a elevata automazione

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Consigliare canzoni del giorno è un’ambizione comune a molti di noi. Ci sono fior di rubriche apposite sulle riviste più seguite e giornalisti autorevoli – non certo grazie alla loro competenza musicale – che condividono gusti non richiesti, che è un po’ come se io mi mettessi a scrivere editoriali di taglio scientifico. Se siete rimasti di stucco a vedere Checco Zalone suonare “Blackbird” insieme a Stefano Bollani, avete capito qual è il punto. Se invece siete solo a corto di ispirazione su cosa scegliere come colonna sonora quotidiana basta andare sui social e dare un’occhiata a quello che linkano i vostri contatti. Per questo ci restate male se siete gente competente e i vostri suggerimenti cadono nel vuoto. Non sto parlando solo di me, sia chiaro. Anche io so essere imprevedibile. Per esempio potrei inserire qui il rimando a “Il triangolo” di Renato Zero ma unicamente per sottolineare l’assolo di piano che non si capisce se sia una parte meccanica – complice il timbro da saloon – o ci sia dietro un musicista in carne e ossa e, soprattutto, tecnica sopraffina. D’altronde è meglio leggerle, le cose, piuttosto che ascoltare qualcuno che ne parla in tv. Non è difficile distrarsi e perdere il filo e invidio moltissimo chi riesce ad arrivare in fondo a certi monologhi e poi si gira verso di te e assume l’espressione indignata per ciò che ha sentito proprio mentre tu eri da tutt’altra parte con la testa e solo perché, appena è stata posta la domanda retorica “e se non ne uscissimo mai più?” hai dato un colpo di acceleratore per prendere il primo svincolo utile per arrivare da qualche parte. Una destinazione qualsiasi.

non importa dove sei

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Per non presentarsi a casa mia a mani vuote ha rovistato in una scatola dei ricordi per riesumare un po’ di quei flyer di club e mostre raccolti in giro per il mondo fino a quando ha avuto la possibilità di viaggiare. Avevano programmato la luna di miele in India ma poi, con il figlio in arrivo, lui e la moglie hanno ripiegato su un piano B per visitare il Salento fuori stagione. In un loft di New York lo aveva colpito la lunga fila di depliant dalla grafica modernissima e dai font accattivanti appiccicati a un metro e mezzo d’altezza sulla parete del corridoio e così ha copiato l’idea. A Ostuni, però, si sono concessi un trullo ristrutturato. Oggi nessuno sprecherebbe più denaro in quel tipo di marketing, quello di lasciare pubblicità in cartoncino stampato alle casse dei negozi e non è certo perché è da un anno che viviamo come dei reclusi. Forse non ne colgo il valore affettivo, forse dovrei farlo, di certo a casa mia non c’è posto per appenderli. Sono comunque bravo a dissimulare e così, sbrigati i convenevoli, mi avvisa che venendo qui dal parcheggio ha notato un tassista russare in macchina in una stradina in cui dubito che qualcuno possa aver mai bisogno di una corsa per andare da qualche parte. «Non importa dove sei», mi incalza. «La giornata lavorativa mica è finita». A me viene in mente che fuori è decisamente primavera e potrebbe essere andata che il tassista ha portato qualcuno lì e, sbrigate le faccende del pagamento e della ricevuta, gli è venuta voglia di schiacciare un pisolino per evitare un colpo di sonno sulla via del rientro. È già sera ma è ancora chiaro e immagino l’interno del parabrezza riflettere il display del navigatore satellitare acceso. Mi verrebbe voglia così di scendere in strada e di scrivergli sulla vernice bianca immacolata del cofano, con uno di quei pennarelli indelebili che usiamo a scuola, che chi dorme non piglia pesci. Mi potrebbe cogliere sul fatto qualcuno che abita lì, a partire da Roberta mentre rientra da qualche suo impegno di lavoro trascinando lo stesso trolley che usa anche quando trascorre il fine settimana dal suo compagno che vive a Livorno o Angelo, che porta fuori il cane che – sono parole sue – è un surrogato di quello che aveva prima ma che ora è morto.

