sanremo 2021, le pagelle della prima serata

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Fiorello e Amadeus: solito stile da Veraclub con l’aggravante del karaoke nel 2021. Le canzoni che non c’entrano, in un festival della canzone, sviliscono la canzone in sé e banalizzano lo show.
La tipa di Undoing: bella sciolta, bella e sciolta.
Intermezzi pubblicitari: spot in grande spolvero, Netflix su tutti. Sanremo ormai è come il Superbowl.

Ma passiamo alla musica.
Arisa: sembra una canzone di Arisa di qualche tempo fa, comunque una merda.
Colacoso e quell’altro: una merda, in più vestiti da cani.
Aiello: e chi cazzo è questo? Comunque una merda.
Michielin e Fedez: una merda, i duetti melodia e rap e poi ancora melodia hanno ampiamente rotto il cazzo. A loro il premio del mai più senza, secondo la rubrica di Cuore. Leggete qui:

Sanremo 2021, il tifo di Chiara Ferragni e il messaggio “nascosto” della camicia di Fedez: Fedez si è esibito sul palco dell’Ariston insieme a Francesca Michielin. A casa, sua moglie, Chiara Ferragni ha fatto il tifo insieme al figlio Leone. Nel pomeriggio proprio Leone aveva indossato una camicia speciale, uguale a quella con cui Fedez si è poi esibito a Sanremo. Sulla camicia Versace c’erano 4 lettere, le iniziali dei nomi di tutti i componenti della famiglia e una “V” in più. Per i fan si tratta di un indizio sul nome della prossima figlia della coppia, ed è scattato il totonomi.

Da Repubblica. Ma andate affanculo voi, Fedez e la Ferragni. E anche i loro figli.

Loredana Bertè: un plagio di una canzone di Loredana Bertè, anzi più di uno. Ah ma non era in gara? Peccato.
Max Gazzè in quota Salvi, Pippo Franco, i Figli di Bubba, Elio e le storie tese e tutto l’umorismo canoro e demenziale che ha calcato il palco di Sanremo. Che barba, in tutti i sensi.
Noemi due punto zero: brano perfetto per la gara, potrebbe anche vincere.
Achille Lauro conciato come un Peter Gabriel da balera. Fa della filosofia da tanto al mucchio e si prende troppo sul serio. Lo preferivo coatto ai tempi di Thoiry.
Esordisce la canzone scomposta, con Madame, una di quelle che vanno di moda adesso. Ci vogliono i sottotitoli e un buon metronomo. La regia nel ritornello fa venire mal d’auto. Ma le nuove generazioni – se seguissero Sanremo – sarebbero a loro agio.
Maneskine: stavo giusto pensando che fine avesse fatto il rock nella musica italiana, poi sono saliti sul palco loro e probabilmente il karma come un boomerang mi si è ritorto contro e mi ha punito. Ho capito che fine ha fatto il rock e perché nessuno vuole più suonarlo. Per quanto riguarda il pezzo, la lezione dei Little Pieces of Marmalade è servita almeno a qualcosa, come se fosse tutto un magna magna. Comunque una merda.
Ghemon: non ci ho capito un cazzo ma ho avuto un rigurgito di Jamiroquai. Vestito malissimo, si muove come un rapper goffo. Gli acuti sono da migliorare, ma nell’insieme insignificante.
Coma undescore cose: non è tanto che siano stonati, è che ci vorrebbe per loro un buon logopedista. Molto meglio quando cantavano sì con riso senza lattosio.
Annalisa: il giro di accordi è da sempre lo stesso, ma forse è una scelta stilistica, quella di interpretare solo brani mediocri e tutti uguali. Ottima la scollatura made in Valbormida.
Francesco Renga: che brutta canzone. Peccato.
Fasma: dovrebbe togliere l’autotune e il gessato. Ma si sono messi tutti d’accordo per vestirsi così male? La solita trappata romantica strasentita e, per di più, il ragazzino tiene il fiato a fatica. Nell’insieme il meno peggio.

