isee

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A questo link trovate, come ogni anno e in totale trasparenza, il bilancio sociale di questo spazio libero e indipendente di cultura e informazione. Date un occhio ai grafici e ditemi se non ĆØ inevitabile rendersi conto di quanto sia complesso barcamenarsi nel mondo del situazionismo editoriale, senza contare che nĆ© ora nĆ© mai vedrete nemmeno l’ombra di un inserzionista – a parte qualche superflua e incontrollata incursione di Google – tantomeno sappiate che scenderĆ² a compromessi verso una delle svariate proposte di cessione dei diritti per l’uso del materiale che trovate qui, liberamente consultabile. Vent’anni di intuizioni letterarie (e soprattutto musicali) che poi sono altrettanti di vita, non solo mia ma anche dei miei immaginari collaboratori di redazione che, di settimana in settimana, hanno contribuito al successo di questo che a detta di tutti costituisce un punto di riferimento per la moltitudine di lettori – altrettanto immaginaria – che quotidianamente ci gratifica con i like o attraverso la condivisione dei nostri pezzi.

L’ennesima certificazione unica che ha mandato in tilt il CAF che ha messo le mani sul mio 730 congiunto di quest’anno, che mi ha retrocesso per la prima volta tra le persone fisiche a debito di una cifra che non avete idea. Persino il sostituto d’imposta mi ha guardato con sospetto. Ma non dovete temere. Come il resto dell’imprenditoria sana di questo paese, corrispondo al sistema fiscale italiano fino all’ultimo centesimo e lo faccio con orgoglio. In piĆ¹, sono diventato cintura nera di concentrazione in luoghi pubblici. Riesco a leggere in treno nonostante il declino della nostra civiltĆ  come la conosciamo imponga di fruire dei contenuti multimediali sugli smartphone attraverso gli speaker di cui sono dotati e non piĆ¹, come accadeva un tempo, con l’uso di auricolari. A parte questo, a giudicare da quanto chiamiamo gli altri al telefono si deduce che tutti siamo in posti sbagliati rispetto a quelli in cui dovremmo stare. Trascorressimo meno tempo da soli e piĆ¹ con coloro i quali vorremmo trovarci si risolverebbe la maggior parte delle disgrazie di questo mondo, comprese le guerre, e non frantumeremmo i maroni a chi si porta ancora i libri cartacei in viaggio.

Colpa mia. Credo in valori di cui non frega piĆ¹ un cazzo a nessuno. La musica pop ĆØ una merda, per esempio, ma non sembra un problema. Mia sorella, in compenso, ha trovato lavoro in una ambitissima trattoria in cui ĆØ impossibile prenotare o, tantomeno, ordinare la specialitĆ  del luogo in modalitĆ  asporto. Provate a chiamarli e poi mi darete ragione: bisogna andare lƬ davanti, mettersi in coda (in estate, come potete immaginare, si crepa dal caldo, in fila sotto il sole, e ci si sente doppiamente idioti) e attendere il proprio turno mentre i propri cari aspettano la cena a casa. Ma, d’ora in poi, avrĆ² un’infiltrata, finalmente con un reddito.

B2

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Questa mattina ho terminato due dei tre corsi che abbiamo organizzato grazie al programma di formazione del personale scolastico per la transizione digitale previsto dal DM 66/2023 e dedicati ai colleghi del comprensivo in cui insegno. Anzi diciamo pure alle colleghe, perchĆ© di colleghi maschi iscritti ce n’ĆØ solo uno. Prima di ogni lezione mi offre il caffĆØ del distributore automatico e se vede che sono indaffarato me lo porta direttamente nel laboratorio di informatica. I due corsi in presenza che ho terminato oggi avevano il focus su alcune piattaforme che utilizziamo sia per la didattica che per l’organizzazione e la gestione del nostro lavoro, compresa la collaborazione e la comunicazione. Io cerco di arrivare almeno mezz’ora prima dell’inizio per avere tutto pronto e non rischiare imprevisti. Man mano che l’aula si colma dei partecipanti, offro il mio supporto affinchĆ© riescano a seguire le lezioni in modo efficace. Malgrado il laboratorio sia un forno, aiuto le colleghe a collegare i loro notebook alla ciabatta scomodissima avvitata al contrario sotto le postazioni, mi assicuro che utilizzino Chrome e non Edge e cerco di sbrogliare gli inevitabili aggrovigliamenti tra gli account Google personali e quello della scuola che si formano tra le schede aperte del browser. In questi circa dieci minuti mi pezzo come quando vado a correre, ed ĆØ a questo punto che arriva il collega a fornirmi ristoro con un bel surrogato di caffĆØ bollente del distributore automatico che non rifiuto per non risultare scostante ma, piuttosto, trangugio il piĆ¹ velocemente possibile per abbattere il tempo di sofferenza.