pause play forward

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La recente lettura del romanzo “La valle oscura” di Anna Wiener, il racconto dell’esperienza dell’autrice nel mondo delle start-up digitali e nella valle del silicio, mi ha permesso di riflettere sul mio primissimo impiego nella bolla Internet e sul fatto che, per un vasto periodo della mia vita, non sono esistite serate o fine-settimana realmente liberi. Non c’era un vero e proprio stacco tra un giorno feriale e il seguente. Piuttosto una pausa variabile tra una consegna e il progetto successivo. Un modello che ha segnato per sempre – almeno fino a oggi – l’idea che ho del lavoro. Fare l’insegnante comporta un approccio simile. Volendo, si potrebbe non staccare mai tra ore in classe, preparazione delle lezioni, attività di ricerca materiali e contenuti, confronto sulle best practice, programmazione e reportistica, commissioni, incarichi extra. Per non parlare del fattore umano: basta una dotazione di sensibilità entry level per portare i tuoi alunni con te nel tempo libero, in macchina, nelle conversazioni con i tuoi famigliari, persino in vacanza. Anche la scuola può trasformarsi in un’esperienza totalizzante, e non venitemi a dire che dipende dalla sfera privata che hai. Ritengo di avere affetti e interessi piuttosto ingombranti e complessi da gestire. Tutto questo accadeva prima dello scoppio della pandemia. Qualcuno poi ha messo in pause la vita e imposto una nuova normalità. Dalla primavera dello scorso anno mi capita di trovarmi a riflettere, in piedi sul balcone di casa e intento a osservare gli inequivocabili segnali delle stagioni che si susseguono nei giardini delle villette intorno al condominio in cui vivo. Penso che è la prima volta nella vita in cui sono costretto a restare immobile. Oggi è stato l’ultimo giorno di didattica a distanza prima delle vacanze pasquali. La mia dirigente ci ha pregato di non esporci con i bambini e con le famiglie circa il ritorno in presenza della prossima settimana. Io però non ce l’ho fatta. Mi sono espresso con la massima cautela ma è stato difficile trattenere l’ottimismo. Se ne sono accorti tutti. Però qui lo posso dire: bambini, vi aspetto in classe. Ci vediamo tra pochissimo.

caserma

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A casa di Mattia mi sembrano tutti fuori di testa. Il padre è un militare e qualche giorno prima che inserissero nella mia classe il bambino è venuto a scuola in divisa per presentarsi a chiunque tranne che ai futuri insegnanti di suo figlio. Quando finalmente ci siamo conosciuti, la prima cosa che mi ha detto è di essersi diplomato allo scientifico e che la mamma di Mattia ha una laurea in qualcosa che non ho capito, prerequisiti che, secondo loro, escludono qualsiasi difficoltà nell’apprendimento delle materie dell’area logico-matematica. È Mattia stesso a definirsi un genietto, lo ha già fatto più volte ma io non me la sento di richiamarlo per la sua presunzione. È troppo piccolo per comprendere il significato sociale del suo comportamento ed è evidente che la colpa è dei genitori che non gli hanno mai fornito gli strumenti base di mediazione del sé. E poi io ho passato la vita a reprimermi e non voglio aumentare la schiera. Si sente uno in gamba? Buon per lui. Mattia ha anche un modo di gesticolare quando parla che non so da dove l’abbia preso. O forse sì. Vivono in un appartamento ricavato nella caserma con le pareti piene di gagliardetti e cimeli bellici. La mamma ieri, durante la videolezione di scienze, è passata dietro la postazione di Mattia trasportando una gigantesca vasca trasparente contenente un paio di minuscoli pesci rossi. In classe, quella di mostrare alla webcam gli animali domestici è una pratica piuttosto frequente e deriva dal fatto che la mia gatta stanzia costantemente sui miei polsi quando sono al computer. Così capita che qualcuno presenti il proprio cagnolino ai compagni e Mattia, o per lo meno sua mamma, non ha voluto essere da meno. Senza chiedere nulla, mentre correggevamo le divisioni, ha occupato con la vasca dei pesci tutta l’inquadratura. A dire il vero i suoi cameo sono frequenti e a loro modo esilaranti. Sento la sua voce fuori campo incitare il figlio a intervenire nelle discussioni. «Digli che lo sai anche tu!», oppure «fagli vedere come hai fatto il disegno!» e altre cose di questo genere che mi inducono a spegnergli il microfono da qui. Malgrado non abbiano problemi economici si sono fatti prestare un pc da qualcuno ma dev’essere un modello vecchio, almeno mi dice così quando si piazza sulla sedia al posto di Mattia e mi avvisa che deve riavviare tutto perché l’audio ha qualche problema. «Io la vedo e la sento benissimo», cerco di rassicurarla ma non riesco a finire la frase che mi interrompe. «Spengo tutto, mi raccomando ci aspetti». Ma a me viene voglia di andare avanti apposta perché mi sembra un comportamento fuori luogo e poco rispettoso. E poi tanto Mattia è veloce e recupera al volo, d’altronde la madre è laureata in qualcosa che non ho capito e il papà ha la conseguito la maturità scientifica.