A questo punto, speriamo nella seconda serata.

cinque minuti prima

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Il regolamento a scuola impone di farsi trovare in classe pronti ad accogliere i bambini almeno cinque minuti prima dell’inizio delle lezioni. Gli insegnanti sono responsabili di tutto ciò che accade tra le mura dell’aula in cui prestano servizio, mai lasciare gli ambienti incustoditi. A me piace arrivare con lauto anticipo, quando ho la prima ora. Almeno trenta minuti prima. Entro in classe, accendo il pc, metto un po’ di musica, firmo il registro elettronico, se occorre preparo il materiale per quello che farò, apro le finestre, sistemo se c’è qualcosa in disordine. Ma finisce che poi non riesco a fare niente di tutto questo perché la scuola è un ambiente di lavoro in cui c’è bisogno di confronto, spesso frainteso come voglia di chiacchierare. Saluto le colleghe che dalla cattedra vedo transitare in corridoio e se mi scappa di far seguire un “come va?” al “ciao” di circostanza posso dire addio a tutta la fase preparatoria della mia giornata lavorativa. Occorre fare dei distinguo, però. Capita spesso che qualcuno approfitti della calma apparente del pre-campanella per chiedermi aiuto per qualcosa: l’antivirus, il registro elettronico, la versione digitale del libro di testo, le casse del pc, il wireless, la LIM che non si accende perché qualcuno ha staccato la presa. Ma non sono poche le occasioni in cui, dopo i convenevoli (che poi ci si incontra ogni giorno, non capisco il bisogno di sincerarsi delle condizioni altrui in continuazione) ci si sposti abilmente sul piano personale per trovare un po’ di conforto a problemi di cui la scuola è solo un aspetto marginale. Io vengo da un ambiente professionale –  quello delle PR e della comunicazione – in cui ogni mattina tra colleghi ci si accoglie come se si ritornasse dalle vacanze ma poi, chiusa la porta dell’ufficio, ci si manda bellamente affanculo. Nel resto della giornata si conversa esclusivamente al telefono con clienti e fornitori con la stessa dinamica: sorriso smagliante durante la chiamata e, una volta appesa la cornetta, un ma vai a cagare non si risparmia a nessuno. Al netto delle telefonate non vola una mosca, se non per lamentarsi ad alta voce di una email non gradita. La pausa pranzo funziona anche come armistizio. Si riallacciano i rapporti con i colleghi giusto per il tempo di ingurgitare un’insalata da quindici euro e un caffè. Quindi torna tutto come prima. La scuola per fortuna è l’opposto perché intanto è frequentata da gente che se la tira molto meno e poi la relazione non commerciale favorisce conoscenze piuttosto sincere e approfondite. In tempi di riunioni esclusivamente in videoconferenza, durante quei venti minuti prima che entrino i bambini si concentrano così le ore che una volta si passava a costruire rapporti di una vita, al netto del turn-over che è tipico dell’organizzazione scolastica. Insomma, per farla breve, arrivo sempre prima ma non riesco a concludere un tubo. Alle otto e venticinque i miei bambini, perfettamente incolonnati, marciano fino alla classe, fanno la fila davanti all’igienizzante per le mani e, uno ad uno, si dirigono alla loro postazione. Io spengo la musica, rimetto a posto quello che avrei dovuto preparare ma non ci sono riuscito e penso che dovrò cominciare a presentarmi davvero cinque minuti prima, come fanno le colleghe che non hanno bisogno di sfogarsi con me.