I tre corsi che abbiamo organizzato sono stati pensati per livello e hanno avuto un’adesione al di lĆ  di ogni aspettativa per due ragioni. Intanto perchĆ© dieci ore di formazione erano obbligatorie per un motivo che non vi sto a spiegare, e poi perchĆ© le colleghe che mi conoscono sanno che il mio approccio ĆØ informale, per non dire che, mentre spiego le cose, racconto un sacco di minchiate. Insomma, credo di essere divertente e coinvolgente ed ĆØ un plus per un corso di formazione in presenza da seguire sventolando il ventaglio.

I due corsi in presenza, quelli che ho terminato stamattina nella sauna del laboratorio di informatica, erano entry level e ne abbiamo organizzati due solo perchĆ©, proprio per l’adesione in massa, i posti in laboratorio non erano abbastanza per tutti. Una casualitĆ  che perĆ² ha involontariamente generato due diciamo sottolivelli. L’entry level, cioĆØ quello che avevamo pensato, e un livello sotto l’entry level con colleghe che – anche piuttosto giovani – a malapena sanno usare un computer, e quando dico a malapena intendo proprio nemmeno a muovere il cursore sul trackpad o, peggio, coordinare le dita sui tasti del mouse. E, credetemi, non lo dico con cattiveria. Anzi, e questo l’ho condiviso con loro, ho apprezzato tantissimo il fatto che si siano messe alla prova, al di fuori della loro confort zone, in un ambito che sicuramente non costituisce il diciamo core business della loro attivitĆ  e, quindi, ne possono fare a meno come d’altronde hanno sempre fatto. Sono state loro a darmi la piĆ¹ grande soddisfazione, che poi ho scoperto esser stata reciproca proprio oggi, allo scadere dell’ultima ora dell’ultimo incontro.

Oltre ai due corsi in presenza c’ĆØ un terzo corso da remoto che abbiamo pensato invece di livello intermedio. Non tutti i partecipanti a questo modulo, perĆ², si sono iscritti per migliorare la propria dimestichezza con le app didattiche. Il corso online ĆØ decisamente piĆ¹ comodo perchĆ©, anzichĆ© sudare nel girone infernale del laboratorio di informatica (30 persone, 30 dispositivi accesi, zero aria condizionata, finestre che non si possono aprire a causa delle veneziane rotte che ne ostacolano l’uso) ĆØ possibile migliorare le proprie competenze digitali a casa in mutande e con l’aria condizionata a manetta, indipendentemente dal livello entry, pro o master a cui ci si sente di appartenere. Una dinamica che va a scapito di chi, invece, si ĆØ iscritto per esercitarsi con le attivitĆ  un po’ piĆ¹ complesse di quelle a cui ĆØ abituato ed ĆØ costretto ai continui stop di chi dovrebbe essere con il livello for dummies e chiede il mio supporto per le funzionalitĆ  piĆ¹ banali. C’ĆØ una collega che, addirittura, segue le lezioni con lo smartphone e che, come avrete capito, non puĆ² fare nessun tipo di pratica. Quando glielo ho fatto notare mi ha tranquillizzato sostenendo di trovarlo comunque utile. ƈ chiaro che, per lei, ĆØ sufficiente la presenza per dimostrare di aver partecipato a un’iniziativa di formazione obbligatoria. La sua diciamo indolenza perĆ² ĆØ pienamente compensata da un gruppetto di fidate stalker digitali che hanno deciso di seguire sia il corso in presenza (quello non per dummies) sia quello online, giustificandosi col fatto di trovare le attivitĆ  che propongo interessantissime. Come biasimarle.

