per aspera ad astrazeneca

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Se potessi valutare il Drive Through del Parco di Trenno di Milano, ubicato qui e organizzato dagli Ospedali San Paolo e San Carlo, come si fa come i corrieri Amazon a cui puoi dare cinque stelle (non nel senso dei grillisti) e poi aggiungere che sono stati puntuali, cortesi e si prendono cura sia del prodotto – in questo caso un ago da infilzare nel braccio per riempire il sistema immunitario del cliente del vaccino contro la malattia del momento – che, appunto, del cliente, darei il massimo dei voti e metterei una di quelle recensioni da nerd in cui i fanatici dell’e-commerce descrivono l’esperienza di acquisto per filo e per segno, spaccando il capello. Niente coda, informazioni chiare, gente che sa il fatto suo e che ti smista nei punti in cui devi andare, personale sanitario che ti tira su di morale, persino carabinieri che ti prestano la bic rigorosamente senza cappuccio se ne sei sprovvisto per compilare i vari moduli (vi consiglio di portarvene almeno un paio, una per voi e un’altra da prestare a gente come me). La faccenda si sbriga nel giro di un’ora: sono arrivato con un quarto d’ora d’anticipo, sono stato vaccinato un quarto d’ora più tardi rispetto all’orario di convocazione, ho atteso un quarto d’ora nel parcheggio per scongiurare i postumi immediati più gravi e sono tornato a casa. La formula Drive Through, più che al McDonald’s, ti fa sentire all’imbarco della Tirrenia per la Sardegna, e se non fosse che è marzo e che non c’era nemmeno un California munito di maggiolina sul tetto e portabici colmo all’inverosimile guidato da tedeschi con sei figli al seguito, mi sarei messo a preparare il nécessaire per trascorrere la notte sul posto ponte con materassino, libro, Ichnusa e buona musica. Il fatto però è che non ho capito se la qualità del vaccino Astrazeneca sia in linea con il resto dell’equipaggiamento pensato per il personale scolastico, come i pc con processori degli anni novanta che i più scaltri fornitori iscritti al MEPA riescono a rifilare a DSGA poco avvezzi alla digital transformation (nei migliori dei casi), l’idea intrinseca delle LIM che sono una delle più clamorose truffe ordite ai danni della pubblica amministrazione, certi software per le attività di gestione quotidiana fatti con i Lego o l’offerta formativa in progress per i docenti, che in qualsiasi altro settore nessuno sceglierebbe nemmeno per gli addetti delle pulizie, senza nulla togliere alla professionalità degli addetti pulizie. Io spero di no e a poco meno di cinque ore dall’iniezione del vaccino più chiacchierato del momento posso dirvi che va tut

il bar come unità di misura della pressione a cui è soggetta la gente

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Il distributore Total su cui si affaccia casa mia è provvisto di un piccolo caffè con tanto di tavolini e sedie fuori, uno spazio esterno che la pandemia ha ridimensionato e in cui ora nessuno non può sedersi e consumare. Se c’è un benzinaio è facile intuire che la strada in cui è ubicato non è certo via dei Condotti, non ha il pavé e soprattutto negozi. C’è un discount poco più in là, qualche attraversamento pedonale, pericolosissimo quando viene sera, e poi una serie di rotonde che costringono il traffico a rallentare. Per darvi le coordinate, ci troviamo nell’hinterland milanese di nord-ovest in una sorta di arteria che devia il traffico fuori dal centro del paesino in cui ho sono residente. L’apparente mission del bar, prima del coronavirus, era principalmente quella di servire un caffè al volo a chi faceva rifornimento. In realtà nel tardo pomeriggio non era raro notare qualche addetto alla manutenzione stradale o qualche altro lavoratore in tuta blu – penso a elettricisti o operai del gas, sempre che si dica così – chiudere la giornata di fatiche outdoor con un bianco mosso o una Moretti da 66cl. Da quando siamo zona arancio scuro il bar del benzinaio ha messo un tavolino sulla porta per impedire l’accesso e servire i clienti solo per l’asporto. Ogni volta che passo di lì ci solo gruppetti di persone che bevono il caffè in bicchierini di plastica da distributore e fumano una sigaretta chiacchierando. Il culto del caffè e della sigaretta al bar a tutti i costi, anche se costretti in piedi, al freddo, fuori dal locale di un benzinaio in una strada di periferia con l’aggravante del rischio di contagiarsi e contagiare a causa del coronavirus mi ha lasciato incredulo. Non è meglio starsene a casa?