washington

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L’ultima funzionalità di Google Maps permette di zoomare al 100% fin sopra gli edifici. Ho provato a farlo con il mio, sono uscito sul balcone e ho visto proprio la lente di ingrandimento avvicinarsi minacciosa. Ma non c’è niente di cui aver paura perché, si sa, è tutto virtuale. Muovendosi con il cursore sopra, il tetto dei palazzi a mouse over cambia colore come gli ipertesti di una volta e si visualizza il nome e il cognome di chi ci abita. Se il caso lo richiede, cliccando sopra si apre qualcosa. Per esempio la coppia della famiglia con tre figli che ha comprato la villetta a schiera qui di fronte – avete presente quella in cui abitavano i tre gemelli frutto di una procreazione assistita, ma per questo non c’è nulla di cui preoccuparsi, Google Maps non riporta pettegolezzi. Se clicchi sul nome di lui ti fa vedere l’ultima foto che ha postato su Facebook, quella in bici con il cane scattata al parco ieri mattina all’alba. Credo che sia un ingegnere ambientale. Lei invece è un avvocato di grido e c’è un video in cui va a far la spesa con i figli, tutti con la polo con il colletto tirato su. Naturalmente se clicco su di me finisco qui, sul mio blog. Mia moglie, invece, linka direttamente con via Washington perché è il desiderio più recente in ordine cronologico espresso. Se non vi compare, basta svuotare la cache di Chrome. Ha trascorso la giornata di venerdì a casa di una collega in via Washington per portare a termine un progetto e, da allora, non fa altro che dirmi che le piacerebbe tantissimo abitare in via Washington perché via Washington è bellissima e si può uscire di casa anche solo per fare quattro passi e, in quattro passi, sei alla Feltrinelli di piazza Piemonte o in quella panetteria dove fanno la focaccia ligure. Qui da noi, dove se zoomi al 100% sugli edifici vedi chi ci abita dentro, esci soltanto con uno scopo. Se hai qualcosa da fare. La spesa, una commissione, andare in posta, fare una corsetta. Altrimenti è tutto talmente brutto che è meglio stare in casa. Il problema è che le case in via Washington, dove puoi permetterti la privacy di non essere rintracciato da nessun motore di ricerca, costano tre se non quattro volte la nostra e non ce le potremmo mai permettere. Fatevi un giro su immobiliare punto it e poi ne parliamo. Cliccando su mia figlia, poi, non c’è niente di cui ci si possa lamentare. Devo ammettere che è molto seria, studia tantissimo e non sembra risentire in modo evidente della clausura a cui è soggetta a causa della pandemia. Abbiamo commentato insieme l’iniziativa #ultimoconcerto, e persino lei ammette che è vero, nessuno dovrebbe rimanere indietro in questa crisi senza precedenti, ma che se già scegli di fare un lavoro che comprende un fattore di rischio – quello di piacere al pubblico – che non ha eguali, purtroppo devi mettere in conto che ci sono pochi anelli più deboli della società rispetto al tuo, e ve lo scrive uno che si compra un disco alla settimana. Come per gli altri settori economici, vediamo quanto era il tuo fatturato dichiarato in tempi normali e, in base a quello, cerchiamo di elargire un ristoro in percentuale adeguato. Per finire, invidio quelli il cui link indirizza direttamente alla propria pagina di Wikipedia. Io ho provato ad aggiungere la mia più volte ma poi, alla fine, ho desistito. Che cosa potrei dire? Meglio tenersi stretto uno spazio in cui scrivere racconti come questo. Anzi, se provate a cliccare adesso mi vedete sveglio in pigiama alle quattro del mattino ma è perché ho mangiato ieri sera gli avanzi dello spezzatino con i peperoni e il cous cous allo zafferano e mi è venuta sete.

weekend

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il nuovo sistema di valutazione della scuola primaria for dummies

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Se avete figli più o meno dell’età della mia, usciti cioè dalla scuola primaria negli ultimi dieci anni, vi sarete imbattuti in quello che spesso veniva indicato come generatore random di giudizi del primo quadrimestre, una sorta di sistema pensato per assemblare (casualmente per i genitori, con un certo metodo a detta degli addetti ai lavori) una combinazione di frasi copiate da una matrice di dubbia provenienza (il ministero? una commissione valutazione? qualche collega mitomane? plagio da analoghi documenti precompilati e pubblicati sul web da un altro istituto comprensivo? davvero un generatore random?) in dotazione ai docenti e incollate sulla pagella con l’obiettivo di trasmettere l’idea che gli insegnanti dei vostri figli hanno a cuore – appunto – i vostri figli e – appunto – i vostri figli non sono solamente un ottimo, un buono, un sufficiente o un insufficiente, tantomeno un valore da zero (che nessuno farebbe mai andare sotto il sei pena lo scatenarsi di un sabba di ricorsi) a dieci.

L’esistenza di una matrice da cui copiare e incollare le frasi per la composizione dei giudizi è da intendersi come frutto della volontà di standardizzazione del processo valutativo in una griglia in cui riuscire nell’impresa di collocare tutti gli studenti nella loro immensa eterogeneità ma secondo i medesimi parametri. Chi non è del mestiere, invece, vive nella convinzione che i giudizi siano alla fine tutti uguali perché – fondamentalmente – gli insegnanti non hanno voglia di fare un cazzo malgrado i quattro mesi di vacanza al netto delle festività natalizie, il carnevale e la Pasqua.

