proffesionisti

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Gli spunti di riflessione sulla didattica a distanza sono numerosissimi e non c’è media o profilo social che non ci ricordi, con una frequenza impressionante, la complessità della questione. Come ogni altro trend topic tendente alla sovraesposizione si passa dall’entusiasmo sfrenato per il potere taumaturgico della tecnologia al più becero luddismo da quattro soldi. Bene, mi viene da dire. Questo significa che la scuola è tornata al centro del dibattito. Il problema è che la resilienza si trasforma in insofferenza e la cosa ha fatto tutto il giro fino ad arrivare che al rientro a scuola nessuno vuole più tornare dopo che tutti volevano tornarci ma non si poteva. Ho letto molte cose interessanti e diversissime sul tema, in giro.

C’è una lettera, sul blog di Concita De Gregorio, in cui una mamma si chiede

Noi come lavoratori del settore privato abbiamo fatto dei sacrifici, lavorando fuori orario e spesso nel weekend per sopperire al tempo dedicato ai nostri figli durante l’orario lavorativo, senza chiedere straordinari, ma soltanto per il senso del dovere che ci lega alla nostra attività, per la volontà di rispettare le scadenze che ci sono state date o che spesso ci siamo dati da soli.

Allora mi chiedo, perché la scuola non può fare altrettanto? Perché non rinunciare alla pausa Pasquale per quei bambini che riprendono ad andare a scuola solo 2 giorni prima di questa pausa? Perché la scuola non si può prolungare nel periodo estivo per restituire ai ragazzi un po’ di quel tempo perso durante i periodi peggiori della pandemia? Perché gli insegnanti non si offrono di dare un supporto spot ai ragazzi in DAD invece di limitarsi a quelle poche ore di lezione sincrona? Perché gli insegnanti o i sindacati continuano a opporsi sempre ad ogni proposta innovativa che riguarda la scuola mentre i genitori devono sempre fare i salti mortali per conciliare il lavoro con le esigenze familiari?

La DAD è faticosa tanto per i ragazzi quanto per gli insegnanti. A parte la formazione a cui in molti si sono sottoposti per poter sfruttare al meglio le piattaforme in modo da evitare una mera trasposizione della lezione frontale in videoconferenza, si è resa necessaria una riformulazione della valutazione, per non parlare delle conseguenze che l’anno di pandemia avrà sul seguito del percorso scolastico, durante il quale i docenti dovranno tenere conto del tempo speso diversamente dalla scuola tradizionale e si dovrà scegliere se dedicarsi a un recupero in fretta e furia del programma perso oppure fare leva sull’esperienza per dare una svecchiata a certe dinamiche didattiche agli antipodi del mondo del lavoro. Io non credo che il tempo regolamentare sia sufficiente per dedicarsi a tutto questo. Se c’è da lavorare in classe (rigorosamente senza aria condizionata, speriamo almeno tutti vaccinati, adulti e non) a fine anno scolastico io ci sono. A noi insegnanti si chiede qualcosa in più, spero che siano in molti a mettersi in gioco, a fronte (speriamo) di un riconoscimento economico per i volenterosi.

C’è poi un pezzo tratto da Il Foglio, riportato sul blog di Claudio Giunta, con cui non sono completamente in accordo ma che ha formulato due spunti interessanti utili a verticalizzare il percorso formativo dei ragazzi, un antidoto agli errori di scelta (che non ci sarebbe problema a commetterli se la scuola fosse focalizzata sull’insegnamento anziché sulla valutazione) e all’abbandono scolastico, una lesson learned dopo quanto successo negli ultimi dodici mesi.

Gli esami delle medie fungeranno da prova d’ingresso per le superiori, con commissioni composte da insegnanti di liceo, vincolando i candidati alla scelta successiva in base a inclinazioni e capacità comprovate. La maturità si svolgerà interamente per iscritto e sarà valutata anonimamente durante l’estate da una megacommissione centralizzata che assegnerà voti in modo univoco. Gli studenti faranno un bagno di realtà e ciascuna scuola capirà davvero se funziona o se non prepara in modo adeguato.

Chiudo quindi con le parole pubblicate sul profilo LinkedIn di David Bevilacqua. Il titolo dice già tutto: “Shining e le lezioni della pandemia: da soli e senza distrazioni non siamo affatto più produttivi, siamo semplicemente a rischio“. Bevilacqua parla di aziende, di remote working e di nuova normalità nel mondo delle imprese con spunti che possono tranquillamente essere applicati alla scuola post-covid. Lo riporto integralmente per chi non può accedere a LinkedIn.

Nel classico horror di Stanley Kubrick, Shining, Jack Torrance, impersonato da Jack Nicholson è uno scrittore di romanzi che sogna un posto dove poter finire il proprio romanzo in pace, al riparo dal caos cittadino e da ogni forma di distrazione.