Arvo Pärt – Fratres

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Ho appena scoperto questa cosa bellissima, e qui ve la spiegano bene.

la musica si suona

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Il prof di musica tiene le sue lezioni a distanza in un’aula dedicata alla disciplina. Si capisce che è diplomato in percussioni perché il laboratorio è disseminato di metallofoni, marimbe, xilofoni, tamburi, timpani e c’è persino un gigantesco gong. Se avessi un gong in classe lo suonerei quando i bambini oltrepassano il limite. Ci sono le giornate in cui sono più vivaci, soprattutto durante le lezioni pomeridiane quando, con la scusa che sono stanchi, si lasciano andare a comportamenti che richiedono una capacità di sopportazione superiore da parte dei docenti. Io non ci credo, per me è tutta una scusa e se avessi il gong non esiterei a usarlo per convincerli a stare in silenzio. Una collega sfoggia sulla cattedra uno di quei campanellini da reception, avete presente? Non so quanto sia efficace, di certo meno di un gong. Il fatto è che l’aula di musica vuota con il prof che tiene le sue lezioni da lì come se fosse il comandante di una nave che sta affondando e il suo senso del dovere gli impone di abbandonarla per ultimo è di una tristezza infinita. Nelle sue lezioni spiega gli strumenti musicali. Ho già assistito alla presentazione degli strumenti a percussione – che sono quelli che tratta per primi – e dei legni. Ne spiega la struttura e il funzionamento e poi passa all’ascolto dei suoni, per abituare i suoi alunni al riconoscimento degli strumenti anche attraverso Youtube. Lo so perché ho trascorso qualche mattina al suo fianco. L’aula blindata con i dispositivi per la didattica a distanza da distribuire alle famiglie bisognose dà proprio sull’aula di musica e mentre spiega l’ottavino e il corno francese io configuro tablet e pc. Per tirarlo su di morale fischietto le arie che conosco quando le fa ascoltare sul computer. Tra due anni andrà in pensione ma non l’ho mai visto senza la giacca, i pantaloni di velluto e le clarks blu. Qualche alunno gli chiede se, oltre alla teoria, riusciranno a suonare da remoto. Lui mi guarda, poi guarda loro e ridacchia amaramente. Senza tanti giri di parole gli dice che sarà difficile, anzi impossibile, anche se così non è musica. La musica si suona.

codice prenotazione

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Non era mai successo che un portale della pubblica amministrazione attivato a una determinata ora di un determinato giorno per una determinata funzionalità non andasse in crash per il numero di accessi simultanei. Dalle otto di lunedì scorso ha preso il via la campagna di prenotazione per il vaccino anti-covid dedicato ai docenti e alle otto e quindici sono riuscito al primo colpo, ottenendo immediatamente un feedback dell’avvenuta operazione con tanto di codice. Qualche collega è già stata convocata e il sistema sembra piuttosto casuale perché si sono registrate dopo di me e, in un paio di casi, si tratta di insegnanti molto più giovani di me. Quindi non conta l’ordine di arrivo né il fattore anagrafico. Poi è girata la voce di tenere sotto controllo il fascicolo sanitario perché qualcuno ha messo in giro la voce che non si riceve nessun sms di avviso e si rischia di saltare il turno. Un’insegnante di sostegno che ha meno della metà dei miei anni ha avuto postumi dolorosissimi con febbre alta e vomito. Mia mamma e mia suocera, 172 anni in due, invece non hanno fatto un plissé. Io non ci ho capito niente ma mi sono lasciato prendere per sfinimento. Ora aspetto un segnale da qualcuno e spero che tutto finisca, prima o poi.

ma i måneskin non potevano crescere con la trap come tutti i loro coetanei?