E in effetti, se proprio proprio noi insegnanti facciamo lo sforzo di vedere le cose dal punto di vista degli altri stakeholder della scuola, considerando che la valutazione è o, per lo meno, costituiva fino a ieri l’altro il fulcro della didattica, uno che non è del mestiere può chiedersi (e chiederci) perché non ci sia mai passata per la testa l’idea di personalizzare quei giudizi standard mantenendo l’impostazione di base ma arricchendo l’ossatura, stilando cioè, per ogni caso, un ritratto individualizzato dello studente nella sua esperienza didattica. Vi faccio un esempio.

Matteo ha mantenuto un interesse costante per le attività scolastiche. Buoni sia la partecipazione che l’impegno dimostrati. Ha svolto i lavori con precisione e cura sapendosi organizzare in modo efficace e autonomo. Ha saputo utilizzare i linguaggi delle diverse aree disciplinari adeguatamente rielaborando le conoscenze acquisite.

Smanettando nel back-end del registro elettronico c’è una funzionalità che permette di creare una struttura di giudizio di questo tipo, con un arsenale di aggettivi che variano le frasette suggerite e permettono di ottenere una scala graduata mimetizzata da storytelling educativo. Sta agli insegnanti corredarla di particolari ma, si sa, nel pubblico non tutti sono pronti a prendersi la responsabilità di allontanarsi dalle linee guida. Il motivo? Se a un genitore salisse la fregola di sbandierare gli obiettivi ministeriali e il piano triennale dell’offerta formativa della scuola sotto il naso del dirigente chiedendo lumi circa le discrepanze rispetto al percorso didattico (e conseguente valutazione) proposto al figlio, il dirigente, che per uno stipendio da fame si accolla ogni tipo di responsabilità su tutto ciò che rientra nei confini fisici, morali, legali e digitali della scuola che presiede, si precipiterebbe immediatamente a chiedere la testa del docente inadempiente e, come uno di quei video con le tessere del domino che cadono una sull’altra coreograficamente a perdita d’occhio, si innesterebbe una catena di reazioni nella grande chiesa dell’istituzione scolastica che parte dai sindacati e arriva sino al TAR passando per il provveditorato provinciale e regionale e il consiglio d’istituto. Questo è uno dei motivi – in generale, non solo per la valutazione – per cui chiunque a scuola se ne guarda bene dal prendere l’iniziativa per qualunque cosa e quando – faccio un esempio – fai per buttare nel cestino un cd rom di installazione per Windows 95 marchiato come asset della scuola e che nessuno usa più da – appunto – dal 95, ti guardano come un appestato, considerando che occorrerebbe mettere in moto una catena di attività per lo scarto senza senso per le persone normali, considerate invece sacre dagli ortodossi della pubblica amministrazione. Quindi, per farla breve, i genitori di Matteo, Elisa, Filippo, Rebecca e di tutti gli altri si ritroveranno la stessa solfa sulla pagella scoprendo, al primo confronto nel gruppo Whatsapp di classe, che ogni bambino, agli occhi del sistema valutativo e degli insegnanti, non ha niente di speciale.

Il fatto è che nell’anno in cui la scuola (come tutto ciò che ci riguarda) è stata rivoltata come un calzino da una creatura dalle dimensioni che variano da 50 a 140 nanometri, che a dirla tutta non so nemmeno quanto sia ma l’ho trovato qui, alla primaria è stata messa in atto una trasformazione senza precedenti: voti e giudizi sono stati soppiantati da indicazioni sul livello che lo studente ha raggiunto negli obiettivi di apprendimento definiti nel piano dell’offerta formativa. Chiaro, no?

MA CHE COSA SONO GLI OBIETTIVI DI APPRENDIMENTO?

È la destinazione, materia per materia e anno per anno, verso il raggiungimento della quale il docente deve guidare lo studente con la sua attività di mediatore tra disciplina e apprendimento. Gli obiettivi di apprendimento sono organizzati in categorie chiamate nuclei fondanti. Per esempio:

classe: seconda
disciplina: matematica
nucleo fondante: risolvere problemi
obiettivo: riconoscere diverse situazioni problematiche individuando possibili soluzioni

oppure
classe: seconda
disciplina: matematica
nucleo fondante: spazio e figure
obiettivo: riconoscere, rappresentare e misurare forme del piano e dello spazio dell’ambiente circostante.

