stella polare

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La mamma di Noemi mi ha chiamato poco fa per chiedermi se sapessi quando finiscono, quest’anno, gli esami di terza media perché sua figlia frequenta l’ultimo anno. Avrei potuto risponderle che la filosofia popolare ci insegna che gli esami non finiscono mai. Avrei dovuto anche evitare di lasciare il mio numero in calce all’e-mail di risposta che le ho inviato per cercare di soccorrerla per l’annoso problema di Classroom che le funziona sul cellulare e sul computer ma non sul nuovo tablet. «La bambina questa settimana sta con il papà e con me solo sabato e domenica», ha aggiunto. «Le spiace se le rubo un minuto nel week-end per cercare di risolvere il problema?». Io ai bambini con i genitori separati non riesco a dire di no. Qualche settimana prima c’era stato il caso della ex-coppia in cui, per farsi dispetto – almeno credo – le volte in cui era il papà ad avere in gestione il figlio mi faceva resettare la password di accesso alla piattaforma sostenendo che la madre non gliel’aveva comunicata e il figlio non poteva collegarsi per la lezione. Dopo qualche giorno la madre faceva lo stesso perché il papà, di contro, non l’aveva aggiornata con le nuove credenziali. Così la palla è tornata nel campo del papà la volta successiva, e via di un’altra password. Quando finalmente ho capito l’andazzo ho impostato una password dal sistema senza lasciare all’utente la possibilità di personalizzarla. Quindi l’ho inviata a entrambi i genitori, mettendoli rigorosamente in copia nascosta, onde evitare recriminazioni legate alla privacy. Insomma, la vita di un amministratore Google Workspace non è mai monotona. Comunque ho atteso tutto il sabato pomeriggio che la mamma di Noemi mi contattasse e poi, verso l’ora di cena, mi ha confessato su Whatsapp di essersi persa a fare la spesa, chiedendomi se fossi disponibile la domenica pomeriggio. Il fatto è che in tempi di zona rossa e lockdown non è che si possono accampare tutte queste scuse per non farsi trovare in casa. E, se volete sapere come è finita, è finita che Noemi ha deciso di continuare a usare il computer e che, quindi, il problema sul nuovo tablet non si sarebbe più riproposto. Così la mamma non si è più fatta sentire. Inutile negarvi quanto mi faccia piacere che i problemi si risolvano da soli, perché i problemi vivono di vita propria e spesso non c’è bisogno di una stella polare che indichi la via di uscita. Pensavo che la questione fosse chiusa fino alla telefonata di poco fa. La mamma di Noemi è tornata all’attacco e si è chiesta – e ha voluto chiedere a me – se potessi toglierle il dubbio sulle date degli esami di terza media. Le ho risposto che no, che non ne ero a conoscenza, che è meglio chiedere in segreteria e che comunque, sul sito, dovrebbe trovare il calendario dell’anno scolastico. «Grazie, lei è davvero molto gentile». Di nulla, si figuri, è stato un piacere.

Valerie June – The Moon and Stars: Prescriptions for Dreamers

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Torna la primavera e torna Valerie June con la sua voce unica. Ed è una fortuna: ancora barricati in casa, un manuale per sognatori è proprio quello che ci vuole.

Il timbro di Valerie June è uno strumento musicale a sé che merita un nome tutto suo. Una virtù che ha le sue radici nei generi musicali a cui sono stati ricondotti i suoi due precedenti album, “Pushin’ Against A Stone” e “The Order Of Time”. Blues, soul, bluegrass e folk, tutti insieme e nelle stesse tracce. Apparentemente un paradosso, nei fatti invece un perfetto asse di simmetria tra la tradizione country e quella afroamericana. Un ponte tra Memphis e i monti Appalachi in una voce tutta testa e cuore ma pronta a ruggire nella gola, nell’anima e nella pancia come in un coro gospel.

Nel corso della carriera di Valerie June c’è stato persino un salto dalle roots degli esordi verso l’alto, fino alla luna e alle stelle del titolo di questo ultimo lavoro, e lo si evince persino dalle copertine dei dischi. Dai colori caldi e dagli elementi della terra dei precedenti album a quelli rarefatti e patinati del nuovo disco, con le luci di scena color argento che impongono vestiti da sera per occasioni uniche e irripetibili.