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Il complesso di inferiorità nei confronti della musica di matrice anglosassone-statunitense da parte degli italiani non si spiega. Non si tratta di rivalità perché inglesi e americani giocano un altro campionato. Un po’ come gli azzurri di rugby umiliati a ogni edizione del trofeo delle sei nazioni che si ostinano a partecipare o il pallosissimo basket locale che, per darsi una dignità, si riempie di mezze calzette statunitensi che nell’NBA non farebbero nemmeno le mascotte.

Eppure vinciamo a mani basse con i tenori del calibro de “Il Volo” o Bocelli e siamo i primi nel mondo in certi ambiti come il Rinascimento, il Futurismo e la canzone d’autore. Se poi vogliamo aggiungere la solita paternale retorica sulle eccellenze del made in italy tra vino, corruzione, frecce tricolori, gastronomia, pressapochismo, manifatturiero e moda possiamo completare il quadro. Eppure da sessant’anni cerchiamo di ritagliarci con inspiegabile ostinazione uno spazio nel rock anglo-americano senza risparmiarci in figure di merda. Capiamoci: non sto dicendo che non ci siano esperienze di rock italiano dignitose, ma non è rock. Piuttosto è, appunto, rock italiano. Per farvi capire, la pizza di Domino’s è una pietanza squisita ma non è una pizza. Piuttosto è, appunto, una pizza americana. Una questione di nome. L’insalata è un cosa. L’insalata russa è un’altra.

Il fatto è che il rock italiano (che, ripeto, non è un sottogenere del rock ma una cosa a sé), da quando le ultime due o tre generazioni preferiscono i videogiochi, i social, smanettare con i programmi di audio editing sul computer e PornHub anziché deprimersi di frustrazione suonando il rock italiano per diventare rockstar di rock italiano, è definitamente sparito dalla scena.

Quella del musicista alternativo che, fino alla fine degli anni 90, in Italia deteneva il monopolio del rock italiano, è una figura che ora non incarna più uno status in grado di esercitare un’attrazione sociale e sessuale per i coetanei e per i nostalgici del rock italiano precedente, per esempio i fan degli Area (anni 70) o dei CCCP (anni 80). Piuttosto incarna uno sfigato inconcludente sognatore di quella sinistra da concerto del primo maggio che perde tempo a smazzarsi l’inutile trafila per presentarsi tecnicamente o artisticamente preparato all’appuntamento con il successo.

Da quando l’attrazione per il virtuale ha soppiantato tutto il resto e assorbe le energie che, un tempo, si riversavano nello sport e nella dimensione socioculturale per così dire analogica, le cose sono cambiate e il prodotto delle turbe, delle frustrazioni, della voglia di emancipazione e della trasgressione è l’elaborato di strumenti digitali non necessariamente pensati per la musica con cui, comunque, si fa musica. Strumenti che permettono di fare musica molto più velocemente di prima. Attenzione: non sto dicendo che siano più facili da utilizzare. I prodotti di questi strumenti sono principalmente la musica pop da Youtube, il rap e la trap, l’indie nelle sue varie accezioni e poi una valanga di sottogeneri che vanno dalle parodie di brani famosi con testi dedicati ai videogiochi del momento, alle variazioni sui meme, alle partecipazioni ai talent e alle esibizioni su Tik Tok.

Da quasi ventiquattr’ore ovunque si grida al miracolo e si celebra il rock italiano e alternativo del complesso vincitore dell’ultimo festival di Sanremo, i Måneskin. Colpiscono il fatto che si tratti di una band di giovanissimi, oggi che le band non esistono più. Che si esibiscano con gli strumenti in mano, oggi in cui si deve avere il corpo libero da orpelli per poter ballare qualche danza riconducibile alla cultura latino-americana. Che abbiano i capelli lunghi, oggi che vanno di moda le zazzere, le creste e le rasature a zig zag. Che suonino rock italiano e alternativo, oggi che tutti i ragazzi della loro età propongono trap, rap, pop da Youtube o uno di quei sottogeneri a cui ho fatto cenno prima.