L’insegnante prepara gli studenti in modo da fornire supporto al conseguimento di questi obiettivi,  nell’esempio che ho riportato alla fine della seconda. Un percorso che, naturalmente, prevede prove in itinere che vanno valutate. Fino allo scorso anno la scala di valutazione di ogni prova erano i giudizi (ottimo, distinto ecc…) ma due anni fa c’erano i voti. A fine quadrimestre e a fine anno l’insegnante calcolava la media dei risultati e emetteva un giudizio o voto finale per ogni disciplina (italiano, matematica ecc…) corredato da un giudizio globale secondo i criteri che ho riportato sopra. 

Ora invece le cose sono cambiate e, per capirle meglio, è bene partire dal fondo. A fine quadrimestre e a fine anno non si valuta più la disciplina ma i singoli obiettivi di ciascuna disciplina, indicando il livello (avanzato, intermedio, base o in fase di prima acquisizione) raggiunto dallo studente, secondo il suo insegnante. Per esempio, in matematica il livello di Matteo per l’obiettivo “riconoscere diverse situazioni problematiche individuando possibili soluzioni” potrà essere avanzato, mentre per l’obiettivo “riconoscere, rappresentare e misurare forme del piano e dello spazio dell’ambiente circostante” potrà essere intermedio. Tutto questo per ogni materia.

Ogni prova in itinere, pensata per testare la familiarità del bambino con gli argomenti trattati, è anch’essa valutata a livelli. Risulta fondamentale infatti superare ogni rimando alla terminologia di valutazione usata in precedenza. Ne consegue che indicatori come buono, sufficiente e ottimo sono da evitare come la peste. Quindi, ancora per fare un esempio, lo svolgimento di una verifica contenente dei problemi riconducibile all’obiettivo “riconoscere diverse situazioni problematiche individuando possibili soluzioni” potrà essere valutata di livello avanzato, intermedio, base o in via di prima acquisizione, chiaramente a seconda di come è stata svolta, come sempre. A corredo del livello sarà fondamentale – sia per introdurre studenti e famiglie al nuovo sistema e sia per conferire autorevolezza a quanto espresso dal docente – approfondire i dettagli a giustificazione del livello attribuito. Se Matteo capisce il procedimento che porta alla soluzione del problema ma sbaglia il calcolo, il livello potrà essere lo stesso avanzato, per dire. Il docente scriverà, a rinforzo della sigla LA (livello A, cioè livello avanzato) che Matteo, vittima di un momento di distrazione, ha comunque centrato la finalità della prova. Il bello è che a fine quadrimestre e a fine anno non ci sarà più nessuna media numerica derivante dall’attribuzione di un valore a ogni livello. Si potrà, al contrario, definire un corposo profilo didattico del bambino e confermare (o meno) i progressi (o la debacle) di cui si è reso protagonista per ogni obiettivo. Tutto questo, ancora, per ogni materia.

Facile intuire quanto il passaggio da un metodo basato su un foglio di calcolo, in cui è sufficiente cliccare sul simbolo corrispondente per avere la media automatica, a una reportistica così particolareggiata sia stato uno shock per noi insegnanti della primaria. C’è molto lavoro in più. Ma è un’occasione da non perdere: finalmente bambini e genitori non faranno di tutto per avere voti alti con ogni mezzo e si estinguerà quella arcaica mentalità di confronto con i compagni di classe. Quanto ha preso Elisa? Quanto ha preso Rebecca? Calcolate qualche anno per trasformare la forma mentis dei docenti e altrettanti per cambiare l’approccio competitivo delle famiglie alla scuola. E poi, finalmente, lo sostengono quasi tutti, quando la macchina sarà a regime qualcuno troverà un nuovo sistema e tutto ricomincerà da capo. Io, però, questa volta sono fiducioso.