Chi segue Valerie June sui social avrà potuto accertare di persona la sensibilità e la spiritualità d’altri tempi di questa straordinaria artista e la genesi di “The Moon and Stars: Prescriptions for Dreamers”, il suo ultimo lavoro che ha preso forma e consistenza nell’anno della pandemia. Non è raro vederla accendere candele per inviare raggi di gratitudine in tutto il pianeta, seguirla meditare durante la luna piena per concentrarsi sulle “dolci piccole cose della vita”, esortare chi la segue a brillare come la polvere delle stelle per rendere più luminoso il percorso di chi ci sta accanto.

Forse la sua positiva ricerca della natura, dell’anima e della vita stessa in tutte le cose ha avuto una parte decisiva in questo disco di così ampio respiro. Una filosofia che trova il suo manifesto nei versi della canzone “Home Inside”, brano che non a caso chiude l’album: la casa che è dentro di noi, un posto che ha una finestra sull’anima, “uno spazio creativo che nessuno ha il diritto o il potere di sottrarci” – lo ha dichiarato lei stessa in un’intervista a NPR – con un giardino sul lato soleggiato per poter crescere, e quella formula a cui non riusciamo a dare un nome – alcuni la chiamano preghiera, altri come me la chiamano la voce di Valerie June – che ci permette di trovare la pace con noi stessi.

Ed ecco perché “The Moon and Stars: Prescriptions for Dreamers” è un vero e proprio manuale per sognatori. Intanto è un album che guarda più lontano, rispetto ai precedenti, anche sotto il profilo meramente musicale. “Stay” sembra avere il mood con cui Valerie June ci ha viziato, quello che ci ha fatto innamorare di lei attraverso canzoni come “Wanna Be on Your Mind” o il precedente singolo “Astral Plane”, almeno fino a quando la traccia di apertura del nuovo disco si spalanca in un campo lunghissimo con un sottofondo di archi che ci fa prendere il volo. Un approccio ripreso in “Why The Bright Stars Glow”, canzone che vede le stelle del concept ancora protagoniste.

Nel disco c’è spazio per il blues, con brani come “You and I” e “Call Me a Fool”, traccia che vede il contributo e il proverbio africano introduttivo – “only a fool tests the depth of the water with both feet” – di Carla Thomas. E per restare ben saldi sulle proprie radici ecco “Stardust Scattering”, canzone che contiene timbri e strumenti che rimandano alle sonorità di Fela Kuti. Si ritorna alla tradizione folk a stelle e strisce con “Two Roads” e “Colors”, già pubblicata nell’album “The Way of the Weeping Willow” e qui riproposta in versione adulta.  “Fallin’” è sicuramente la traccia più intima del brano, una canzone sull’amore che nasce e su quello che tramonta. Non passa inosservata neppure “Smile” che, nonostante l’incipit di drum machine, ha uno sviluppo sixties in perfetto stile Motown e suona agli antipodi della canzone successiva, una modernissima “Within you” in cui Valerie June sfoggia addirittura qualche ammiccamento ritmico proprio della trap, utile a guidare l’ascoltatore lungo le diverse epoche della black music che Valerie June riassume nel suo canto.

Fino al commiato del disco, un minuto e mezzo di “Starlight Ethereal Silence” in cui i suoni e il sottofondo della natura ci riportano per mano nel punto da cui siamo partiti, prima di questo lungo viaggio nel cosmo, lasciandoci con un interrogativo: la meraviglia è fuori o dentro di noi? “The Moon and Stars: Prescriptions for Dreamers” ci aiuta a scoprire che le due dimensioni coincidono e che esiste qualcuno che riesce a tradurre tutto questo in musica.