Il fatto è che il loro rock italiano e alternativo fa talmente cagare a spruzzo che, davvero, avrei ampiamente preferito che i Måneskin fossero cresciuti con la musica e le passioni che sono propri della loro generazione. La trap e il rap, tanto per iniziare. Avrei preferito che si fossero dedicati ai passatempi dei millennials. E, se proprio proprio destinati allo showbiz, avrei preferito che fossero diventati uno sferaebbasta qualsiasi, che al posto degli strumenti con cui si suona rock italiano e alternativo si fossero concentrati sulle coreografie reggaeton. Che, in caso di esibizione, avessero scelto di farlo in playback. E che, al posto di abiti così inappropriatamente da rock italiano e alternativo (perché fuorvianti), avessero indossato, in caso di esibizione in playback, una normale tuta da ginnastica come quelle che usano i ragazzi come loro, con le braghe strette al fondo. Se leggete di qualcuno che gioisce perché finalmente a Sanremo ha vinto il rock italiano e alternativo, quindi, mandatelo affanculo. Affanculo lui e i Måneskin.

l’ultimo giorno di scuola

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I primi messaggi sulle numerose chat di cui faccio parte (team di classe, team di classe con la rappresentante dei genitori, team di interclasse, team di interclasse con le rappresentanti dei genitori di tutte le seconde, team di interclasse degli insegnanti dell’area logico-matematica, team di plesso, team di istituto di supporto alla dirigente) sono circolati a metà mattinata di giovedì. Dalle 00:00 di venerdì si chiude anche alla primaria, siamo in arancione scuro. Penso a quale possa essere la regola per la palette di questa pandemia se poi ogni volta c’è qualcuno che aggiunge una sfumatura per cambiare le carte in tavola. Se si potesse ricondurre tutto all’informatica ci sarebbero processi molto più rigorosi.

Mi sento male. Cerco qualche segno della consapevolezza di ciò che sta per accadere negli sguardi dei bambini nascosti dalle mascherine e mi sento male. Dal primo giorno di scuola non abbiamo saltato nemmeno un minuto. Un paio di miei alunni sono stati in quarantena ma per colpa dei genitori. Nessuno ha contratto il virus, almeno non risulta. Ci divertiamo un sacco, tutti quanti, e so che quando saranno a casa non sarà così.

Non so se e come dare la notizia. Li porto in giardino dopo la mensa e d’improvviso mi scopro più permissivo. Gli lascio lanciare le pietre per fare canestro che se passa un compagno sotto gli cadono in testa, spiaccicare i vermi con i sassi voluminosi anche a rischio di spappolarsi le dita, correre con i rami in mano che se cadono si infilzano.

Chissà se percepiscono qualcosa. Incrocio qualche collega furibondo quanto me. In realtà non sono arrabbiato. Piuttosto demoralizzato. Anzi, mi viene proprio da piangere. Ma se i maschi non possono farlo, figuriamoci gli insegnanti maschi. Di lì a poco un prof di italiano della secondaria porta fuori la classe per leggere insieme all’aperto “Io non ho paura”. Ha visto anche lui la notizia e dice che vuole sbollire la rabbia all’aperto.

Torniamo in classe e mi chiedo se abbia senso portarli lo stesso in laboratorio di informatica. So che ci tengono molto. La tentazione è restare in aula e proporre la visione de “Il mio vicino Totoro”. Poi mi ricordo di quel passaggio di “Se questo è un uomo” in cui le madri preparano ugualmente il pasto ai loro bambini pur sapendo che a breve saranno stipati nei vagoni piombati verso la morte. Mi rendo conto di drammatizzare in eccesso la cosa. In laboratorio gli faccio creare la tabella per ordinare gli elenchi che abbiamo preparato con gli animali classificati secondo ciò di cui si nutrono ma gli lascio scegliere un colore diverso per ogni nome e anche per lo sfondo di ciascuna cella.

Nel frattempo giunge la conferma ufficiale tramite circolare della dirigente. I giochi sono fatti. Con la collega decidiamo di parlare chiaro e, a qualche minuto dalla campanella, li aggiorniamo su quello che succederà da domani.