covid 365

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Facebook mi segnala che la ricorrenza della prima e improvvisa serrata nazionale anti-pandemica coincide paradossalmente con il compleanno di un conoscente che, dopo aver contratto il coronavirus, non ce l’ha fatta. Si leggono in giro numerose testimonianze sui dodici mesi appena trascorsi e, in alcuni casi, ci sono state addirittura celebrazioni poco ortodosse, come quella – rigorosamente in streaming come tutte le altre – che ha avuto una madrina d’eccezione. La sosia ufficiale della soubrette Madonna è comparsa all’improvviso nella stanza da cui gli organizzatori della kermesse avevano stabilito avrebbe dovuto trasmettere il suo cameo. Il look scelto per l’occasione è stato quello del periodo con i capelli corti, per darvi le coordinate siamo in pieni anni ottanta e il video di riferimento è quello di “Papa Don’t Preach”. Un balletto da una manciata di minuti e poi una veloce intervista concordata con la produzione. Non si è trattato di un intermezzo musicale fuori luogo e nessuno ha mancato di rispetto a nessuno. Piuttosto un esempio di chi ha saputo, attraverso la resilienza, adattarsi ai vincoli imposti dalla gravità della situazione per sbarcare il lunario. Ma non sono stati solo i lavoratori dello spettacolo quelli travolti da una cosa più grande di loro. Il fatto è che nessuno avrebbe mai pensato di trovarsi, dodici mesi dopo, con il problema ancora parzialmente irrisolto. Ok, ci sono i vaccini e i governi di unità nazionale. Ma c’è anche gente che sta dando di matto e non sono l’unico a percepire un latente stato di follia collettiva. A scuola ci guardiamo ma, per scaramanzia, non diciamo nulla. Siamo giunti indenni al giro di boa del carnevale. Lo scorso anno c’eravamo salutati prima senza nemmeno terminare l’attività delle maschere e poi non ci eravamo più visti se non su Google Meet. Ma fuori è tutto diverso. Qualcuno è riuscito persino a vendere i diritti del suo blog e vedrà alcuni dei suoi racconti tradotti in una sorta di serie tv, una promozione di status esclusiva riservata a chi ha partecipato ai play off dell’anno precedente del campionato nazionale di mitomania. Se capitasse a me ho già pronta la musica per la sigla iniziale, sapete che le sigle sono piccoli capolavori all’interno di queste produzioni hollywoodiane e bisogna pensarci con attenzione. Io ho scelto “A Night Like This” dei The Cure. Il motivo? Si tratta di un disco che ho continuato ad ascoltare nel tempo malgrado ogni decennio che ha attraversato imponesse canoni estetici diversi, in alcuni casi antitetici. E poi, oggi, i generi musicali sono talmente mescolati che nulla stona più, a differenza di una volta. O forse è il contrario: siamo talmente immersi nella cultura liquida che c’è bisogno di aggrapparsi a un sostegno per non lasciarsi trascinare via dalla corrente.

 

carte bollate

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Non so come lo viviate negli altri capoluoghi. Qui, alle porte di Milano, il concetto di città metropolitana rende perfettamente l’idea. Mentre a sud tra navigli e nutrie gli agglomerati urbani si stemperano fino ad assumere le sembianze di parco agricolo, a nord l’urbanizzazione si estende senza soluzione di continuità tra paesi complementari tra di loro fino nel cuore delle province con cui confiniamo. A osservare una mappa o una qualsiasi raffigurazione dall’alto la composizione del territorio è piuttosto netta. A passarci dentro, invece, la rappresentazione risulta meno rigorosa. L’hinterland è molto meno ordinato e decifrabile. Si fa fatica a capire dove finisca un paese e dove cominci quello dopo e, in certe strade provinciali che fanno da confine, persino la segnaletica toponomastica si alterna e si ripropone secondo un meccanismo casuale, per i non addetti ai lavori, ed è complicatissimo raccontare a qualcuno dove ti trovi, nel caso fosse necessario. Allo stesso modo, definire dove si trovano certi posti e dare indicazioni è una pratica aleatoria, nessuno oramai si sogna più di chiederle.