toast

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I modelli più recenti di notebook – compreso il mio e quello che ho acquistato per mia figlia – sono sprovvisti di lettore DVD, il CD player del mio impianto hi-fi si è guastato e qualche mese fa ho sottoscritto l’abbonamento a Spotify. Tutto questo in un momento in cui la mia collezione di vinili si sta espandendo a dismisura e sono in trattativa per l’acquisto del quarto giradischi con cui ascoltarli. La trattativa non è tanto con il venditore quanto con mia moglie, devo convincerla che ne abbiamo davvero bisogno. Una serie di eventi collegati tra di loro che mi ha spinto a mettere in cantina il riproduttore per compact disc dello stereo, decisione che, considerati gli eventi di cui sopra, ha reso la presenza dei CD in casa mia superflui. Ho comprato 33 giri finché ho potuto, finché si trovavano, finché l’industria musicale li ha stampati. Per farvi capire, ho una copia di “Nevermind” prima stampa in vinile mentre “In Utero” l’ho acquistato in cd, cosa di cui non smetterò mai di pentirmi. Ma nell’insieme non me ne sono procurati moltissimi, un po’ perché si trattava di una passione fuori dalla mia portata dal punto di vista economico e un po’ perché il compact disc, come supporto musicale, mi aveva disorientato e ci avevo visto giusto. Di lì a poco l’MP3 avrebbe spazzato via tutto. Non vi nascondo che i programmi di file sharing mi hanno permesso di recuperare tutto quello che, in quel vuoto di copertura del possesso fisico, avevo perso. Il fatto è che a quelle poche decine di copie originali che ho accumulato nel tempo se ne sono aggiunte diverse provenienti dalla collezione smisurata di musica classica di mio papà. Poi ho un po’ di cd di jazz e qualche collana acquistata in edicola. Per farla breve, dismettendo i quattro scaffali che ho dedicato ai CD mi sono chiesto che cosa farne. E, come per incanto, da qualche giorno mi si presenta ossessivamente sui social la pubblicità del più famoso programma per la masterizzazione di cd audio, cd rom e dvd. Che tenerezza. Ma davvero c’è ancora qualcuno che lo utilizza? 