L’ Overlook Hotel, piazzato in un remoto punto delle Montagne Rocciose del Colorado, sembra la soluzione. C’è vacante un posto da custode, una paga dignitosa, un luogo apparentemente confortevole e di lusso per la sua famiglia, la moglie Wendy e il figlioletto Danny.

Il manager che gli illustra il lavoro, Dick Hallorann, impersonato da un magistrale Scatman Crothers, è molto chiaro al riguardo: “Fisicamente non è un lavoro molto impegnativo”, gli dice il manager prima dell’inizio di quello che dovrebbe essere un periodo di cinque mesi. “L’unica cosa che può diventare un po’ difficile qui durante l’inverno è un tremendo senso di isolamento.”

Isolamento. Un tremendo senso di isolamento.

Il Maggio scorso si sono celebrati i quarant’anni dall’uscita del film. Un capolavoro di Kubrick che tuttavia negli anni riuscì a fare discutere e dividere. Per molti si tratta di un film di altissimo livello, così alto che ciascuno può trovarne un proprio senso. Per altri, compreso lo scrittore Stephen King autore del libro dal quale il film è tratto, vi sono troppi buchi logici e troppe cose lasciate in aria. Come il fatto che non è chiaro se Jack arrivi pazzo all’hotel, se lo diventi in seguito, se ha davvero qualche collegamento con gli ospiti fantasmi e i truci assassini. O, più semplicemente, come sia possibile che un albergo così grande risulti in ogni scena sempre lucido e splendente senza traccia di polvere.

Quel che bisogna dire però è che, almeno all’epoca, era troppo fresco il successo di “2001: Odissea nello spazio” e troppo impietoso il confronto.

Oppure, riprendendo una osservazione apparsa proprio in questi giorni sull’Economist, tra i due film di Kubrick, Odissea nello spazio e Shining, emerge un messaggio ben preciso e non serve cercare altro: se tre persone sono bloccate in uno spazio ristretto in mezzo al nulla, una di loro impazzirà e cercherà di uccidere gli altri.

Ecco, questa riflessione, probabilmente è troppo banale per una reale critica cinematografica ma è forse il pensiero che più ci viene in mente in questi giorni. Quarant’anni dopo. Rinchiusi tutti in spazi familiari divenuti troppo stretti. Disciplinati da zone e colori che non capiamo e tolleriamo a fatica. Catapultati tutti in un Overlook personale. Dove “fisicamente non è così impegnativo, ma si prova un tremendo senso di isolamento”.

“Tutto lavoro e niente svago rendono Jack un ragazzo annoiato”.

In Shining, come accade in quasi ogni altro film, c’è una storia nella storia. La frase che ad esempio Jack ripete ossessivamente alla sua macchina da scrivere, cambia a seconda della versione linguistica del film.

Si dice che lo stesso Kubrick pretese di vedere e approvare le singole traduzioni e, alla fine, quel che ne esce fuori confrontandole è un interessante contraddizione di pensieri riguardo la produttività.

Nella versione italiana, Jack ripete ossessivamente: “il mattino ha l’oro in bocca”

In tedesco, “non rimandare a domani quello che puoi fare oggi”

In inglese invece, nella lingua originale, troviamo forse la cantilena più potente: “All work and no play makes Jack a dull boy”.

“Tutto lavoro e niente svago rendono Jack un ragazzo annoiato”.

Ragazzi annoiati. E soli. Da oltre un anno a questa parte, lo siamo forse un po’ tutti.

Abbiamo bisogno degli altri. Abbiamo bisogno dell’altro.

Quello che Jack sperimentò in un hotel sperduto del Colorado, lo stiamo sperimentando tutti.

Ma la scienza lo ha sempre saputo.

In uno degli esperimenti più bizzarri e crudeli, fra storia e leggenda, un posto di rilievo spetta alla ricerca linguistica di Federico II, ben ripresa e raccontata in un bell’articolo apparso qualche anno fa su Repubblica.

Nella Cronaca lo storico del XIII secolo, Salimbene de Adam, descrive un esperimento, ideato dall’imperatore Federico II di Svevia, per rispondere alla dibattuta questione che gli antichi linguisti si erano posti sin dai tempi del faraone Psammetico: qual è la lingua umana originaria? L’egiziano, il frigio, l’ebraico?

Per provare a rispondere, Federico II decise di far nutrire regolarmente un gruppo di neonati in assoluto silenzio, i piccoli furono toccati quel minimo indispensabile alle cure igieniche al fine di eliminare completamente le loro possibilità di interazioni linguistiche con le nutrici.

Come risultato, i bambini non parlarono però né egiziano né ebraico. Morirono.

Se questa storia può apparire poco credibile, vi è esperimento dai risultati molto simili, frutto di alcuni studi condotti da Renè Spitz uno psicoanalista viennese emigrato durante la seconda guerra mondiale negli Stati Uniti.