Anch’io, a parte i corsi che tengo come esperto formatore (si chiama cosƬ nella piattaforma dedicata il docente), dovrĆ² partecipare come studente a qualche altra iniziativa. Dovrebbero partire una serie di incontri sull’intelligenza artificiale – il nuovo tormentone e demone della scuola italiana – e, soprattutto, un corso per conseguire una certificazione di inglese. Al placement test che l’ente che si ĆØ aggiudicata l’iniziativa ci ha somministrato, sono risultato B2. Un risultato che mi ha riempito di gioia e ha gonfiato a dismisura il mio ego perchĆ©, quando insegno inglese ai miei bambini, mi sento meno che A1 e faccio una fatica boia.

B2 ĆØ un risultato piĆ¹ che soddisfacente, anzi, superiore a ogni aspettativa. Da quando ho ricevuto questa notizia ascolto i miei gruppi inglesi e americani preferiti con un approccio diverso. Mi sembra di comprendere di piĆ¹ i testi delle loro canzoni, oppure faccio finta di capire, facendo finta di non fare finta, oppure ancora capivo bene anche prima ma non sapevo che quella fosse una cosa che sapevo fare.

pj

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La prima cosa che mi ha convinto del mestiere dell’insegnante ĆØ che, a differenza dei lavori che ho svolto prima in cui ero sempre il piĆ¹ vecchio o quasi, nella scuola ogni anno c’ĆØ gente che va davvero in pensione. Ho la prova che esistono persone anziane che, quando la legge glielo permette, smettono di lavorare. Non ĆØ una favola.

Al termine del collegio docenti conclusivo erano in otto, a questo giro. Sette colleghe (come sapete, i maschi che insegnano sono mosche bianche) e Anna, la mia bidella preferita, anche se bidella non si dice piĆ¹. Esaurito l’ultimo punto all’ODG, un nuovo ultimo collegio docenti plenario ha chiuso anche quest’anno scolastico (anche se in realtĆ  saremmo in servizio – pronti in caso di necessitĆ , ma che nessuno si guarda bene dal causare – fino al primo giorno di ferie) non prima di aver festeggiato il personale uscente.

Ma non ĆØ questo il punto. Siete mai entrati in una scuola a fine giugno/primi di luglio? Se non credete che l’equazione caldo e fannulloni abbia delle ragioni fondate – che ĆØ il luogo comune che il nord del mondo associa al sud del mondo, popoli del Mediterraneo compresi, cioĆØ noi – dovreste mettere piede in un edificio scolastico italiano in estate. Le nostre strutture sono assolutamente inadeguate per un prosieguo dell’attivitĆ  didattica post calendario, quindi alle cosiddette mamme di merda (non ĆØ una diffamazione, si autodefiniscono cosƬ loro stesse, provate a documentarvi su Facebook) che ci vorrebbero in cattedra, a noi docenti, e al loro banco, i loro mocciosi, dico che per me va bene.

Prima perĆ² voglio l’aria condizionata come negli uffici delle multinazionali in cui probabilmente lavorano loro, e dell’installazione pretendo che se ne occupino i loro mariti, considerando che l’iter per un’opera di riqualificazione di questa entitĆ  – richiesta dei docenti alla segreteria, richiesta della segreteria al preside, delibera in consiglio d’istituto e approvazione, richiesta del preside al dirigente dell’ufficio scolastico del comune, proposta in consiglio comunale, aggiunta della voce in bilancio e delibera dei lavori, assegnazione dell’appalto, avvio dei lavori, avanzamento dei lavori, chiusura dei lavori, collaudo e sono sicuro di aver saltato qualche pezzo – si concluderebbe il primo anno dopo il pensionamento mio e di quelli che la pensano come me, quando cioĆØ probabilmente il mondo sarĆ  liquefatto a causa del riscaldamento globale e dei condizionatori non sapremo piĆ¹ che farcene, anche perchĆ© i combustibili fossili saranno esauriti e non avremo piĆ¹ energia e tanti saluti all’umanitĆ  e alla pedagogia come l’abbiamo conosciuta.

Ed ĆØ in questo clima subtropicale monsonico post-negazionista che si consumano i festeggiamenti per i colleghi in uscita. Banchi doppi uniti a formare infinite tavolate a ferro di cavallo imbandite di pizzette, focaccine, tramezzini, brioches salate e mini-panini imbottiti burro e salame, tutte cose a cui io non so resistere. Solo, riflettendo sui rischi di un rientro in auto all’una del pomeriggio con quaranta gradi, il cielo coperto e quell’aria gelatinosa che avviluppa ogni cosa nell’attesa di un tornado da cambiamento climatico, ho declinato l’invito a brindare e poi vuotare alla goccia il calice in plastica non riciclata colmo di bollicine che qualcuno aveva riempito per me.