A un anno dal primo caso di Covid, Bollate – periferia nord ovest di Milano – è stata declassata a zona rossa. Un puntino di contagio di colore più intenso rispetto a tutto il giallo che c’è attorno. A Bollate va tutta la mia solidarietà perché Bollate è a poco più di un km da casa mia. Da Bollate si estende il parco dove spesso vado a correre, c’è la cartoleria come quelle di una volta, gestita da due anziani che è chiaro che, quando andranno i pensione, la cartoleria non esisterà più. A Bollate c’è un’associazione culturale che ha organizzato una ciclo-staffetta per riportare a casa l’agenda rossa di Paolo Borsellino, c’è la mia erboristeria di fiducia e l’Arcaplanet in cui faccio rifornimento di cibo per la gatta. Ora però ogni varco stradale per entrare a Bollate è presidiato da forze dell’ordine, protezione civile e giubbe fluorescenti e fa impressione passarci davanti. Bollate è anche il primo posto in cui ho abitato quando mi sono trasferito da Genova, ho trovato quindi una certa continuità tra zone rosse. Transito in macchina davanti ai posti di blocco e mi ritorna in mente il giorno prima dell’inizio del G8, quando ho percorso a piedi l’intero perimetro dell’area off-limits. Il problema è che, davvero, il territorio comunale di Bollate sembra estendersi ovunque in ogni direzione, qui intorno. Noi del paese vicino ci sentiamo circondati e intrappolati, anche se le vere vittime sono loro, i bollatesi, a cui va tutto il nostro cordoglio.

the great gig in the school

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Quando Matteo arriva, la mattina, lo sentiamo tutti. Matteo ha un selettore interno che sostituisce il classico potenziometro di cui la maggior parte di noi è provvista e che ci consente – ruotando un manopolone – di passare da uno stato d’animo all’altro in modo graduale, tale che ogni valore della scala permetta al prossimo di intuire la percentuale di incremento del livello successivo e, nel caso, adottare le adeguate precauzioni.

Matteo invece ha una levetta che passa da zero alle urla strazianti che emette per esprimere qualunque situazione di disagio provi. Negli asperger ogni piccola variazione della routine può risultare fatale ma tutto il personale scolastico che segue Matteo se ne guarda bene. La cause che lo mettono in crisi risultano, ad oggi, molto spesso imperscrutabili. Segue un orario ridotto che regolamenta ingressi e uscite diverse dal resto delle classi. E se per tutti è lunedì, per Matteo è lunedì al cubo. Non ho idea di come rappresenti (e cosa rappresenti) nella sua testa il rientro a scuola dopo il fine settimana a casa. Io lo chiamo “the great gig in the school” e non lo dirò mai a nessuno perché su certi temi non si scherza, specie se appartieni alla categoria di chi si prende cura dei bambini. Avete capito: la performance di Matteo mi ricorda uno dei miei brani preferiti dei Pink Floyd, quello che si contraddistingue per il lungo assolo vocale di Clare Torry che – ma forse lo sapete già – si è trovata quasi per caso a incidere una delle tracce più iconiche della storia della musica.

Il titolo del brano estratto da “The Dark Side of the Moon” non lascia dubbi: il grande spettacolo nel cielo, che io ho sempre inteso come un modo umano – il canto – di sfidare la bellezza e la complessità dell’universo facendoci sentire in quello spazio infinito e oscuro occupato solo da un prisma, ma forse mi sbaglio. Matteo entra a scuola e, soprattutto se è lunedì, parte con il suo assolo di urla atroci di bambino e va avanti per un bel po’. Un bel po’ che a volte dura anche quindici o venti minuti, ho provato a controllare.

Io che spesso tengo la porta della classe aperta perché fa caldo e perché è meglio aerare le aule il più possibile, in tempi di pandemia, mentre mi precipito a chiuderla mi chiedo che cosa capiscano i miei bambini – che sono ancora piccoli – di quel concerto. Me lo chiedo perché quando arriva Matteo e inizia il suo assolo mi scrutano in viso perché vorrebbero avere una spiegazione o anche una risposta. Forse ce l’hanno già e vogliono solo mettermi in difficoltà. E, in quel frangente, potrebbero farlo in mille modi diversi.