Nello scritto Hospitalism e nel filmato Grief a peril in infancy il ricercatore osservò 91 bambini abbandonati sin dalla nascita in orfanotrofio, nutriti regolarmente ma con scarsi contatti interpersonali. Le nutrici dedicavano qualche carezza ai primi della grande camerata in cui vivevano gli infanti ma per gli ultimi il tempo stringeva e non si andava oltre le minime interazioni necessarie al nutrimento e all’igiene.

Dopo 3 mesi di carenza di contatti i bimbi svilupparono una grave apatia, inespressività del volto, ritardo motorio e deterioramento della coordinazione oculare.

Entro la fine del secondo anno di vita, il 37% dei 91 bambini, pur essendo stati alimentati correttamente, morì. Morirono con i segni clinici del marasma, una malattia provocata dalla carenza proteica tipica della denutrizione. Morirono di fame, fame di contatto.

È tremendo. E per il futuro dobbiamo ricordarcene.

Il ghigno folle di Jack, le ricerche, le esperienze personali e l’esperienza di questi mesi. Abbiamo davvero troppo materiale per non ammettere che mente e corpo sono sin troppo correlati e non vi è qualcosa che conta più dell’altro.

Anche se siamo in una situazione in cui la tutela dell’integrità fisica, salvare la vita, appare fondamentale, bisogna ricordare che la vita è fatta anche da affetto, interessi, contatto.

Questo per ricordare e ricordarci di essere più buoni con noi stessi.

Quando non siamo così produttivi anche se privi di distrazioni.

Per ricordarlo anche nei confronti dei nostri collaboratori.

E per ricordarcelo pensando al futuro.

“Fisicamente non è così impegnativo, ma si prova un tremendo senso di isolamento”.

Ho scritto molto di Smart Working in questi anni e ho deciso di abbandonare tutti quei dibattiti su Smart-working vs remote working o su quale sia la settimana ideale di lavoro nel periodo post-pandemia.

Quattro ore la settimana, cinque, dodici con intermezzi musicali? Conta poco.

Solo ufficio o solo smartworking? Irrilevante.

Tutti a lavorare nei borghi? Non credo.

Southworking ? Improbabile.

Anche quando torneremo tutti in ufficio, non lo faremo tutti i giorni e forse non per tutta la giornata, ma lo faremo perché sceglieremo di farlo e non perché’ saremo obbligati, ma oggi più di prima ci servono mondi nuovi.

Uffici che siano luoghi di socialità e scambio.

Spazi belli, spazi aperti e di condivisione dove passare una parte e una dimensione importante, ma non esclusiva della nostra vita. Non saranno quindi palestre, mense e calcio balilla a farci scegliere di recarci ma il valore delle relazioni che troveremo e lo spessore delle persone che li abiteranno.

Tanto, non tutto.

A un passo dai cinquant’anni, compresi che l’ufficio non è la mia casa, l’azienda non è la mia famiglia e il lavoro non è la mia vita.

Il lavoro è una parte importante, importantissima ma non totalizzante. Ho compreso che per lavorare bene avevo bisogno anche e soprattutto di vivere bene.

In fondo, anche se lavori in un’azienda con decine di migliaia di dipendenti, per quanto grande, innovativa, meravigliosa e diffusa nel mondo possa essere, stiamo comunque parlando di un microcosmo. Stiamo parlando di qualcosa di più piccolo di un qualunque quartiere di Milano, che certamente non può avere né instillare la pretesa di contenere tutta una vita.

Ecco, penso che la pandemia lo abbia adesso ricordato a tutti. E tra tanta difficoltà e tristezza, questo è qualcosa da ricordare.

All works and no play, makes Jack a dull boy

All works and no play, makes Jack a dull boy

All works and no play, makes Jack a dull boy

All works and no play, makes Jack a dull boy

diversi piani di leggerezza

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A ogni sigla finale di “Via dei Matti n. 0”, la striscia serale del momento di RaiTre di cui ho già parlato qui, mi chiedo quanto possa essere divertente la vita a casa Bollani/Cenni. Pensate ad avere in casa uno che suona così bene e lo fa di mestiere, o una così brillante a raccontare le cose che staresti ore ad ascoltarla. «Stefano, mi suoni qualcosa?» e, dal piano a coda posizionato al centro del salotto, ecco una meraviglia jazz o un’improvvisazione su un canto folk rumeno o una versione bebop della canzonetta vincitrice di Sanremo o un’armonizzazione da manuale dei primi quattro accordi che gli vengono in mente sentendo cigolare la porta di casa. Oppure «Valentina, mi racconti qualcosa?» ed ecco una piece comica o un monologo drammatico, la trasposizione di un dialogo di un film di successo o un adattamento in versi di una conversazione ascoltata in dialetto romagnolo al chiosco delle piadine. Per non parlare dei coretti a due voci o del modo in cui si spiegano e si raccontano le cose, e chissà come lo fanno a telecamere spente. Pensate ad averli come amici: una cena da loro sarebbe una serata indimenticabile. Avrei mille cose da chiedergli e passerei tutto il tempo in brodo di giuggiole. Quante cose potrei imparare. Chissà come dev’essere, invece, un invito a casa di Fedez e Chiara Ferragni. Non credo proprio che sia la stessa cosa, che dite? Forse è un po’ come la casa del grande fratello della risata andata in onda con “LOL”, su Amazon Prime, presentata proprio da Fedez. In rete – giustamente – non si parla d’altro. Io mi sono talmente immedesimato nello spirito della trasmissione che, davvero, sono riuscito a non ridere per tutto il tempo, nemmeno una volta. Che cosa c’era da ridere? Solo per questo sono arrivato sino alla fine e ho vinto io. Anzi, ha vinto Bollani.