Quel poco che si vede delle loro facce sopra le mascherine parla chiaro. Simone, il cinico della classe, è contento di restare a casa, anche se non ci credo. Tutti gli altri hanno gli occhi lucidi. Denis dice che non gli piace non venire a scuola, è figlio unico e dovrà stare da solo. Cerchiamo di sembrare certi del fatto che si tratterà solo di una settimana, che comunque ci vedremo sul computer, che non dovremo assolutamente perderci di vista. L’esperienza mi insegna che sarà, ancora una volta, un ultimo giorno di scuola anticipato. Niente odori della primavera dalle finestre spalancate, niente visita didattica alla fattoria, niente vero ultimo giorno con il conto alla rovescia prima della campanella di fine anno.

Al cancello consegno come sempre ogni bambino a chi è venuto a prenderlo. Con i genitori ci scambiamo uno sguardo di compassione reciproca. Che ne sarà di loro senza di noi, che ne sarà di noi senza di loro.

sanremo 2021, le pagelle della terza serata

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La gestione Veraclub di Sanremo 2021 potrebbe rendere superflua una manche dedicata alle cover. Le prime due serate hanno visto gli animatori del Festival nel nuovo format villaggio vacanze cimentarsi in diversi karaoke, d’altronde come biasimarli se arrivano da lì. Il fatto è che in genere non è una buona idea interporre in una manifestazione canora delle canzoni alle canzoni in gara, per giunta interpretate dai conduttori, che è un po’ come riempire un bicchiere di pillole al posto dell’acqua per mandare giù una pillola, non so se mi spiego.

Il fatto è che la vera gara delle cover l’ha già vinta Elodie nella seconda serata. L’avete vista? “Tequila e guaranà” su “Vogue” di Madonna, “E la luna bussò” con un campionamento del riff di chitarra di “Could You Be Loved?”, “Fotoromanza” della Nannini in salsa downbeat, il mash up tra “Easy lady” di Spagna e “Rumore” di Raffaella Carrà (che resta un pezzone) e “Soldi” di Mahmood su “Crazy in Love” di Beyoncé. Si capisce che è una che, nella musica, si sa divertire. Non so chi sia l’ideatore dell’esibizione e chi abbia curato gli arrangiamenti ma per me non c’è storia, ha vinto lei e potremmo chiudere qui. Aspetta, però: e i duetti della terza serata?

Con Noemi e Neffa c’è un problema in cuffia e un curioso effetto fuori sincro. Il problema è l’autocitazione: Neffa che interpreta la parte meno importante di sé. Il capo dei messaggeri della dopa dovrebbe, per contratto, limitarsi a “Cani sciolti” o ai duetti con Giuliano Palma. “Prima di andare via” ci ricorda anche che la stagione dell’acid jazz è finita da un pezzo. Non proviamo alcuna nostalgia.

“Penso positivo”, con tutta quella gente lì e Fulminacci, mi fa venire voglia di pensare in negativo: qual è il contributo di un’esibizione impostata così? Siamo capaci tutti a prendere un pezzo che dal vivo spacca. Poi chiami Roy Paci e spacca ancora di più. Fino a quando arriva Lundini, ci mette una pezza e ricompone la grande chiesa che sappiamo da dove parte e sin dove arriva.

Francesco Renga e quella tizia conciata come un’abat jour propongono uno dei brani più belli degli anni 70 in bianco e nero. Mi ricorda Ornella Vanoni e i varietà dopo i tg che snocciolavano i numeri dei morti per terrorismo. I due la cantano dignitosamente, ma manca il tema strumentale che chiude i ritornelli (quello che Mino Reitano interpretava con la sua voce potente) e il pezzo risulta incompiuto.

Decisamente spassosi gli Extraliscio con quella specie di Goran Bregovic e Kočani Orkestar di fiati sconnessi da cui si sono fatti accompagnare. Un tripudio di musica popolare. Io avrei azzardato di più, inserendo nel medley “Kalashnikov”.

Nesli e Fasma hanno nomi che sembrano gli snack al cioccolato finto che prendo al distributore automatico. A quello con la giacca da prete non gli funziona il microfono collegato all’auto-tune. Poi glielo accendono, peccato.

Per Bugo e i PTN l’avventura non decolla. Capisco l’intento di rendere attuale Battisti con un arrangiamento da indie-pop da classifica, ma l’obiettivo viene raggiunto a metà e, considerando la portata del brano, risulta inadeguato. L’originale è troppo stra-sentita e per farla salire di tono ci vuole ben altro.