follow up

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Rossana sa di chiamarsi come una caramella fuori moda e ha descritto in un racconto pubblicato sul quel blog che raccoglie contributi di aspiranti autori (la più diffusa anticamera del self-publishing) la sensazione di aver scoperto che qualcuno ha davvero parlato di lei. «Non ho fatto fatica a riconoscermi», scrive nel suo pezzo. «Ho rintracciato diversi riferimenti agli incontri che aveva avuto con quel tale in alcuni dei passaggi narrati, a partire dai nomi in codice dei punti della città in cui amavano incontrarci». Comunicavano solo tramite sms nemmeno si trattasse di un canale cifrato della sicurezza nazionale, e l’unica volta in cui uno dei due ha superato la barriera della chiamata vocale l’altro ha compreso subito l’emergenza riflettendo su quale comportamento adottare mentre leggeva il nome sul display che squillava e si illuminava come se si trattasse di un ologramma. «Nella paura che scaturissi fuori da lì come un genio dalla lampada», continua Rossana, «si è affrettato a trovare una battuta efficace per avviare la conversazione e esordire nella risposta». Mi sembra di vederli, mentre comprano focaccine da consumare sulla panchina con vista sul moderno ingresso della sede della start-up in cui sognano di essere assunti in coppia, nemmeno coprissero mansioni complementari. «Mio padre lavorava come ingegnere di produzione nella più conosciuta azienda di stampanti industriali prima che gli smartphone condensassero nella loro tecnologia anche la componente visiva delle nostre vite, oltreché quella sociale», gli racconta tra un morso e l’altro, consapevole del fatto che le briciole attirano i piccioni e che nessuno, dal vivo, si esprima così. Una rivelazione ineccepibile, però, dal punto di vista della sintassi, pronta per essere riportata scritta da qualche parte. Chiacchierano seduti in linea, mai di fronte. Poi si precipitano al supermercato sotto casa di lei. Una sede storica: a quanto risulta dalle foto incorniciate sui muri deve trattari del primo aperto in tutta Italia. «Io gli ho comprato un pain au chocolat industriale, lui una stecca di Novi al latte», così Rossana conclude il racconto di quel momento, nella sua versione dei fatti, tutta da verificare. «Oltrepassate le casse, ce li siamo scambiati come fossero regali di natale, nascondendoli dietro la schiena come in quel film della nouvelle vague in cui i due innamorati fanno finta di farsi una sorpresa. Sembrava dovessimo baciarci, ma forse mi sono sbagliata io».

quote millesimali

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Davvero non riesco a comprendere come un essere umano nella vita possa decidere liberamente di diventare amministratore di condominio.

dalla parte degli esclusi

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Lo Psyco Club a Genova, in Vico Carmagnola 7, è stato un locale decisamente all’avanguardia per tutto il corso degli anni 80 e, se non eravate ancora nati, peggio per voi. Se siete della zona e nei ruggenti eighties vi vestivate di nero, vi conciavate come Robert Smith e ascoltavate quella musica lì, almeno una volta vi sarà capitato di trascorrere una serata – se non un sabato pomeriggio – a ballare, vedere concerti e mostre, partecipare a incontri e iniziative, ascoltare buona musica. E se volete saperne di più, qui trovate un bel po’ di informazioni.

Il fatto è che il fondatore dello Psyco è su Facebook e ha da poco raccolto, in una delle solite pagine commemorative, un nutrito gruppo di nostalgici ex-frequentatori e il gruppo sta raccogliendo foto, volantini, testimonianze, aneddoti e contributi di vario genere da parte degli iscritti. Ho aderito immediatamente all’iniziativa, ovvio, e da quel momento la mia giornata si è arricchita di un nuovo modo per perder tempo sui social. Contemplo il feed nutrirsi in tempo reale con l’intento di dare consistenza, grazie alle voci di altre persone, agli echi del vissuto che mi è rimasto di allora sotto forma di reminiscenze. Una vera e propria droga proustiana, quella della ricerca del tempo perduto.

Sto lì a leggere e a sbirciare nelle foto aspettando che si materializzi qualche istante in cui poter commentare ehi, c’ero anch’io, ricordo benissimo, quello lì di spalle forse sono io. Non vi è mai successo di ritrovarvi per caso sullo sfondo di foto altrui? Io dello Psyco Club non ho nessuna reliquia materiale ma potrei contribuire lo stesso con qualche spunto scritto. La verità è che mi piacerebbe postare qualcosa ma non mi sento ancora pronto, non chiedetemi il perché. Scrivo e riscrivo un aneddoto da pubblicare ma poi lo lascio sotto forma di bozza. Così ho pensato di riportarlo prima qui, per vedere che effetto fa vederlo nero su bianco.