quando tua mamma Creusa ti chiama

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«Asky!», così ha chiamato la donna che mi precedeva in coda alla cassa del supermercato. La cosa mi è sembrata strana perché ai cani non è consentito l’ingresso. Quante volte vi è capitato di vedere esemplari domestici a quattro zampe attendere il padrone con gli occhi tristi di quella tristezza che hanno solo i cani, legati a un palo all’esterno della Coop o dell’Esselunga? Ho immediatamente pensato alla stranezza della scelta del nome: un cane che si chiama Asky altro non può essere che di razza Husky, quelli che attirano le ire degli animalisti puristi in quanto costretti a sopportare il clima di latitudini ben diverse rispetto a quelle da cui provengono. In verità ho un ex collega che ha un Husky, a essere precisi una Husky, e quando la portava in ufficio mi raccontava che quella che da noi patiscono il caldo è una leggenda metropolitana. Non lo so e non mi interessa. Sono proprietario di un gatto e mi basta e avanza. «Asky dove sei?», ha ripetuto la mamma. Dal corridoio delle riviste è spuntato un bambino di corsa, avrà avuto nove o dieci anni. «Ascanio forza vieni che ora tocca a noi!». Ho pensato allo spreco di dare a un figlio il nome del fondatore di Albalonga, o comunque di un protagonista dell’Eneide, per poi rivolgersi a lui con una abbreviazione così riduttiva della portata storica del suo significato. Incontrare Ascanio alla Coop mi ha catapultato in una nuova dimensione. Ho rivolto immediatamente lo sguardo, con timore reverenziale, a Creusa intenta a riporre il contenuto del carrello sul nastro trasportatore, sperando che all’altro lato della cassa ci fosse Enea in persona pronto a mettere tutto nelle buste di plastica. Una famiglia in fuga da Troia e intenta a fare provviste prima di giungere nel Lazio – probabilmente i prezzi qui da noi sono più convenienti – e fondare una nuova città. Il problema è che Creusa muore prima. Anzi si perde, e poi Enea torna a cercarla ma vede solo la sua ombra che lo convince a continuare la spesa alla Coop in sua vece e a portare a termine la missione con la sua fidelity card e soprattutto con Ascanio che, nel frattempo, ha preso un Topolino e pretende anche un ovetto Kinder. Sapete come sono i bambini quando accompagnano i genitori a fare la spesa. Chissà che gli diranno, ad Ascanio, i compagni di classe. Lo chiameranno Asky anche a scuola? Speriamo di no.

a volte ritornano

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Ho dimenticato di dirvi che, nel frattempo, la scuola primaria è ripartita e, a quanto sembra, lunedì torneranno in classe tutti gli altri. In realtà non siamo stati fermi del tutto. Una manciata di studenti della primaria e della secondaria di primo grado, individuati tra i bisognosi di percorsi educativi speciali, soggetti a rischio dispersione scolastica e figli di genitori in forza a categorie professionali fondamentali – medici e forze dell’ordine – non hanno mai interrotto la didattica in presenza. A questi alunni i docenti hanno tenuto lezioni in aula, collegandosi tramite videoconferenza con il resto dei ragazzi a casa. La scuola non è stata quindi chiusa del tutto, come lo scorso anno. Siamo stati in molti, me comprese, ad aver svolto qualche ora di didattica a distanza dalla propria classe anche senza bambini in presenza. Collegarmi da uno spazio famigliare per i miei alunni è stata comunque una buona idea perché li ha convinti che a questo giro si è trattato solo di un momento di sospensione e non la fine di tutto, come lo scorso anno. Mercoledì ci siamo ritrovati ed è stata un festa. Le lezioni a distanza, questa volta, sono state tutto sommato efficaci. Tornati in classe, ci sono bastati un paio di giorni per scaldare i motori e riprendere da dove ci eravamo lasciati. Ci siamo sentiti bene. Speriamo che questo mese di didattica da casa servito a limitare i contagi. Sono in molti ad avere dei dubbi, come c’è chi sostiene che riaprire anche alle superiori dalla prossima settimana sia un errore. Io lascio le decisioni a chi ne sa più di me. Nel frattempo, anche se ho la prima dose di astrazeneca in corpo, non abbasso la guardia, tantomeno la mascherina. L’importante è aver ripreso. Viva la scuola, abbasso le vacanze.