Michielin e Fedez si presentano vestiti da pagliacci e riescono nell’intento, come diceva mia mamma, di far ridere i polli. Il medley presentato si attesta su uno dei punti più bassi di Sanremo di tutti i tempi. Il balletto di Fedez, come dicono gli adolescenti, è decisamente cringe.

Poi si collega Irama in smart working a cantare Guccini: qualcuno si indigna per il sacrilegio ma è giusto che nel pop non ci sia spazio per il culto artistico della musica d’autore. L’esibizione, per dirla alla Morrissey, non mi dice nulla sulla mia vita. L’originale è troppo distante, la copia puro esercizio di stile.

L’agenda della serata a questo punto prevede i Moleskine con Agnelli che, a differenza di quelli di prima, mi pungono sull’orgoglio. Toppano in pieno lo spirito dei CCCP, anche se si tratta della versione già sulla via per Damasco verso la beatificazione CSI, ma tanto Giovanni Lindo Ferretti è già abbastanza sputtanato di suo. Il guaio è che in rete si parla solo di loro (dei Maneskine, eh, prima ho sbagliato il nome apposta per fare la battuta) e, come spesso accade, non mi stupirei se vincessero tutto.

Arrivati a Random capisco cosa c’è che non va. Dopo anni di X-Factor e di talent musicali risulta impensabile trovare ancora canzoni da coverizzare in tv. Le più adatte sono già esaurite, pensate alle decine di versioni di “Se telefonando” e “Un’emozione da poco”. Presentare un pezzo come “Ragazzo fortunato” suona come raschiare il fondo del barile.

Nella serata delle dimissioni di Zingaretti sul palco poi sale il Bersani meno atteso. Samuele però fa sempre tenerezza e fa sfigurare Peyote, d’altronde con quel nome d’arte dove crede di andare. Ormai l’autore di “Chicco e Spillo” è un cantautore ex-giovane e in certe espressioni ricorda Sergio Endrigo da vecchio. Il pezzo è bello, però, insomma, per il festival è sprecato.

Orietta Berti dismette l’abito con le conchiglie sul petto e passa al rosso luccicante. Massimo rispetto per la sua voce e per la scelta di Sergio Endrigo, questa volta quello vero. Poi cerco su Internet e scopro che Le Deva esistono sul serio e hanno pure una pagina Wikipedia. Non era uno scherzo, quindi.

E, a proposito di gente inutile, ecco Gio Evan e accompagnato dalle cariatidi per cantare gli 883, che erano cariatidi anche loro però già da giovani. Una fase che pensavo avessimo superato, come quella dei “Neri per caso” riesumati da Ghemon con tutti i tighidin tighidin tighidin di accompagnamento.

La partecipazione della coppia Rappresentante di lista + Rettore ha creato alte aspettative ma per la divina Donatella occorre attendere fino alla seconda strofa. Nell’insieme impeccabili ma c’era gente che si adoperava per il revival della canzonetta italiana anni 70 già vent’anni fa. Resta comunque l’unica band della storia in grado di schierare due coriste siamesi unite dalla coda di cavallo.

L’arrangiamento e l’orchestrazione di “Quando” interpretato da Arisa e uno di quelli Bravi fa passare in secondo piano la componente vocale senza pretese. Vetta superata solo da “Prisencolinensinainciusol” di Madame, che però perde l’occasione di personalizzarne il testo e cambiare quegli inutili segnaposto che sono stati messi dall’autore al posto delle parole. E il pippotto iniziale sull’incomunicabilità non giustifica il resto.

Annalisa e Poggipollini in versione blues si dimenticano subito grazie a Lo stato sociale, che ci ricorda quanto sono belle le canzoni degli Afterhours senza la voce di Agnelli e che porta sul palco il paradosso dello spettacolo senza pubblico. Che non sia per sempre lo speriamo tutti, anche la notte prima del risveglio sul baratro della zona rossa.