figli con il guscio

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Trovo decisamente estenuante questo rilascio lento e continuo di nuovi rientri alla normalità che si protrae ormai dallo scorso anno. A pochi giorni dal raggiungimento della data indicata come termine per una ripartenza della vita che si faceva prima della pandemia, o almeno con qualcosa che le somigli, ecco un nuovo decreto che la sposta più in là di qualche settimana. Non ne faccio un problema di riaperture, non è questo il punto. Non si fa prima a dire che saremo costretti a restare barricati in casa fino a dicembre 2021 o a giugno 2022 e non se ne parla più fino ad allora? Se poi le cose miglioreranno in fieri, tanto di guadagnato. A cosa dobbiamo questa scarsa lungimiranza celata sotto una superflua veste di ottimismo fuori luogo e regolarmente disilluso? Questo protrarsi di mete che si allontanano quando le abbiamo a portata di mano sembra una sorta di campionato mondiale di paradossi di Achille e della tartaruga. Noi andiamo spediti come il piè veloce ma la posta in gioco – lenta come una quaresima – ha sempre quel pezzettino di vantaggio in più che ci lascia con un pugno di mosche. Conversavamo giusto con mia figlia a proposito di quanto i paradossi fossero stronzate a pranzo, qualche giorno fa. Mia moglie era fuori per lavoro e lei era reduce dalle sue cinque o sei ore quotidiane di videolezione. Zenone a parte, ci siamo soffermati sulla storiella dei gemelli e della navicella spaziale, avete presente? Ci dicevamo che è una teoria che non ha senso: noi invecchiamo perché abbiamo un timer interno il cui avanzamento è determinato da un meccanismo programmato dal nostro organismo e non da un sistema universale. Qualcuno dovrebbe provare a mandare nello spazio un forno, altroché cagnette che poi chissà che fine fanno. Mettete un forno su un razzo, impostate il timer su venti minuti – più o meno quanto ci mette a cuocere la pizza fatta in casa – e vedrete che il campanello suonerà nello stesso momento sia sulla terra che su Marte. Che poi mia figlia è bravissima e il paradosso è proprio che sta tollerando questo furto della sua giovinezza in un modo encomiabile.  Anzi, se vogliamo fare una similitudine, la vita è Achille e i ragazzi come lei sono le tartarughe, persone che si portano la casa in cui sono reclusi sul gobbone e, quando la vita se li riprenderà, che riescano a liberarsene è tutto da vedere. O forse Zenone aveva ragione e le tartarughe saranno sempre un pelo più in avanti per non lasciarsi mai raggiungere.

fatti così

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Una mia collega sostiene che nella frase “Chi hai incontrato ai giardini” il complemento oggetto sia “hai incontrato”. Si chiama Eleonora ed è la stessa di qual è con l’apostrofo. Lo ha notato la mamma di un suo alunno durante la DAD che, come Eleonora e me, fa l’insegnante. Segue suo figlio, che ha Eleonora come docente delle materie dell’area linguistica da ottobre, durante le lezioni da remoto perché è beneficiario di un piano personalizzato volto all’inclusione come tanti altri bambini che, per una cosa o per l’altra, non riescono a tenere il ritmo della classe. Ma quindi, i genitori che assistono sono un problema o no?

A differenza dello scorso anno, a questo giro di didattica a distanza c’è stato un netto miglioramento della questione, nella mia classe. Faccio molte più ore sincrone e a tutti i bambini insieme, mentre con il primo lockdown avevamo formato dei gruppetti con incontri ridotti al minimo, privilegiando le lezioni asincrone. Ma erano bambini di prima e non tutti sembravano in grado di gestire il dispositivo e la piattaforma in autonomia. Ora, un po’ perché sono più grandi e un po’ grazie all’esperienza acquisita, li vedo da soli alle loro postazioni. Ogni tanto fa capolino una mamma, un papà o un nonno per controllare se tutto fila liscio. Ma nell’insieme nessuno si lamenta.

Io ho dato disposizioni affinché l’ambiente in cui si collegano sia adatto alla scuola da casa. Il posizionamento dei device deve consentire di scrivere sui quadernoni o sul libro ma, allo stesso tempo, garantire la possibilità di accendere o spegnere il microfono facilmente e senza dover spostare nulla. Il tutto possibilmente consentendo ai bambini una postura corretta – le ore al pc iniziano a essere tante – e soprattutto comoda. Ho suggerito di evitare che ci sia una fonte luminosa alle spalle per evitare riflessi sullo schermo – e fastidi agli occhi – e l’effetto controluce per l’insegnante. Nei casi in cui dei bambini da qui si vede solo la fronte ho chiesto di usare uno o più cuscini sulla sedia, in modo da migliorare la comunicazione docente-alunno con tutta la forza espressiva della mimica facciale. Il fatto è che la loro autonomia coincide con la nostra emancipazione dagli adulti che suggeriscono e, soprattutto, dall’ingerenza sul metodo adottato e sulla nostra competenza, abbattendo quindi la possibilità che qualcuno possa accorgersi delle colleghe che, come Eleonora, sostengono che nella frase “Chi hai incontrato ai giardini” il complemento oggetto sia “hai incontrato”.