risorto

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Il Registro Elettronico sta tornando online. Be’ dai, poteva andare peggio: gli hacker avrebbero potuto prenderlo in ostaggio in prossimità degli scrutini di fine anno, anziché a cavallo delle vacanze di Pasqua. Magari si tratta di un avvertimento. Nel caso, sappiate che io non c’entro. Ve lo immaginate? Comunque tutto è bene quel che finisce bene. E ora mi raccomando, amici di Axios, fate un bell’investimento in sicurezza, business continuity e disaster recovery.

spaghetti software

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Ci sono diverse anime, non necessariamente così radicali come potremmo immaginarle, che dalla base si battono per proteggere la scuola italiana dai colossi dell’industria digitale e dai rischi che tale sudditanza comporta. Sostengono l’importanza per cui la scuola debba essere libera dai brand commerciali e dalle multinazionali.

Il fatto è che con il palesarsi della pandemia da Covid 19 si è reso imprescindibile il ricorso a una piattaforma di comunicazione e collaborazione a distanza per garantire lo svolgimento delle lezioni e le attività organizzative. Molti istituti si sono fatti trovare impreparati all’emergenza – malgrado si parli di scuola digitale almeno da quindici anni – e c’è stata una corsa al si salvi chi può con l’implementazione delle soluzioni dei due principali player del settore, Google e Microsoft. Considerando anche la situazione pregressa, non ho dati alla mano ma dalla mia esperienza diretta potrei azzardare che il marketshare si attesti su percentuali rispettivamente dell’80 e del 20, approssimando allo zero una residua manciata di pionieri di altre iniziative, piccole ma pur valide, a partire da WeSchool (ma sui numeri potrei sbagliarmi). La suite di Google si rivolge gratuitamente al settore con prodotti pensati per l’educational da diversi anni, oramai, mentre il percorso di Microsoft è stato percepito più come un tentativo di mettere i bastoni tra le ruote a un monopolio che si è diffuso grazie all’oggettiva superiorità del prodotto.

Ma non è questo il punto. Che siate per un partito o per l’altro, nelle server farm dei due giganti che, grazie ai miliardi di utenti in tutto il mondo dei prodotti commercializzati possono vantare fantastiliardi di dollari di giro d’affari complessivo, ora ci sono le verifiche di matematica e le ricerche sul sistema solare dei nostri figli. Un trend che ha messo in guardia non pochi paladini della filosofia open source o, peggio, del software a km zero.

Quando il coronavirus ha rintanato nelle stanzette milioni di studenti italiani di ogni età si è visto qualche idealista lanciare un allarme sotto certi aspetti fondato: a fronte di soluzioni gratuite per la DAD stiamo offrendo su un piatto di silicio i dati di milioni di ragazzi alle multinazionali del web! Zelanti esponenti di ogni livello della scuola pubblica, gli stessi che documentano nel dettaglio la vita dei figli sui rispettivi profili Facebook, si sono assunti addirittura l’onere di scartabellare tre le condizioni di servizio di questa o quell’altra piattaforma per capire se gli strumenti offerti fossero in linea con il GDPR, per non parlare dei dirigenti che si sono rivolti personalmente a Microsoft o a Google per avere garanzie sul fatto che i dati dei bambini fossero conservati in un cloud europeo. Ve li immaginate Project Manager indiani decifrare i fax della pubblica amministrazione italiana con tali richieste di altri tempi?

Ma chi se ne importa. Nelle scuole italiane si sono diffuse largamente Google Workspace for Education e Microsoft Teams e, a poco più di un anno di distanza dal paziente zero, possiamo dire che di riffa o di raffa abbiamo portato a casa il risultato. Non entro nel merito se DAD e DDI siano efficaci, tutto sommato però le due piattaforme adottate ci hanno permesso di dare continuità alla didattica. Lasciate stare tutto il folklore sugli intrusi nelle lezioni in videoconferenza e qualche episodio di spavalderia adolescenziale online. Nei casi in cui si sono verificati problemi è perché i docenti coinvolti non erano pratici dello strumento. C’è poi un sottobosco di sostenitori del software libero che è un mondo delle idee bellissimo se, nelle scuole, non fossero insegnanti di buona volontà a occuparsi della gestione della componente informatica ma esistesse un team dedicato (e pagato).

