma non mi sarebbe bastata la lavagna intera e poi era già il nostro turno per scendere in mensa.

Però sono certo che, malgrado le indicazioni riportate con il gesso, quanto ho spiegato a voce sia stato pienamente inteso dai bambini. Il problema è che i genitori non danno granché retta ai loro figli, non si fidano per nulla della loro capacità di riportare qualcosa detto da altri e, soprattutto, si ostinano a metter becco in quello che i bambini dovrebbero portare a termine in autonomia. La mia rappresentante si è lanciata così in un vero e proprio audio-tutorial sul gruppo Whatsapp e mi assicura che tutto è filato liscio. Lunedì così vedrò il risultato della manualità dei padri e delle madri dei miei alunni, ma va bene così. C’è un patto di corresponsabilità tra scuola e famiglie su ogni sito scolastico che, probabilmente, comprende anche la cogestione didattica.

prospettiva niente

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Ci sono posti dove non c’era nessuno in giro nemmeno prima del lockdown e la quarantena non ha certo cambiato le cose. Luoghi come questi si prestano a pratiche a rischio di insuccesso zero, per esempio rimettere in sesto una vecchia Nikon che non uso più. Un po’ perché ha mille funzioni ma non credo di aver mai spostato il selettore dalla posizione di automatico. Un po’ perché con lo smartphone si fa prima. Mentre immortalo strade vuote posiziono la mascherina sotto il mento, tanto non c’è anima viva. Mi viene in mente il titolo per la foto: “Prospettiva Niente”, nel senso che nessuno, se non la superstizione, può prevedere che quest’anno sia finalmente quello dell’emancipazione dalla malattia. Nella vetrina di un fioraio ci sono ancora dei vasi con le stelle di Natale. Non so perché ma mi viene da parlare da solo per ricordarmi che non sono integerrimo. Non fate come me. Non prendetemi di esempio, mi verrebbe da scrivere in uno di quegli avvisi che si appendono sulle bacheche pubbliche con il numero di telefono stampato in tagliandi da strappare ripetuti per tutto il lato corto in basso. Cerco sul manuale d’istruzioni della macchina fotografica il modo per rendere più efficace lo zoom digitale ma qualcuno lo ha scambiato con un libercolo di aforismi dal retrogusto filosofico, mai così fuori contesto. C’è scritto che c’è sempre da scrivere e che è per questo che è importante arricchire il lessico degli esseri umani sin da quando sono piccoli. Coltivare la scrittura a partire dai rudimenti, dalla grammatica, dalla struttura del periodo, dalla forma al servizio della sostanza. C’è anche un disegno con la silhouette di omino che scarabocchia un taccuino con uno di quei lapis di una volta e ha un sorriso inequivocabile stampato sulla faccia. Mentre guidavo per arrivare qui il tempo è peggiorato e ho pensato al grande dilemma di interrompere il funzionamento dei tergicristalli in galleria quando piove, considerando che se c’è traffico gli altri veicoli spruzzano gocce d’acqua (nel migliore dei casi) dall’asfalto sul parabrezza. Mi è sembrato un buono spunto da cui partire e l’ho memorizzato grazie al riconoscimento vocale del telefono perché ho pensato che, prima o poi, potrebbe tornarmi utile.

la guerra di Corea

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In caso di conflitto mondiale tra jazz e fusion sosterreste gli Akoustic o gli Elektric?

festival

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Qualcuno ha organizzato al Teatro Ariston in corso Magenta a Milano – che a differenza di quello in cui si tiene il celebre festival della canzone italiana sfoggia un’insegna con il logo della nota marca di elettrodomestici – un evento che sta a metà tra una performance di arte contemporanea basata su un concept, per capirci una cosa tipo “The Artist Is Present” di Marina Abramovic ma molto, molto più provocatoria, e un evento di marketing non convenzionale per il lancio di un nuovo prodotto editoriale. Un happening per intellettuali ma dal carattere piccante che accende la curiosità anche delle persone normali il cui orientamento estetico si esaurisce nelle stampe già incorniciate e disponibili in posti come l’Ikea o il Leroy Merlin. Un regista molto off del circuito indipendente girerà scene pornografiche abbinando sconosciuti a professionisti del settore per una pellicola da presentare alla Biennale. Ha messo un annuncio su una rivista di appassionati e, all’evento, si sono presentati a migliaia da tutto il mondo.

In coda al botteghino per confermare la registrazione effettuata online ci sono anche Federico, sua moglie, la sorella della moglie e il cognato. Attendono il loro turno ma, con il loro fare sarcastico tipico dell’intellettualismo di un certo tipo alle prese con i fenomeni di massa, si trovano a ventilare la possibilità di mollare il colpo, in mezzo a quella ressa. Nessuno vuole perdere tutto quel tempo. L’organizzazione però riesce a sorprenderli per efficienza e, in men che non si dica, eccoli a ricevere indicazioni dalla receptionist.