Anche mia figlia, che è grande e fa la quarta superiore, segue le lezioni da casa e io evito come la peste di trovarmi coinvolto in un qualunque momento di vita quotidiana in classe, a partire dalle spiegazioni per non parlare delle interrogazioni. L’altra mattina stavo lavorando in sala e, non chiedetemi perché, ha deciso di partecipare all’ultima ora in classe con me vicino. C’era la prof di scienze che procedeva con una serie di interrogazioni programmate e che ha portato a termine dieci minuti prima della fine dell’ora. La prof di scienze è alle soglie della pensione e non risalta certo per iniziativa né per quella verve che fa appassionare i ragazzi alla disciplina. «Mancano dieci minuti: che cosa facciamo ora?» ha chiesto. Il più brillante della classe – siamo in una quarta liceo classico, quella che una volta era il secondo anno del triennio – è intervenuto dicendo che si poteva chiacchierare un po’. «Ci dica come si sente lei in questo momento», ha chiesto.

La buona prassi impone ai docenti di avere sempre qualcosa pronto da fare per evitare i buchi. Meglio abbondare con le attività, non si sa mai, alla peggio si tengono per un’altra occasione. La prof di scienze non ha mangiato la foglia. Meno male, sarebbe stato un momento molto cringe, come dicono mia figlia, il più brillante della classe – che non è mia figlia – e tutti i suoi coetanei. «Ho trovato! Vi faccio vedere una cosa che vi divertirà sicuramente». Il programma, i questa fase dell’anno, prevede l’approfondimento degli apparati del corpo umano. «Scegliete un apparato!», ha chiesto alla classe. La rappresentante degli studenti, spigliata tanto quanto il più brillante ma, in quando donna, molto più intelligente, ha risposto per tutti. “L’apparato digerente, visto che è quasi ora di pranzo”.

Si è capito allora dall’espressione del viso che la prof di scienze stava cercando qualcosa sul suo PC. «Vediamo se riesco a farvi vedere questo video». Ma le competenze digitali della prof lasciano a desiderare, essendosi formata in tempi analogici. «Lo vedete?» ha chiesto. «No, vero? Mi si è bloccato tutto», ha continuato. «Peccato, volevo condividere con voi un episodio di “Siamo fatti così”, un cartone animato che racconta il corpo umano». Io mi sono vergognato tantissimo per essere stato testimone di una scena così intima e imbarazzante per lei, per la classe, per la scuola italiana e per il mondo intero. Ho fatto finta di niente proprio per non passare per il genitore ingerente che mette il becco nel lavoro degli altri. Però, qualche domanda, me la sono posta. E una la faccio a voi: nella frase “Chi hai incontrato ai giardini” qual è il complemento oggetto?

oggi torna a essere un volodì come tutti gli altri

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Noi del #teampetrarca abbiamo vissuto il Dantedì con uno stato d’animo contraddittorio. Da una parte siamo stati orgogliosi del fatto che in tutto il mondo la nostra epoca letteraria preferita sia stata celebrata con tutti i crismi, un po’ come succede quando, a proposito degli anni 80, si citano solo i Duran Duran tralasciando band del calibro dei The Sound ma, comunque, siamo soddisfatti che si riconosca il valore di un periodo storico di cui siamo stati co-protagonisti. Dall’altra abbiamo provato un pizzico di invidia per esserci andati vicino ma senza esser stati beneficiati da tutta l’attenzione che è stata invece riposta al nostro competitor principale, quel messer Durante di Alighiero degli Alighieri che, ad oggi, detiene ancora un buon 75% del marketshare della notorietà della letteratura italiana delle origini, mentre noi e quegli sfaccendati del #teamboccaccio ci dobbiamo accontentare delle briciole. Poi, per carità, buon per lui che, nell’epoca dei blog come questo e delle nugae nugellae da social network, sia tuttora considerato il padre della nostra lingua e della nostra letteratura. Continueremo tuttavia ad accontentarci del suono in rime sparse del nostro fragmentum di rerum vulgarium quotidiano, ogni anno sempre lo stesso, senza badare a quello che ci rimane dei canti della Commedia imparati a memoria alle superiori, pratica che comunque ha una utilità indiscussa. Agli altri fan come me della poesia moderna dico di portare pazienza, il 2074 non è poi così lontano.