Tutto questo per dire che potrei essere smentito ma non credo che Microsoft e Google si troveranno mai, un giorno, costrette da qualche hacker a pagare un riscatto per sbloccare le loro piattaforme didattiche. Non credo che succederà perché la sicurezza dei dati è il loro core business. La disponibilità, il miglioramento e l’accuratezza dei loro servizi in termini di user experience e di funzionalità offerte hanno coinciso con la sicurezza informatica. Certo, direte voi, è facile dotarsi di sistemi di protezione di altissimo livelli quando hai fantastiliardi da investire, ma questa è l’imprenditoria. Se vuoi stare sul mercato globale scegli il modo in cui proporti, correndo dei rischi e prendendo delle decisioni. Poi è chiaro che nel settore del digitale i giochi sono fatti. A nessuno oggi verrebbe in mente di sviluppare un motore di ricerca, un software di videoscrittura o un social network. Tanto meno dalle nostre parti, dove non c’è una tradizione informatica e i pochi cervelli adatti a dedicarvisi, giustamente, volano altrove.

La notizia del momento è che la piattaforma di registro elettronico più diffusa in Italia è stata presa in ostaggio in un attacco di tipo ransonmware. Sapete come funziona? Qualche malintenzionato cambia di nascosto la serratura di un ambiente virtuale e, per darti la chiave, chiede un riscatto.

Agli hacker che impediscono l’accesso ai proprietari della piattaforma non interessa certo vendere i voti di Carletto e Mariuccia della 2B ai servizi segreti russi, da questo punto di vista un registro elettronico non è certo Facebook. Piuttosto guadagnare mettendo in ginocchio un’azienda che fornisce servizi a una delle principali organizzazioni della nostra economia, la scuola. Nei confronti di questi professionisti che stanno vivendo una delle peggiori situazioni in cui un’azienda del settore ICT possa essere coinvolta esprimo la massima solidarietà e spero che il tutto si risolva senza conseguenze.

Rinnovo però una domanda retorica, chiedendomi perché non ci sia mai stato un piano di sviluppo digitale strutturato per la scuola come avviene nelle aziende in cui Internet e l’informatica giocano un ruolo fondamentale. Perché non ci sia una visione organica e nazionale, anziché demandata ai singoli istituti. Perché non ci sia una efficace analisi dei fabbisogni e delle scelte da intraprendere per proteggere investimenti, creare economie di scala, consentire crescita flessibile in modo da poter riutilizzare quanto integrato nella fase precedente senza, ogni volta, buttare via tutto.

Tutti aspetti che, in qualunque organizzazione di qualsiasi settore, fanno parte di una roadmap di sviluppo. Nella scuola italiana, invece, l’impressione è che ci si sia spesso lasciati prendere dall’entusiasmo del momento, da trend e demoni tecnologici, da linee guida indicate da figure poco competenti e da mille altri fattori che sappiamo e che è inutile ripeterci. Nessuna organizzazione si rivolgerebbe a fornitori di piattaforme digitali prive di garanzie su standard tali da assicurare continuità di servizio. E il paradosso è che, in home page, questi fornitori assicurano altissimi standard di sicurezza e puntano sull’italianità dei server.

Quando, lo scorso anno, si è diffusa la notizia che qualcuno al MIUR aveva dichiarato di voler lavorare per lo sviluppo di una nuova piattaforma proprietaria e tutta italiana da fornire alle scuole per la DAD, mi è venuta la pelle d’oca. Pensate allo spreco di denaro, tempo e risorse, avendo già a disposizione le soluzioni di Google e di Microsoft, di cui si può dire tutto tranne che non sia gente che sappia fare il suo lavoro e che offra livelli di sicurezza adeguata. Non è che tutti riescono a fare tutto. In Italia siamo bravissimi in cucina e abbiamo la stragrande maggioranza del patrimonio artistico e culturale mondiale. L’informatica lasciamola alla Silicon Valley.


Dry Cleaning – New Long Leg

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Ammiro il coraggio degli artisti che puntano tutto sulla formula della loro proposta e non solo sulle canzoni in sé. Li stimo perché si prendono un rischio doppio rispetto agli altri. Oltre a piacere o non piacere entra in gioco anche la possibilità che la formula scelta vada a scapito delle canzoni e che non sia una fonte inesauribile. Certo, azzeccare entrambe le cose – la formula e le canzoni – ti fa entrare nella storia. Sarai ricordato come un innovatore, l’archetipo di uno stile. Sarai l’ispiratore di band di emuli e ci saranno fior di esordienti che dichiareranno alla stampa di aver imbracciato per la prima volta una chitarra o di aver cominciato a scrivere versi grazie a te.

Il fatto è che se inauguri un filone devi essere davvero convinto e altrettanto convincente. Ora lasciamo perdere le speculazioni su quanti dischi riusciranno a pubblicare – fedeli quello a che fanno – mantenendo la sicurezza di sé e la stessa freschezza di cui gli EP di esordio e il primo long playing “New Long Leg” sono permeati. Focalizziamoci sul presente. I Dry Cleaning sono davvero qualcosa di imperscrutabile e risultano al contempo una delle più interessanti originalità degli ultimi anni.