Una volta abbiamo portato la demo di una band in cui suonavo, sarà stato l’85 o l’86, so solo che faceva freddo perché poco prima avevo accompagnato uno del gruppo in un negozio di abiti usati del centro storico a comprare un cappotto nero. Non ricordo con chi abbiamo parlato, non era il proprietario, so solo che la conversazione è stata surreale. Non saprei dirvi se eravamo più fuori noi, con la nostra cassetta e il nostro approccio industrial-elettronico alla Cabaret Voltaire (già ampiamente fuori moda), o il tizio dietro alla postazione che metteva i dischi a cui ci siamo rivolti. La demo riportava fedelmente i recapiti ma, malgrado ciò, nessuno ci ha mai ricontattato per suonare allo Psyco. A riascoltare oggi quei pezzi, onestamente, non ho nulla da recriminare. Non mi sarei mai richiamato nemmeno io.

siamo matti

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La musica in tv ha bisogno di divulgatori bravi. Gente come Barbero o come gli Angela, cioè gente seria ma divertente, appassionata ma non invasata, colta ma non saccente, che sappia intrattenere senza fare il pagliaccio. Il rischio di imbattersi nelle rockstar, a proposito di musica, è dietro l’angolo dal momento che le rockstar appartengono al settore. Pensate a uno come Manuel Agnelli. Per quanto abbia veicolato nelle sue trasmissioni tv contenuti di valore, il suo approccio risulta così ingombrante da farti scappare la voglia di ascoltare l’ospite che sta presentando o di non acquistare il disco di cui sta parlando. Oppure a uno come Renzo Arbore, che divulga musica da sempre ma mettendoci troppo spettacolo in mezzo, tanto che il risultato sconfina nel varietà e finisce che lo spettatore si concentra sulle cosce della soubrette. Per non parlare dei nerd della musica, che poi sono quelli meno sopportabili con il loro modo di spaccare in quattro la semibiscroma e ridurre tutto alla matematica.

Il punto è che parlare di una cosa bella in modo palloso la fa sembrare pallosa, ma allo stesso tempo è fondamentale essere preparati ed entusiasti della materia. Poi conta quanto sei simpatico e quanto ci sai fare davanti alle telecamere senza risultare presuntuoso. Se poi sei anche un mostro di bravura sul tuo strumento, oltre a essere una perla rara con tutte queste peculiarità, il cerchio si chiude e puoi essere considerato – almeno dal sottoscritto – un bravo divulgatore di musica alla tv.

Da quando l’ho visto suonare la prima volta nutro una smodata venerazione per Stefano Bollani. Se potessi reincarnarmi al volo in qualcuno sceglierei Stefano Bollani perché è uno dei rari casi di sintesi tra tecnica eccelsa e ottimo gusto. Bollani suona con grinta e ironia, con fermezza e ispirazione, e ha una padronanza dello strumento unica e versatile, che poi è l’aspetto che a me interessa di più di qualunque mostruosità tecnica. Stefano Bollani, da qualche giorno, va in onda ogni sera dal lunedì al venerdì alle 20.20 su Rai 3 nel programma “Via dei Matti numero Zero”, insieme a Valentina Cenni, che oltre a essere un’attrice è anche sua moglie.

Lo studio in cui si svolge il programma è una sorta di “casa Bollani”, per l’occasione riprodotta e ubicata nell’edificio inventato e cantato da Sergio Endrigo. Una striscia serale di nemmeno mezz’ora in cui i due divulgano la musica nei suoi vari aspetti storici, sociali e vivifici. La musica come scienza, magia, filosofia e cultura quotidiana ma mai spicciola. L’approccio è leggero perché è Bollani, in primis, a esserlo. Un pianista tra i più talentuosi interpreti del jazz e della classica che traduce la propria esperienza in materia per la tv generalista e per un pubblico che ha sempre meno pazienza di ascoltare canzoni, con un modo unico di mescolare stili sia musicali che narrativi. Non manca la musica suonata e cantata dai padroni di casa stessi e dagli ospiti che si alternano a ogni puntata. “Via dei Matti numero Zero” è sorprendentemente gradevole, dura il giusto, ed è da prendere come un dessert a fine cena, anzi un cordiale anti-stress prima di cambiare canale e gettarsi nella bolgia dei temi più urgenti e tragici dibattuti nei talk di politica e attualità, in prima serata. Grazie Rai e grazie Bollani. C’era bisogno di un po’ di aria fresca.

tutto fa rima con rutto

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Trovo il nuovo spot della Bosch decisamente esilarante. Certo, l’ultimo verso del rap di J-Ax

vai campione bevi tutto
che poi i germi li distruggo

penalizza la portata del messaggio perché, fino a quel punto, la simmetria baciata dei versi non fa una piega. Del resto, vi sfido a trovare una chiusura in rima che non rimandi a quello che fanno i bambini dopo aver bevuto dal biberon.

dote scuola

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A questa seconda ondata di didattica da remoto la mia scuola ha ricevuto un numero di richieste di strumenti tecnologici da parte delle famiglie di gran lunga superiore rispetto ai device messi a disposizione dall’istituto e rispetto all’analoga iniziativa avviata in corsa durante lo scorso lockdown. Questo malgrado la precedente esperienza abbia più che dimostrato quanto sia fondamentale dotarsi di un dispositivo digitale in grado di accompagnare l’esperienza didattica dei ragazzi.