Negli edifici scolastici, d’estate, e in particolare questa che, con tutti i progetti finanziati dal PNRR che ci sono in ballo, ĆØ un’estate molto particolare, succedono strane cose. Ci sono i presidi che impazziscono, parto dalla cima della gerarchia. Ci sono i bidelli a ranghi ridotti che, d’estate, hanno piĆ¹ la funzione di custodi, anche se li vedete pulire cose e ambienti che hanno giĆ  ampiamento pulito le settimane prima. Loro sono il vero muro di gomma ed ĆØ giusto cosƬ, altrimenti ci troveremmo circondati da scuole finlandesi e proprio non ĆØ il caso, anche perchĆ© con queste condizioni meteo si squaglierebbero all’istante.

Ci sono un paio di amministrativi a chiudere tutte le questioni che gli ultimi mesi di scuola, che stanno all’anno scolastico come il finale caotico e accelerato di certi brani musicali sta all’andamento statico di certi brani che poi esplodono con un finale caotico e accelerato, quando una sana normalizzazione dei ritmi nel corso dell’anno sarebbe il toccasana per la scuola italiana, dicevo tutte le questioni rimaste in sospeso.

Ci sono infine due o tre sfigati, piĆ¹ due che tre, in alcuni casi addirittura uno solo, che tengono corsi di formazione ai colleghi, sistemano i nuovi ambienti didattici, mettono in ordine l’equipaggiamento informatico e digitale, e profanano la scuola con abbigliamento da bassa manovalanza, sudando come maiali e trascorrendo da soli la pausa ai distributori automatici con lattine di chinotto ghiacciato a sessanta centesimi, roba che al bar la pagherebbero almeno il triplo.

Ma, anche se in estate la scuola ĆØ vuota, se vi affacciate in una scuola in estate, chiudete gli occhi e vi concentrate sul vostro respiro, vi accorgerete che la scuola ĆØ sempre piena. C’ĆØ pieno di umanitĆ , a scuola, e a scuola si fa il pieno di umanitĆ . Anche tra i colleghi che partecipano ai corsi di formazione e che ringraziano i colleghi formatori e i colleghi formatori ringraziano i colleghi che partecipano perchĆ© ĆØ giĆ  luglio e tutti vorrebbero essere sull’autostrada del sole, possibilmente non in coda, a rotolare verso sud.

E non smetterĆ² di meravigliarmi ogni volta in cui effettuo l’accesso al mio profilo Facebook e, in cima, riconosco i colleghi con cui l’algoritmo vorrebbe mettermi in contatto ma io me ne guardo bene. La scuola, malgrado faccia di tutto per mutare il suo codice genetico che ĆØ di carne, ossa, sangue, sudore, lacrime, bestemmie e passione (e anche un po’ certificati medici in momenti strategici dell’anno) in digitale, non svilirĆ  mai la sua natura fisica in un simulacro virtuale. Accedo al mio profilo Facebook, nei giorni d’estate, quando ogni altra persona normale che non fa l’insegnante ĆØ in ufficio, e scorro la home fino a quando spunta una foto di PJ Harvey. C’ĆØ sempre una foto di PJ Harvey – per la quale nutro una venerazione che non vi sto a raccontare – che mi aspetta e che compare tra una notizia e l’altra, e la convinzione che Facebook mi legga nel pensiero si tramuta in certezza.