Provenienti, manco a dirlo, da South London, una miniera d’oro per il post-punk britannico, Tom Dowse alla chitarra, Lewis Maynard al basso e Nick Buxton alla batteria suonano la musica del momento secondo canoni irreprensibili. La differenza è che Florence Shaw non imita Siouxsie né sbraita volgarità con la voce roca e neppure fa la lagna imbracciando una chitarra con quelle pose indie d’ordinanza che i cliché del genere impongono alle front-woman. La sua voce impassibile si muove su una fune tesa tra la melodia e il recitato, un perfetto equilibrio in cui il suo incedere distrae dalla ricerca della vera natura delle loro composizioni: sarà musica o sarà poesia? Se questo è un limite o un punto di forza lo deciderà il tempo. Se fai canzoni ed esaurisci l’ispirazione puoi sempre variare stile. Se fai spoken word su basi post-punk – la formula della proposta dei Dry Cleaning – puoi solo inventare tutto da zero e crescere e basta, ma devi essere il più creativo di tutti. E, al momento, ci riescono alla grande.

L’effetto del flusso narrativo di Florence Shaw è sorprendente e non ci vuole molto a lasciarsi convincere. La ascolti raccontare qualcosa che non torna del tutto e, per questo, la preghi di farti sapere di più, di scendere nei dettagli, di fornirti dei chiarimenti. In “New Long Leg” ci sono storie di alienazione, di paranoia e di ansie quotidiane. Una sequenza di commenti corali a un tweet visionario. Lo zapping alla tv tra un talk show e la pubblicità sul canale successivo. Un brainstorming finalizzato alla ricerca dello slogan per un prodotto. Il tutto montato a dovere, senza lasciare nulla al caso. Una visione del mondo piena di dubbi che non necessitano alcuna risposta.

Basta solo superare il paradosso alla base di tutto. In una musica così trascinante e nervosa fino all’ossessione il monologo come voce solista non è una componente statica che si mette di traverso per guastare la festa alla gente che è venuta al concerto con l’intenzione di ballarsi addosso. Semmai il contrario. Seguire Florence Shaw significa lasciarsi trascinare lungo il suo placido e costante torrente di parole. Canzoni a metà ma non prive di struttura, strofe e ritornelli, per di più composte da versi a cui manca davvero poco per assurgere a una dignità melodica.

Fino a quando, a 3 minuti dopo l’inizio di “More Big Birds”, la terz’ultima traccia dell’album, a Florence Shaw scappa di cantare e, ancora un paradosso, canta senza dire nemmeno una parola. In quel momento, a voler banalizzare, sarebbe facile perdere la testa, tuffarsi in quell’oceano di beatitudine che anche solo un du-du-du-du, in forma di aria e accennato da una delle più belle e carnose voci della musica che gira intorno di questi tempi, può generare, dopo brani su brani in cui ci siamo lasciati incantare da quella scia di armonici scaturiti da un timbro così inebriante. Bisogna trattenersi dall’implorare i Dry Cleaning di farlo ancora, di dimostrarsi meno radicali e intransigenti. Ma, al momento, è un buco nell’acqua.

Senza contare la difficoltà di separare la componente strumentale, sotto a quel fiume di parole. L’altra metà della magia dei Dry Cleaning va ricondotta infatti alla perfetta sintonia della sezione ritmica, ai loop di basso, ai riff e ai soli accennati di chitarra. Un amalgama perfettamente riuscito e davvero sorprendente. Prodotto da John Parish e registrato con mille espedienti a cavallo del lockdown, “New Long Leg” è uno straordinario lasciapassare per prendersi una vacanza da questo eterno presente e dalla manciata di metri quadrati a cui siamo costretti.