Non essendo possibile stilare una graduatoria in base ai fattori propri di una campagna di questo tipo basata su indicatori ISEE o simili (per ovvi motivi di urgenza), si procede privilegiando gli studenti delle classi più alte, quindi a partire dalla secondaria di primo grado, a scendere, con la precedenza a DVA o segnalazioni dei servizi sociali. Nel nostro caso, siamo arrivati a soddisfare le domande solo fino alla quarta primaria. Il punto è che le famiglie che richiedono un pc o un tablet per consentire ai propri figli di seguire le lezioni da casa dovrebbero attivarsi solo in caso di reale impossibilità di provvedere in autonomia. Ma i numeri parlano chiaro e, a conti fatti, la percentuale di richiedenti non risulta realistica. Sono arrivate candidature da nuclei con più figli, per esempio, oppure da genitori che lamentano di avere attrezzatura obsoleta e poco adatta.

C’è poi un fattore tutt’altro che secondario. Contesti famigliari anche abbienti in cui non è mai stato previsto l’acquisto di un dispositivo adeguato. Ragazzini e bambini che partecipano alle videolezioni collegandosi con il telefono, rendendo vano il potenziale delle piattaforme di didattica digitale che offrono – spesso gratuitamente – formidabili tool per ovviare alla mancata presenza in classe ma che, privi di uno schermo sufficientemente ampio e periferiche di input, a partire dalla tastiera, servono poco o nulla. Laddove non si lesina su smartphone di grido, tv di ultima generazione e altra tecnologia da migliaia di euro per l’intrattenimento e il gioco, siamo ancora restii a considerare un buon notebook un investimento in grado di supportare i ragazzi nel loro percorso scolastico. DAD a parte, pensate a quanto può essere utile un computer per le attività da casa e quante opportunità di una scuola diversa consentirebbe. Senza contare che un pc, in famiglia, serve sempre. Capiterà a tutti di dover scrivere un documento, compilare un modulo offline, visualizzare immagini a una grandezza decente.

Eppure le offerte di dispositivi con requisiti sufficienti ad assicurare la didattica a distanza non mancano. Certo, nei momenti di urgenza è facile incappare in qualche fregatura e non è raro che i prezzi aumentino. Per questo sarebbe stato più proficuo per i genitori provvedere a scuole chiuse, durante la scorsa estate, quando le cose sembravano procedere per il meglio ma il rischio di una nuova crescita dei contagi non era del tutto scongiurato. Un buon pc dovrebbe far parte dell’equipaggiamento didattico di ogni alunno tanto quanto libri, zaino e cancelleria. E non vedo perché debba essere a carico della scuola pubblica.

maggiorenni e vaccinati

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Questa mattina, nel corso delle trasmissione “Prima Pagina” di RadioTre – a questo giro condotta da Gad Lerner – un ascoltatore in collegamento telefonico metteva in dubbio l’efficacia della proposta di Enrico Letta sull’estensione dell’età utile al voto ai cittadini di sedici anni. Si sottolineava infatti la scarsa dimestichezza dei più giovani con la politica, per non dire interesse nullo, e in modo provocatorio si proponeva addirittura l’esatto contrario, consentire cioè il voto solo da un’età a partire da almeno vent’anni in poi. In risposta Gad Lerner, altrettanto provocatoriamente, ha ulteriormente alzato l’asticella. Perché non circoscrivere l’elettorato secondo il censo, o la professione esercitata? Ha ricordato così che le donne in Italia possono esprimere la loro preferenza solo dal primissimo dopoguerra e che, addirittura, recentemente c’è stato chi ha proposto di far votare anche i bambini. L’età media italiana si è attestata sui 45 anni, e in una società vecchio stile una ventata di giovinezza, in ambito elettorale, potrebbe portare un po’ di novità. In effetti non è facile dare una risposta alla questione. Ma se mettiamo in collegamento la necessità di accendere l’entusiasmo per la politica nei nostri ragazzi con la crescente richiesta di spazio per l’educazione civica nei programmi ministeriali delle scuole superiori, il cerchio un po’ si chiude. Insegnare la politica a scuola non sarebbe certo orientare gli studenti, piuttosto gettare le basi per alimentare una coscienza di cittadinanza attiva e accendere la passione per la cosa pubblica. Una formazione propedeutica all’esercizio del dovere di voto, più che al diritto, può contribuire alla crescita di generazioni pronte a diventare adulte nella consapevolezza che la democrazia, davvero, si eserciti dal basso attraverso la manifestazione della propria volontà nell’urna. E poi, volete mettere assistere a lezioni su temi di così grande attualità? Certo, per insegnare politica ci vorrebbero nuove classi di concorso e gente entusiasta e preparata in materia. E, sul lato pratico, qualche ora in più in classe e qualche cambio di programma, in tutti i sensi. Ma di fronte a un’offerta di questo tipo darei volentieri indietro certe discipline che, oggettivamente, costituiscono il retaggio di una cultura e di un’economia che non esistono più. 