donne dududu

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Parlare di quote rosa nella musica è un controsenso ma solo in apparenza. Il rock è da sempre monopolio maschile e il luogo comune vede la presenza delle donne solo nel ruolo di comparse seminude nei video, al seguito delle band come groupies, mogli rompicoglioni ostacolo alla carriera o amanti sfasciafamiglie. Nel migliore dei casi sono invece muse ispiratrici di depressione, fonte di dissidi tra i componenti dei gruppi fino allo scioglimento o oggetto di discordie tra cantanti di band rivali e conseguente causa di suicidi di frontman. A conferma di ciò è la visione della donna come regina incontrastata del pop propria della nostra cultura occidentale, in un incrocio tra soubrette da MTV, ballerina e interprete di hit confezionate su misura da autori e parolieri maschi. Un vero e proprio soprammobile da spettacolo, rigorosamente sexy e oggettiva macchina da soldi.

A una analisi meno superficiale, è facile scoprire la quantità – e la qualità – di voci femminili che si stanno imponendo nel panorama della musica indie e alternativa, un altro baluardo marchiato tradizionalmente dal cromosoma xy. Per me sono una vera e propria fonte di culto, soprattutto se si tratta di artiste singole, cioè non front-woman di gruppi. Ce ne sono un’infinità ma, se vi fidate dei miei gusti, potete cominciare da queste.

Inizio da Valerie June ma solo perché è la più fresca di uscita discografica, ne ho parlato qui. Viene da Memphis e, con il suo particolarissimo timbro vocale, compone e interpreta un mix di folk americano e blues delle radici suonati con banjo, archi, steel guitar a fianco degli strumenti tradizionali. Un po’ più a nord, precisamente a Toronto, vive e suona Cold Specks, nome d’arte di Ladan Hussein, cantautrice di origini somale che ha pubblicato tre dischi bellissimi prima di interrompersi per una storia un po’ triste che trovate qui ma dalla quale si sta riprendendo. Non vediamo l’ora di mettere le mani – e le orecchie – sul nuovo album a cui sta lavorando e che pubblicherà a nome Ladan, questa volta.

Poi c’è la divina Sevdaliza – raffinatissima artista olandese ma di origini iraniane – che nel 2020 ha pubblicato “Shabrang”, uno dei dischi più belli dell’anno, anche se chi ha scritto questa recensione probabilmente pensava ad altro. Il genere è uno dei miei preferiti e, se fossimo negli anni novanta, potremmo definirlo trip-hop. Virando questo filone verso il neo soul e l’r&b, stile che vede come interpreti di punta FKA Twigs e Solange Knowles, vi consiglio la promettente Brittney Denise Parks, meglio nota con lo pseudonimo di Sudan Archives, autrice di un suadente album uscito nel 2019 e dal titolo “Athena”.

A cavallo tra le cantanti del paragrafo precedente e quelle che troverete sotto metterei – per questioni di sonorità – Laetitia Tamko, ovvero come è identificata all’anagrafe Vagabon, musicista e producer newyorkese ma di radici camerunensi. Il suo disco omonimo del 2019 merita ascolti attenti, ma anche il suo esordio “Infinite Worlds” del 2017 non scherza, in quanto a bellezza. Non sfigura al suo fianco Sunny War, musicista e cantante folk-punk con venature blues di Los Angeles. Proprio in questi giorni esce il suo nuovo album “Simple Syrup”, che non vedo l’ora di ascoltare.

Poi ci sono le cantautrici più come ce le immaginiamo noi dall’Italia, chitarra (a volte distorta) e voce con sconfinamenti nell’indie rock. Partendo dalle più elettriche valgono sicuramente una discografia completa nella vostra collezione di vinili Lucy Dacus, Phoebe Bridgers e Julien Baker – che non a caso si riuniscono anche in un supergruppo dal nome Boygenius – ciascuna con le sue peculiarità. La prima è la più ruvida di tutte, Phoebe Bridges quella più morbida e Julien Baker di sicuro la più alternativa. In questa macro-categoria è doveroso ricordare gli archetipi, secondo me riconducibili a P. J. Harvey e Sharon Van Hetten, sulle quali immagino sappiate già tutto ed è inutile che vi inviti ad ascoltarle.