Gaia con Lous and The Yakuza si cimentano egregiamente in una versione noir-trap di “Mi sono innamorato di te” di Tenco intrecciando voci e sorrisi. Degno di plauso anche il duetto seguente, quello di Colapesce e Dimartino alle prese con il Battiato di “Povera Patria”. Due canzoni così di peso da schiacciare qualsiasi velleità di personalizzazione. Musica indistruttibile malgrado tutto e tutti. Meglio così.

I Coma trattino basso Cose ci invitano quindi intorno al falò da spiaggia per intonare – nel loro caso per modo di dire – “Il mio canto libero”, un classico dei classici da grigliata estiva, secondo solo alla “Canzone del sole”. Radius ci mette la chitarra con il doppio manico e l’esperienza per condurre la canzone sino alla tu tu tu tu tu tu finale.

Sembra incredibile, poi, come “Del mondo” risulti una una canzone perfetta per Sanremo. La versione psichedelica della Magical Mystery Band, un ensemble che unisce cantautori romani con la sezione ritmica della band di Zoro, è ottima e gli archi dell’orchestra del festival danno il loro decisivo contributo.

La scelta di Malika Ayane, invece, è una vera dichiarazione di intenti. Proporre “Insieme a te non ci sto più” in una rassegna di duetti alla fine ti fa salire sul palco da sola. Ben le sta. D’altronde nessuno vuole mettersi a confronto con i precedenti degli Avion Travel e Franco Battiato e, a dirla tutta, non mi sembra una molto simpatica.

E anche Heavy Meta con Napoli Mandolin Orchestra non porta nessun valore aggiunto a “Caruso”. Basta saperla cantare, e da questo punto di vista nulla da dire. Il tentativo di riprodurre il dialetto napoletano riesce parzialmente, come quando Marinelli faceva parlare in romanesco De André. Peccato per i mandolini quasi impercettibili, li avrei resi più protagonisti.

Chi l’avrebbe mai detto che sarei arrivato fino in fondo? Le sostituzioni di accordi nel remake di “Gianna” da parte di Aiello ne fanno una versione così irriverente che non si può parlarne che bene. Poi però arriva un rapper a rovinare tutto così ne approfitto per rimangiarmi quello che pensato, spegnere la tv e coricarmi. Anche questa sera è andata. 

bis

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Vedo sempre più gente compiere piccoli gesti due volte. Mettersi il dopobarba due volte, lavarsi i denti due volte, cercare il portafoglio nello stesso ripiano dell’armadio nell’ingresso due volte. Controllare se c’è tutto nello zaino prima di andare al lavoro, aggiungere un po’ di sale all’acqua della pasta per sicurezza nel caso non si fosse già messo prima, verificare l’ora della riunione che magari nel frattempo è cambiata. Aprire due pagine di Gmail sul browser e prendere il bis della pastiglia per la pressione, per fortuna innocua, a differenza di altri farmaci. Vedo sempre più gente compiere piccoli gesti più volte. Mettersi il dopobarba due volte, lavarsi i denti due volte, cercare il portafoglio nello stesso ripiano dell’armadio nell’ingresso due volte. Controllare se c’è tutto nello zaino prima di andare al lavoro, aggiungere un po’ di sale all’acqua della pasta per sicurezza nel caso non si fosse già messo prima, verificare l’ora della riunione che magari nel frattempo è cambiata. Aprire due pagine di Gmail sul browser e prendere il bis della pastiglia per la pressione, per fortuna innocua, a differenza di altri farmaci.

sanremo 2021, le pagelle della seconda serata

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Ho capito chi mi ricorda: Fiorello somiglia sempre di più a Totò. Ma nessun principe della risata insisterebbe con la stessa battuta per così tanto tempo. La comicità non dovrebbe mai prendere per sfinimento. Di contorno, invece, niente male lo spot Amazon che è ricco di cameo. Non lo avevo notato ieri sera. Per il resto non si capisce più niente: pubblicità di fiction RAI su Nada e di serie tv Netflix con le canzoni di Nada. Mi gira subito la testa e si entra immediatamente in gara.