Gli vengono indicati gli spogliatoi – separati per genere come in piscina – in cui troveranno una cassetta di sicurezza in cui chiudere indumenti ed effetti personali e un accappatoio in spugna bianco da indossare. Federico porta però con sé lo smartphone e resta con le scarpe da corsa con cui si è presentato ma non lo biasimo: io addirittura non riesco a stare scalzo nemmeno sulla sabbia al mare. Il fatto è che i tempi di attesa per le riprese sembrano lunghissimi e qualcuno consiglia loro di approfittare del bar per bere qualcosa. I quattro si accomodano a un tavolo ma decidono di ordinare una bottiglia di acqua frizzante al posto del prosecco. L’alcool potrebbe compromettere la riuscita della scena che ciascuno – singolarmente – dovrà interpretare con il partner che gli verrà associato.

Dopo appena un bicchiere Federico avverte l’impulso di andare in bagno. Si accorda con gli altri per non perdersi nella folla che, nel frattempo, ha raggiunto una quantità fuori controllo e si avvia alla toilette che, manco a dirlo, è presa d’assalto. Così si precipita in strada, fuori dal teatro, alla ricerca di un qualsiasi wc pubblico e si mette in cammino fino a imbattersi in uno di quei cabinotti di plastica che si installano nei cantieri. Le condizioni dentro sono deplorevoli ma lo stimolo è ormai impellente. Nel tentativo di non sporcare la suola delle sue Brooks Glycerine nuove con l’urina sparsa sul fondo riesce comunque a portare a termine la missione in maniera rocambolesca. Peccato però che i lembi dell’accappatoio si bagnino, facile immaginare di cosa.

Al momento di rientrare nel luogo dell’happening si accorge però che la via del ritorno non corrisponde più con quella dell’andata, un topos della letteratura onirica. Prova a seguire quel briciolo di senso di orientamento che l’imbarazzo di camminare nel centro di Milano conciato così gli lascia, ma senza successo. Per fortuna ha con sé l’inseparabile app di Google Maps e, impostata la destinazione del percorso sullo smartphone, riesce a ricongiungersi con gli altri.

Manca ancora molto al loro turno e la tentazione di visitare la galleria commerciale annessa al teatro è forte. Il mall comprende infatti un punto vendita di una catena che ritenevano fosse presente solo all’outlet di Vicolungo e così ne approfittano. Mentre attendono le mogli fuori dai salotti di prova, suo cognato manifesta impazienza per scoprire in cosa consisterà la scena di cui sarà protagonista a breve. Federico mette a freno la sua smania, ricordandogli che, sicuramente, il sogno si interromperà prima che l’altoparlante chiamerà i loro nomi per presentarsi sul set.

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Non oso pensare a quale sia stata la perdita economica nel settore dell’abbigliamento dall’inizio della pandemia. Milioni di persone che, all’improvviso, non escono più di casa e per i quali rinnovare il guardaroba non è più una priorità. Non solo. Il rischio di contagio in spazi al chiuso presi d’assalto durante i saldi dai fanatici dello shopping fa apparire i negozi di vestiti e scarpe come luoghi tutt’altro che sicuri, in un momento di emergenza sanitaria. C’è da chiedersi che ne sarà dei miliardi di miliardi di indumenti e calzature messi in commercio nell’ultimo anno e rimasti invenduti. Mi riferisco soprattutto ai prodotti della fast fashion, settore in cui già il valore e la qualità erano considerati irrisori prima, a fronte di quantità esorbitanti di capi creati e distribuiti per una vendita al dettaglio capillare. Il punto è che in un mondo di gente che è costretta a stare in casa vestirsi bene è diventato secondario. Certo, persino certa psicologia da università della vita ha provato a convincerci che, sebbene in telelavoro, non dobbiamo abbruttirci e a non presentarci davanti al pc in camicia sopra e pigiama sotto lo facciamo per noi stessi. Io, fino a un certo punto, ho mantenuto un discreto decoro. Poi, complice l’estate, ho mollato un po’ i principi e ho ceduto alla comodità. Il fatto è che stare in casa con pantaloni e cintura non è proprio il massimo del confort. In definitiva, per quasi tutti noi la stagione invernale che stiamo vivendo l’abbiamo affrontata con lo stesso guardaroba di quella passata perché oramai è un anno esatto in cui le occasioni per sfoggiare la nostra eleganza sono pressoché nulle. Fanno bene le case di moda a pubblicizzare gli indumenti per stare in casa e a puntare su uno storytelling in cui, sdraiati sul divano a leggere o a guardare la tele, non si sta poi così male, e tutte le attività che prima svolgevamo fuori all’aperto in totale libertà ora siamo costretti a farle chiusi tra le mura domestiche. Chi non vorrebbe, infatti, tenersi in forma e rilassarsi in casa come (e con, perché no) la protagonista dello spot dei leggings Calzedonia?