solstizio

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La qualitĆ  delle intuizioni degli utenti sui social – anche i piĆ¹ brillanti – lascia sempre piĆ¹ a desiderare. D’altronde abbiamo ampiamente dato e ora non ci resta che resistere in attesa della nuova innovazione disruptive – almeno quanto le piattaforme come Facebook e speriamo piĆ¹ dell’AI – che ci permetta di tornare a dare il massimo con la nostra sagacia. Ci ho pensato qualche giorno fa, attirato dal titolo di uno dei soliti articoli proposti dall’algoritmo al di fuori dalla mia bolla consolidata. In pratica si sosteneva che, oltre ad averci preso tutto, ci hanno anche sottratto la primavera come l’abbiamo sempre conosciuta. Ha fatto un tempo pessimo da marzo a giugno, ha piovuto quasi sempre e, come immagine a supporto, c’era una versione del dipinto “La primavera” di Botticelli ai tempi del cambiamento climatico, priva delle sue qualitĆ  essenziali e rivisitata secondo i toni e i soggetti tipici del meteo a cui siamo esposti Ho provato a riproporla perchĆ© l’esperimento mi ha incuriosito – ĆØ quella che vedete qui sopra – ma mi manca qualche sfumatura decisiva per un prompt efficace, per non parlare di una piattaforma professionale – io non vado oltre quelle piĆ¹ comuni e gratuite, mica ho tutti sti soldi da buttare via – di creazione immagini con l’intelligenza artificiale. Ma, qualunque sia l’immagine a supporto, il punto ĆØ che oramai sono anni che le cose vanno cosƬ. Nonostante ciĆ², l’idea che abbiamo della stagione della rinascita, nei mesi invernali, ĆØ ancora quella che ci siamo costruiti da piccoli con tutti i luoghi comuni oggi ampiamente sfatati. Viviamo sempre nella speranza che, prima o poi, tutto tornerĆ  come prima. Io non ci ho pensato due volte ad acquistare i biglietti per il concerto dei The National a giugno, lo scorso dicembre, e non mi sono minimamente posto il problema che, come poi si ĆØ verificato, ci sarebbero state concrete possibilitĆ  di maltempo (il forte temporale che si abbattuto sul Carroponte ĆØ terminato qualche minuto prima dell’inizio previsto del concerto). E, considerato come sono andate le cose anche in altri festival, il punto ĆØ proprio che dovremmo rivedere tutto il nostro immaginario collettivo, oltre al palinsesto delle iniziative outdoor. L’autunno e la prima parte dell’inverno sono le nuove belle stagioni. L’estate ĆØ una inutile sauna in cui molti dei principi fondativi della nostra civiltĆ  – lavorare, svagarsi, viaggiare e persino fare sesso – sono preclusi da temperature ingiustamente elevate, a Natale c’ĆØ il sole e, per il resto, monsoni e temporali ad orari regolarissimi.Ā  Io perĆ² ho voluto dare ragione all’autore dell’articolo che tirava in ballo Botticelli e che avrei apprezzato di piĆ¹ se ci avesse messo di mezzo anche Vivaldi, magari con una versione in minore – anch’essa opera dell’AI – della sua, di Primavera. Mi sono sentito target per il taglio dichiaratamente grillista e complottista dell’articolo. Anch’io sono anziano e vivo nel mito delle giornate che si allungano. Vivo tutto l’anno pianificando modi per trascorrere le lunghe serate di maggio e giugno all’aperto, bearmi del tramonto, del passaggio dal giorno alla notte, della brezza che impone il golfino in cotone sulle spalle, del gelato da passeggio tra i ragazzini in piena esplosione ormonale e i cani che impazziscono tra i profumi della natura. Ma, anche quest’anno, ĆØ finita sul divano, a scartabellare il catalogo delle piattaforme di streaming alla ricerca di film e serie interessanti o, al massimo, al computer a scrivere cose come questa, mentre fuori si scatenava l’ennesimo acquazzone programmato da un timer la cui severitĆ , nessuno di noi, sono certo si meriti. Poi, diceva l’articolo, qualcosa o qualcuno gira la manopola, il forno si accende, prepariamo le valigie e chi si ĆØ visto si ĆØ visto.

buon viaggio

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Mai mi sarei immaginato che la canzone piĆ¹ adatta alla situazione la potesse proporre Denis. Intanto perchĆ© fino ad allora, quando era stato il suo turno di fare il dj, mi aveva steso con la peggio trap, talvolta in rumeno e talaltra in un italiano stentato cantato da rumeni. Per non parlare di un certo reggaeton da Eurovision Song Contest con quell’inconfondibile flavour da ex repubbliche sovietiche lasciate in balia del capitalismo piĆ¹ sfrenato o, il punto piĆ¹ infimo, un certo Artie 5ive (scritto cosƬ) e il suo concentrato di doppi sensi, anzi, di sensi unici fin troppo espliciti della hit “La gattina”.

Invece Denis, a pochi minuti dall’ultima campanella, quella definitiva, quella a mai piĆ¹ rivederci, buona fortuna nel buco nero della scuola secondaria di primo grado e nei docenti che la popolano, ha lasciato di stucco tutti, almeno me, con un vero colpo da maestro.