Orietta Berti, grande melodia, verbi al passato remoto, conchiglie sulle tette, vibrato ed echi di ritmo trap ma è solo l’illusione della prima strofa e del brano di apertura della seconda serata. Proprio per questo, per il momento, risulta la migliore.
Bugo; due taglie di giacca marrone in più, ha lo stile di un sempliciotto di campagna che va a messa la domenica. L’intro sembra una di quelle fanfaronate alla “Mi ritorni in mente”, il resto un tripudio di ottoni e Vasco. Scanzonata, forse fin troppo.
Dopo appena due canzoni c’è già il primo intervallone musicale. Il mash-up Pausini-Queen tutto sommato spassoso, però tirare troppo per le lunghe lo show non fa bene e fa esasperare i cinquantenni che vogliono coricarsi presto.
Gaia entra in trance, ma parte la musica e si rivela un’altra con la tazzina in bocca e ci si chiede perché tutti cantino allo stesso modo. Troppo impegnata a ballare una canzone a suo modo dignitosa. Potrebbe anche vincere.
Lo Stato Sociale: perfetti e perfettamente fuori target, puro cabaret, appena un tacca sotto l’avanspettacolo.
Il volo: no, vi prego, il volo no.
La rappresentante di lista mi fa sempre venire in mente la giornata di uno scrutatore. Vestiti come il tenerone di Drive In ma, colori a parte, risultano i più raffinati e pretenziosi del festival. La canzone è tutta un testacoda e il ritornello è un ritornello che ti si pianta in testa. Finalmente.
Su Malika Ayane mi sono addormentato.
Per fortuna mi sveglio con Elodì che dovrebbe essere un nuovo giorno dopo il mercoledì. uno di quelli che non vedi l’ora che arrivino. E quando arrivano sono giorni che lasciano il segno. Il medley che canta non ha eguali per gli arrangiamenti. Geniale “Could you be loved” in maggiore su “E la luna bussò” (ecco perché ieri sera la Bertè non l’ha riproposta) e “Crazy in love” su Mahmood. Peccato poi si vesta da swiffer e rovini tutto.
Heavy Meta o come cazzo si chiama ci riporta nei classici di Sanremo. Ha una canzone così innocua che si dimentica giusto il tempo di scriverne per due righe.
Gli Extraliscio sono un’idea forte con un progetto debole e il theremin sul palco. Toffolo dei Tre Allegri Ragazzi in Terapia Intensiva indossa la mascherina in modo errato. Proseguono la tradizione della coreografia sul palco, sull’onda della scimmia nuda e della vecchia che balla, con una canzone abbastanza convincente.
Poi parlano di rap e neomelodici, pensavo fosse Liberato e invece era Gigi D’alessio. Vabbè. Cosa non si fa per tirare l’una e mezza. Per fortuna il tg1 ci riporta in piena pandemia.
Segue il secondo pippone in due giorni sotto forma di audiolibro di Achille Lauro. Stasera niente fiore, per fortuna. Mentre sgomberano il palco controllo l’orologio: manca ancora un’ora alla fine. Un ultimo sforzo.
Random è l’ennesima star dello streaming da svariati milioni di visualizzazioni. Gambe rubate a Glovo. Forse l’attacco più stonato di tutti.
Fulminacci ha il timbro di De Gregori e finalmente sento qualcosa che mi piace. L’indie italiano alla Calcutta sbarca a Sanremo senza snaturare la sua riconoscibilità. Non vincerà mai, ma almeno ha un coretto come si deve. Per me è un otto abbondante.
Willy Peyote canta per gli addetti ai lavori e cita Boris e il meme di “che succede” tanto quanto lo stato sociale. Ma in scaletta viene dopo e il copione risulta lui. Amici partecipanti, mettetevi d’accordo prima.
C’è il tempo per un altro karaoke come ai vecchi tempi. Metto la tele sul mute e scrivo questo post.
Ed eccoci al rush finale, così deludente che mi fa pensare che era meglio fermarsi prima e recuperare qualche minuto di sonno. Gio Evan non l’ho mai sentito nominare prima. Lo googlo e dalla faccia mi sembra simpatico, Poi canta e mi viene voglia di spaccare tutto. Irama si esibisce in differita, posso immaginare che sia una merda, così spengo e vado a letto. Ci vediamo l’anno prossimo.