la notte dei miracoli

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Conosco l’uomo seduto sulle gradinate a qualche metro da me. Ora fa l’avvocato, ma negli anni settanta è stato un cantautore all’avanguardia. Vi ricordate quando, sull’onda delle tensioni sociali dell’epoca, musica popolare, radici folk e dialetto sono stati oggetto di riscoperta da parte dell’industria discografica? Di recente si è presentato persino come concorrente per uno degli svariati talent show tutti uguali pensati per preparare al mondo dello showbiz qualche giovane esordiente sottratto al settore del delivery a pedali. La sua candidatura si è fermata tra i fenomeni da baraccone che inframezzano lo spettacolo della selezione vera e propria, temo per il fattore anagrafico. Oltre il danno, però, la beffa, perché nessuno dei giudici lo ha riconosciuto. Stasera indossa una giacca color glicine sopra una camicia bianca e una cravatta blu. C’è un po’ di vento e siamo gli unici due spettatori non autorizzati a seguire lo spettacolo che si terrà a breve in questo anfiteatro finto-greco che sembra più una piscina prosciugata. Il palco è montato sul fondo ma, per un efficace effetto ottico degno della riproduzione di una stampa di Escher, lo vediamo più in alto della nostra posizione. Mi chiede se può avvicinarsi e non mi sembra una cattiva idea. Finché i musicisti sono in pausa e consumano la cena possiamo chiacchierare un po’. Io sono convinto che abbia preso l’iniziativa perché, durante la lunga parte strumentale del brano che ha introdotto poco fa l’esibizione, mi ha visto scambiare qualche battuta con il cantante, che poi è Lucio Dalla. Pensa che, in quanto ospite della serata, io sia importante quanto lui, che anche io faccia parte dell’ambiente artistico. In realtà sono uno qualunque ma invitato dal batterista, che è un amico di infanzia. La sera prima, per caso, sono capitato in un’altra tappa dello stesso tour, nel portico del chiostro medioevale di un’abbazia delle vicinanze. Sono andato a salutarlo anche per chiedergli spiegazioni sul un brano del repertorio che avevano appena eseguito e sul nesso della canzone con la carriera di Dalla, un autore che di certo non ha bisogno di attingere da composizioni altrui. Mi aveva incuriosito infatti l’esecuzione di “You Make Me Feel (Mighty Real)” di Sylvester. Il mio amico batterista mi ha fatto notare la presenza dell’autore della hit da discoteca (peraltro defunto tanto quanto Lucio Dalla) come tastierista del complesso, confessandomi che, data la crisi dei live dovuta alla pandemia in corso, anche i professionisti del loro calibro si sono dovuti adattare alla musica da intrattenimento. Non a caso, mi ha detto, la sera successiva avrebbero suonato a una festa privata a cui, se mi faceva piacere, avrei potuto partecipare aggregandomi a loro come seguito della band. Ecco perché mi trovo qui. Vedo Lucio Dalla con il suo cappello di lana seduto a tavola, lo osservo di schiena lamentarsi con un forte accento bolognese della scarsa attenzione che i facoltosi invitati rivolgono alle sue canzoni.  Alle mie spalle e dietro l’unico altro spettatore, che ora siede al mio fianco, ci sono diverse tavolate conviviali con portate da ricchi su tovaglie immacolate. Dalla barba bianca di quello che è il festeggiato potrebbe trattarsi anche del compleanno di Dio. Il posto si trova a fianco del sentiero che costeggia i binari delle Ferrovie Nord all’altezza di Bruzzano. Mentre lo percorrevo a piedi per arrivare fino a qui ho raccolto un bel mazzo di agretti che ora sto mangiando crudi, non prima di averli separati dalle radici ricoperte di terra. Ne offro qualcuna al cantautore in pensione ora seduto al mio fianco, che però rifiuta in modo molto cortese.

comunque poveri

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Buon compleanno a Francesco De Gregori, che fa settant’anni in questi giorni. Ognuno vuole dire la sua e, così, ecco la mia canzone preferita, che poi non è del tutto sua ma c’è lo zampino di Mimmo Locasciulli. C’è una versione in studio presente su “Canzoni d’amore” ma che non ha una buona resa, specialmente se ascoltate l’esecuzione live pubblicata come prima traccia di “Bootleg”, molto più aggressiva e dirompente. L’arpeggio di chitarra distorta che la introduce trasmette perfettamente l’urgenza e la tensione del brano. Di “Povero me” live esisteva anche un video promozionale che ruotava spesso su Videomusic, vediamo se lo trovo. Non l’ho trovato. Pazienza.

e comunque il sabato è santo a prescindere

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Sebbene non crediate ad alcunché, gli auguri non devono essere fraintesi. Possono essere resi in un pensiero, un messaggio, una telefonata, un saluto, un abbraccio. Qualche sera fa ho bevuto una birra e mi è venuta voglia di mandare un saluto al CEO di un’azienda che era stato mio cliente nella mia vita precedente. La lezione che ne ho tratto è che è meglio evitare di andare su LinkedIn quando siamo un po’ brilli, soprattutto se si fa un lavoro come il mio, grazie al quale possiamo anche farne a meno. Nell’insieme mi sento di dire che se la Pasqua non è una vera e propria celebrazione – ogni anno cade in un giorno diverso – è impossibile negarne la portata dirompente, anzi disruptive, proprio come ho definito il mio contatto nelle parole di affetto e stima professionale che gli ho mandato. Mi ha risposto wow e basta, quando io mi aspettavo qualcosa di più. C’è un significato in tutto questo. Alla tele davano la Via Crucis con il Papa in diretta, con i bambini che facevano gli speaker e portavano le effigi sacre e tutto il resto, e ho pensato che sia un peccato – non nell’accezione cristiana del termine – vivere privi di una dimensione orientata alla solidarietà e al sociale, ancora prima della sfera spirituale. Che poi non è vero, siamo brave persone lo stesso. Ma facciamo più fatica a dimostrarlo.