Intanto il cantante, Cesare Cremonini, che di tutta la monnezza poppettosa e italomerda ĆØ uno dei piĆ¹ raffinati. La canzone, poi, non ĆØ certo l’ultima arrivata. Risale al 2015 quindi, di sicuro, c’ĆØ lo zampino dei genitori, una coppia che adoro e che ĆØ perfettamente riconducibile a tutti gli stereotipi che circolano da noi sui maschi rumeni e sulle loro consorti.

Infine il testo e il suo senso, il che significa che Denis l’italiano lo capisce alla perfezione – magari anche grazie a noi maestri – e che ĆØ perfettamente in grado di mettere in collegamento gli input che lo investono in una lingua che, a casa, non si pratica con assiduitĆ .

E vi assicuro che non avevo mai fatto caso alla canzone fino all’ultimo giorno di scuola, fino a quando Denis l’ha chiesta espressamente come sigla di chiusura di tutto il nostro percorso – altro che “Just Like Heaven” come pensavo io – se non per il video realizzato con la telecamera 360 e quell’effetto assurdo che, ai tempi dell’AI e dei deepfake, sembra davvero una clip realizzata a Croda dai Gemelli Ruggeri, se siete anziani come il sottoscritto avrete capito cosa intendo. Non avevo mai colto appieno il significato del testo, il valore di parole come

Coraggio, lasciare tutto indietro e andare
Partire per ricominciare
Che non c’ĆØ niente di piĆ¹ vero di un miraggio
E per quanta strada ancora c’ĆØ da fare
Amerai il finale

che, se le avessi lette prima, mi avrebbero fatto inorridire per la loro insulsa melensaggine.

Eppure, vedete, anche una cagata pazzesca come una canzone di Cesare Cremonini, al momento opportuno, ha il superpotere di lasciarci cosƬ, di svitare tutti i dadi e i bulloni che ci tengono prigionieri della nostra collezione di dischi post-punk tanto quanto della raccolta di emozioni complesse compresse represse, accumulate in anni e anni di pose, e ci liberano verso stati d’animo elementari come quelli che ci trasmettono le persone come Denis, alte poco piĆ¹ di un metro, che augurano buon viaggio a tutti magari senza sapere nemmeno che cosa vuol dire. Un viaggio non si sa bene verso dove, faccio finta di non saperlo e mi rifiuto di chiederlo.

google calenda

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Non ricordo come si definisce quello scatto generazionale che si compie quando i figli si elevano a risultati superiori rispetto ai propri genitori. Una cosa straordinaria, perchĆ© significa che la tua specie funziona alla grande. ƈ bello perchĆ©, se sei un padre presuntuoso, puoi vantartene con orgoglio, arrogandotene una parte del merito. Hai contribuito a far evitare ai tuoi figli i tuoi stessi errori, che poi ĆØ a suo modo un passo in avanti dell’evoluzione degli esseri umani. Una salita al livello successivo.

La cosa difficile ĆØ capire se una cosa ĆØ sbagliata o ĆØ giusta. CioĆØ, magari uno pensa di aver commesso una sciocchezza, fa di tutto affinchĆ© i suoi figli non facciano altrettanto e invece poi scopre che ĆØ una best practice e, come se non bastasse, era anche facile da prevedere. Pensate a quanti milioni di persone, nel corso degli ultimi due secoli, hanno abbandonato pascoli e campagne per venire ad ammalarsi nelle fabbriche del nord, e tutto per uno stipendio fisso, un impianto fognario strutturato e altri benefici dell’occidente industrializzato e invece oggi ci scopriamo invidiosi degli artigiani che sono tornati nel borgo lucano da cinquanta anime perchĆ© quello ĆØ il vero senso della sostenibilitĆ , la cosa migliore da fare. Su repubblica online si legge almeno un caso nuovo al giorno. Viceversa, pensi di essere nel giusto votando i fratellisti di italia, chiami tuo figlio Galeazzo e nessuno trova mai lo slancio per farti fare i conti con la tua insulsaggine con l’aggravante del nazifascismo. Che poi, voglio dire, basterebbe un manuale di storia qualunque e un po’ di buona volontĆ .