Completamente fuori da tutti gli schemi Merrill Garbus, nota come Tune-Yards (che in realtà dovremmo scrivere tUnE-yArDs), un’artista statunitense sulla scena da più di dieci anni che sperimenta curiosi incroci tra indie-rock, afrobeat, elettronica e tante altre cose. Tra le ultimissime uscite un po’ fuori dagli schemi di quest’anno vi segnalo quella di Cassandra Jenkins, songwriter di Brooklyn che ha dato alle stampe da poco un sorprendente album dal titolo “An Overview on Phenomenal Nature”.

Mi sposto in Europa per condividere con voi la mia passione per Nadine Shah, vera indie-rocker dalle venature dark (agli esordi) e di più ampio respiro negli ultimi lavori. Se volete saperne di più qui trovate la mia recensione di “Holiday Destination”, album del 2017, e qui del recentissimo “Kitchen Sink”. Tra le mie preferite, anzi ai vertici delle top ten delle cose che ascolto più spesso, c’è Anna Lena Bruland, in arte Eera. Il suo “Reflection of Youth” propone in una veste psichedelica e alternative certe atmosfere rarefatte che Lana Del Rey interpreta in modo più modaiolo. Last but not least la giovane Nilüfer Yanya, attiva dal 2016 e autrice di un nuovo EP dal titolo “Feeling Lucky” e contenente il brano “Crash” che, da queste parti, da qualche giorno è in rotazione continua.

Chiudo con due certezze che, purtroppo, non si sentono da un po’: la blasonata superstar M.I.A. – sto aspettando il suo nuovo lavoro annunciato in uscita quest’anno – e la meno celebre ma altrettanto sublime Santigold che, come la cantante di “Paper Planes” mescola rap, reggae, drum’n’bass e r&b ma di cui da un po’ ho perso le tracce.

Se avete qualche suggerimento o mi sono dimenticato qualcosa, fatevi sentire.

elettrodomestici

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Mi piace come i tedeschi dicono “ziimens”. Ho scoperto la corretta pronuncia solo perché conosco uno di Berlino che ci ha lavorato. Io dicevo “simens” all’inglese – si scriverebbe “seamens” – quando rispondevo a chi mi chiedeva consiglio su quale lavatrice o lavastoviglie acquistare. Tutto perché mia mamma ha ancora una lavatrice e una lavastoviglie “ziimens” affiancate in cucina, a trent’anni dal loro acquisto, ma potrebbero anche essere trentacinque. Sono certo che sia presuntuosamente anglo-centrico pensare che le parole straniere debbano essere pronunciarle all’inglese. D’altro canto converrete con me che il tedesco non è per tutti. Oggi possiedo una lavastoviglie “mile”, che si scrive Miele ma si legge “milë (Ə)” scritto proprio così, con dei simboli indecifrabili per le persone normali e sarà per questo che i più dicono miele come quello che fanno le api, come quello che mangia Winnie the Pooh, che si legge “uinnidepu”, tanto per rimanere in tema. Per semplificarmi la vita, e per non rimanere sul lastrico, considerando che “ziimens” e “mile” non sono proprio prodotti economici, anche se poi ti durano tutta la vita come a mia mamma e come spero a me, ho scelto invece una lavatrice ellegi, che si scrive LG. La cosa bella è che, quando finisce il lavaggio, fa una musichetta che mi trovo spesso a canticchiare, come a dire che a casa mia si fanno parecchie lavatrici, soprattutto il sabato e la domenica, e che abbiamo sempre gli indumenti puliti e profumati di ammorbidente. In realtà, in questo momento di scarsa propensione alla vita outdoor dovuta alla pandemia in corso, non è che si sporcano molti vestiti. Invece è tutto un lavare piatti, pentole e stoviglie, perché siamo tutti a casa, si cucina a pranzo e a cena, ed è un continuo carica e scarica la lavastoviglie. Mi piacerebbe mostrarvi come carico i cestelli. Mi piacerebbe farvi sentire il profumo dell’ammorbidente e mi piacerebbe farvi sentire come canticchio la musichetta della lavatrice, ma non saprei proprio come.