La cosa si ripete ogni settimana, ci sono certi periodi in cui urla ogni giorno. Mi alzo per chiudere la porta, guardo fuori e scambio un’occhiata con le colleghe che si occupano di lui. Le guardo perché vorrei dire loro che le ammiro perché io, davvero, al posto loro non saprei come cavarmela. Vedo Matteo sdraiato sul pavimento e le colleghe che cercano di portare la levetta del selettore a zero ma è molto difficile. E come la canzone dei Pink Floyd, che è senza parole, ognuno tenta un’interpretazione del significato del grande spettacolo di Matteo. Così ho imparato a prendere la sua arte così come è, senza cercare tante spiegazioni. Ogni compositore ha tutto nella sua testa. Non vedo perché Matteo dovrebbe svelarci il suo mistero.

cose che si ripropongono

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Non sono pochi i siti dei foodblogger e quelli più istituzionali, come Giallo Zafferano, che consigliano di conservare il pesto – ma anche altre salse – in forma di monoporzioni negli stampi che tradizionalmente impieghiamo per i cubetti di ghiaccio. L’ex compagno di Anna ne possiede uno verde acido di marca Alessi che permette di creare vere e proprie capsule ovoidali che, una volta estratte, fanno una certa scena. Ma solo con i liquidi e nei long drink. Il pesto, lo saprete meglio di me, non gela perfettamente e gli ovetti estratti dal freezer hanno una consistenza particolare per cui non risultano lisci. Non per questo la tecnica è poco efficace.

Dario ha ricevuto lo stampo pensato per il ghiaccio – ma poi hackerabile a piacimento – in dono da Anna in occasione dell’ultimo compleanno che hanno trascorso insieme, prima di separarsi di lì a poco. Il regalo comprendeva anche un tostapane e una specie di piccolo tritatutto/miscelatore da cucina che Dario paradossalmente utilizza tutt’ora al posto del tradizionale mortaio ligure che la disciplina più rigorosa imporrebbe per pestare il basilico e i pinoli fino a mescolare il tutto con olio e pecorino. Ho omesso l’aglio volontariamente, considerando che a non tutti piace. Nella scorta che Dario ha surgelato per l’inverno l’aglio però è un ingrediente abbondante. Ieri sera ha cucinato una pasta e poi, con i tre ovetti di pesto ormai scongelati rimasti, si è preparato altrettante tartine utilizzando una base di fette wasa, quella specie di cartone che, mangiato al posto della focaccia, ti fa già sentire più magro solo appena lo compri.

Una cena tematica non a caso: Dario voleva rivedere Anna per capire se entrambi fossero ancora mossi l’una per l’altro, a distanza di così tanto tempo e di così tanto spazio, rispetto alla loro giovinezza e alla Liguria. Una specie di prova del nove per verificare se la scelta di prendere strade diverse vent’anni prima fosse stata quella più lungimirante.

Il fatto è che dopo sono finiti a letto, e la scelta di un condimento così ingombrante dal punto di vista sinestesico ha fatto purtroppo la differenza. Nella notte Dario ha persino sognato la nonna paterna, morta qualche mese dopo la vittoria della nostra nazionale di calcio ai mondiali dell’82. Si presentava all’improvviso con i capelli color argento ben pettinati e con il cappotto nero con il collo di pelliccia nella stanza in cui giaceva con Anna. Dario si precipitava a vestirsi ma, per sbaglio, cercava di infilarsi le collant di lana nera di Anna. Si sentiva a disagio per aver ceduto alla curiosità di rivedersi con l’ex compagna e se ne vergognava. In certe scelte non si torna mai indietro, su questo sarete pienamente d’accordo.

I due, poi, uscivano per recarsi a un concerto ma Dario era costretto dall’età avanzata su una carrozzina. Anna lo spingeva da dietro. Lo spettacolo si sarebbe tenuto sull’antica fortezza, in un punto inaccessibile per i disabili soprattutto per l’acciottolato della via d’accesso. A ridosso della biglietteria in cui avrebbero chiesto il pass per l’area riservata alle sedie a rotelle c’era un manifesto dei Blur e due sorelle gemelle che si facevano un selfie. Dopo, Anna incontrava alcuni suoi vecchi amici scout – con l’uniforme nera al posto della tradizionale blu e verde – allo stand della birra che la salutavano con una di quelle coreografie che utilizzano i giovani nei film americani ma che poi, nella realtà, si emulano solo per mero citazionismo.

Dario si preoccupava così per il fatto che, battendosi reciprocamente il palmo delle mani, aumentavano il rischio di contagio del Coronavirus ma, una volta sveglio, aveva realizzato che nessuno dei protagonisti indossava la mascherina. Fuori era ancora inverno, i parabrezza delle auto ricoperti di ghiaccio e il basilico sul balcone non sarebbe comunque sopravvissuto.

dicono che si sono sciolti i Daft Punk ma io non ci casco

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