sulla sabbia è nato un fiore

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Conoscete la differenza tra liscio romagnolo e liscio piemontese? Diciamo che il primo sta al secondo come il temperamento degli uni sta a quello degli altri. Si può intanto vedere la definizione che ne dà Wikipedia:

Il liscio romagnolo, danze folk romagnole, è caratterizzato da un’esecuzione brillante (data dalla forte presenza ritmica di basso e batteria) e veloce dei brani scritti principalmente per violino, clarinetto in Do, sassofono e successivamente per voce. È il liscio più conosciuto, soprattutto grazie al brano che ha dato il via al “fenomeno liscio”, Romagna mia (Secondo Casadei 1954), ed allegro, grazie al tipico sound dato dall’unione del sax e del clarinetto in do.

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Il liscio piemontese, liscio tradizionale piemontese, è più lento di quello romagnolo ed eseguito principalmente da fisarmonica, clarinetto in do, sassofono e voce. Alcune formazioni di liscio piemontese sostituiscono al basso elettrico il basso tuba e non utilizzano la chitarra; tale scelta è probabilmente diretto retaggio delle formazioni bandistiche precedenti.

ma se volete il parere di uno che ha suonato per anni entrambi gli stili, vi assicuro che il romagnolo ha una vena di spensieratezza mentre quell’altro mette sempre un po’ di malinconia. Se vogliamo banalizzare, pensate al dualismo tra piadina vs bagna cauda, e comunque sono ghiotto di entrambe.

Io con il liscio ci sono cresciuto perché in famiglia c’era un vero e proprio culto. Nonni paterni, nonni materni e, di conseguenza, genitori. Gente di campagna che se la cavava bene nei balli di coppia. Pur riconducibili – per provenienza – al ceppo piemontese, non sono mancati a casa mia i dischi dell’Orchestra Casadei. Raoul, scomparso proprio ieri per il Covid a 84 anni, negli anni 70 è stato protagonista di un’operazione di music for the masses, portando le sue composizioni ed esecuzioni persino nelle hit parade.

Nel 1977, mentre in UK i Clash esordivano con il loro primo album, dalle nostre parti l’Orchestra Casadei pubblicava un singolo che, malgrado il titolo, trasmetteva malinconia e – a suo modo – spleen. Un valzer cantato dal titolo “Allegria Ja Ja” ma che, malgrado il modo maggiore, lascia un retrogusto opposto. Il testo, poi, non sfigurerebbe nel repertorio dei più depressi cantautori indie del momento. Il brano racconta una storia d’amore con una ragazza tedesca lunga quanto una vacanza. Un’esperienza forte e intensa destinata a finire, proprio come la stagione estiva.

Sedici anni, era bella:
non capivo le parole
ma sentivo che il suo cuore impazziva d’allegria
allegria allegria!
Son felice, vi dispiace?
Si gettava in fondo al mare poi spuntava come un fiore
allegria allegria
allegria allegria!

Ja ja, mi diceva
si si eh eh rispondevo
raccoglievo le conchiglie, le facevo una collana
impazziva d’allegria allegria allegria!
Ja, ja, chi mi cerca? Non esisto
Non m’importa più niente, non m’importa della gente
vivo solo per amore
allegria allegria!
Ja ja, era bella, da morire!
Si gettava in fondo al mare poi spuntava come un fiore
allegria allegria!

Poi un giorno è andata via,
poi un giorno è andata via!!!
allegria allegria. Ja ja.