Da ragazzo invidiavo moltissimo i miei coetanei che, cresciuti da genitori piĆ¹ lungimiranti dei miei che li avevano indirizzati a farlo, si erano iscritti negli appositi registri e si guadagnavano qualche lira come scrutatori alle elezioni. Mi sono cosƬ impegnato a creare tutti i presupposti per lo scatto evolutivo di cui sopra e non ci crederete ma quest’anno, grazie a mia figlia che ĆØ stata ingaggiata addirittura come segretaria ai seggi, ecco che la specie umana ha compiuto un passo in avanti, un primato che ha contribuito a rendere queste elezioni ancora piĆ¹ speciali.

Un po’ questo aspetto, un po’ il senso di euforia che mi trasmette Elly Schlein, mi sono addirittura convinto ad appiccicare un adesivo del PD sul mio notebook. Ho coperto la marca Acer sul retro del monitor e ora, chi mi sta davanti, mi studia con curiositĆ  perchĆ© non ĆØ una cosa comune dichiararsi apertamente simpatizzante per qualcosa, soprattutto qui da noi dove la politica resta un tabĆ¹ e non mi spiego perchĆ©. Io ho appiccicato l’adesivo del PD ma ci potrebbe essere quello degli Idles o quello dell’hippy con la chitarra che si allontana o persino il free joint bambulĆ©. Sono ideali e, qualunque essi siano, a parte il nazifascismo e il grillismo, ovviamente, sono encomiabili in una persona. Mia figlia mi ha raccontato addirittura che, in un seggio vicino al suo, la rappresentante di lista dei fratellisti meloniani si ĆØ rivolta ai carabinieri perchĆ© una elettrice si era recata alle urne indossando una maglietta con uno slogan contro la guerra.

Qui da me c’erano anche le amministrative. Andremo al ballottaggio ma la sindaca uscente del PD non ĆØ messa benissimo e la vedo dura. Questo, l’onda nazifascista che sta travolgendo l’Europa e l’astensione sono i segnali peggiori emersi dopo l’ultimo turno elettorale. ƈ bene perĆ² evidenziare i numerosi aspetti positivi, che non sono pochi. Il PD, grazie all’ottimo lavoro di Elly Schlein, ha fatto un bel salto in avanti e ora puĆ² lavorare sodo per incalzare il piĆ¹ possibile i fratellisti meloniani. Anche AVS – che sembra un antivirus e a suo modo lo ĆØ – ha fatto un bell’exploit e ne sono contento, anche se con la svolta a sinistra della Schlein sarebbe bello che tornassero insieme. Il pessimo risultato di Renzi e Calenda mi ha dato una soddisfazione che non potete capire, ma sono tutti voti buttati via e, come sapete, odio gli sprechi. Stesso discorso per la figuraccia dei grillisti, che vi ricordo sono stati al governo con Salvini e hanno sbeffeggiato Bersani.

Anche il ballottaggio ha un aspetto positivo. Mia figlia tornerĆ  a lavorare nel seggio ancora per due giorni. Ma purtroppo la mia non ĆØ una grande metropoli come Milano, in cui lo scarto tra il PD e fratellisti meloniani non lascia dubbi sull’attaccamento alla democrazia e alla civiltĆ  dei suoi cittadini. Per poco piĆ¹ di un chilometro qui ĆØ giĆ  provincia, molto peggio della periferia. SarĆ  un testa a testa. Speriamo bene.

porcelain

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Quando facevo il copy nel settore della pubblicitĆ , il project manager con cui lavoravo abitualmente intercettĆ² al primissimo ascolto – su mio suggerimento ma resto umile – la portata evocativa di “Porcelain” di Moby. C’eravamo addirittura inventati un soggetto da proporre al nostro principale cliente, un brand che commercializzava emozioni – derivanti dall’impeto, tipico dell’essere umano, di spingersi sempre oltre – forgiate e modellate in orologi sportivi da centinaia di migliaia di lire. Non se ne fece perĆ² nulla. Uno dei testimonial storici di quei prodotti ci aveva da poco lasciato le penne proprio per essersi spinto un po’ troppo oltre e “Porcelain” suonava un po’ troppo lugubre per il mondo dell’adv. Era il 2000 o giĆ¹ di lƬ, l’album “Play” era stato appena pubblicato e “Porcelain”, che oggettivamente ĆØ una delle canzoni pop piĆ¹ evocative al mondo, non aveva ancora raggiunto, nell’immaginario collettivo, anche il primato della canzone piĆ¹ triste al mondo.

Ma il mio pm ed io eravamo nel settore della comunicazione da abbastanza tempo per capire che le emozioni non c’entravano nulla con quel rifiuto. Piuttosto non c’era abbastanza budget a disposizione, un dettaglio che ridimensionĆ² anche il nostro slancio – durato il tempo di una media chiara – di accaparrarci i diritti della canzone per usarla con un altro spot emotional, prima o poi. Eravamo abbastanza morti di fame entrambi, io piĆ¹ di lui che comunque aveva una famiglia benestante alla spalle e, in piĆ¹, si stava accoppiando con la responsabile comunicazione di uno dei marchi di make-up leader di mercato, ma ci avevamo visto giusto. Di lƬ a poco “Porcelain” di Moby sarebbe stata scelta millemila volte come colonna sonora di film o come canzone per video pubblicitari e sono sicuro che chiunque di noi ha almeno un ricordo di un’esperienza da rivivere, mentalmente, con il sottofondo di “Porcelain” di Moby.

ƈ per questo motivo che ĆØ da allora che vivo nella speranza che mi capiti un’occasione per infilarla dentro a qualche video per confermarmi, come se non lo sapessi giĆ  e non fosse di dominio pubblico, che avevo ragione. E, a distanza di quasi venticinque anni, l’occasione si ĆØ palesata proprio alla fine di quest’anno scolastico che ha coinciso con la fine del mio primo ciclo scolastico. Negli ultimi mesi ho raccolto una serie di interviste ai bambini della mia classe realizzate con tutti i crismi (telecamera su treppiede e microfono professionale, il tutto in una nuovissima aula tutta insonorizzata che abbiamo allestito grazie al PNRR) e ho montato le loro dichiarazioni – sull’esperienza di fruitori della scuola primaria, sui momenti piĆ¹ belli dei cinque anni, sulle paure per la scuola secondaria di primo grado – un po’ come si fa oggi nei documentari emotional in tv. E, finito il montaggio, ho pensato che “Porcelain” di Moby fosse il commento sonoro piĆ¹ appropriato. Tenete conto che il bello della scuola ĆØ che, a differenza del mondo reale, ĆØ tutto ammesso – e per fortuna -, a partire dai software craccati fino al download libero di film dal web. Per non parlare del copyright sull’uso delle musiche. D’altronde, trovatemi voi le differenze tra quello che ho realizzato io con un reel di foto che si susseguono a tempo su “Le tagliatelle di nonna Pina”, come fanno certi genitori di mia conoscenza.

Insomma, per farla breve, alla fine il video ĆØ venuto piuttosto bene. Almeno, cosƬ mi sembrava. Poco piĆ¹ di sei minuti – quasi interamente di parlato – con i bambini inquadrati in primo piano secondo la regola della sezione aurea, sequenze di interventi che si alternano a regola d’arte inframezzate da footage raccolto durante i cinque anni, in cui la musica esplode nei suoi momenti piĆ¹ drammatici, un bel piano di ripresa e svariati fattori che non sempre si vedono in un video di un insegnante di scuola primaria. Il punto ĆØ che, se volevo emozionare i bambini, ĆØ finita con un saccheggio del loro stato d’animo accompagnato dall’esaurimento delle loro risorse lacrimali, tra attacchi di panico da futuro incerto e abbattimento parziale della smania di crescere.

Al termine del pay off conclusivo – un bel font, scritta bianca su fondo nero – ho preso atto, con sommo sbigottimento, di una classe completamente devastata. Ho cercato di minimizzare, ma era troppo tardi. A due ore circa alla fine della loro esperienza nella scuola primaria, mi trovavo al cospetto delle macerie provocate da uno stato di depressione collettivo. Li ho portati in giardino, confidando nella portata di deconcentrazione che hanno gli spazi esterni in primavera sui bambini, ma niente. Nemmeno il pallone ai maschi ha colmato quella sensazione di nulla cosmico e di buco nero in cui la mia classe era caduta. All’uscita, poi, ci sono stati i soliti festeggiamenti con i palloncini, i coriandoli e le bolle di sapone, ma il mood era fin troppo evidente.

Quanto a me, mi sono commosso molto mentre preparavo il video e ascoltavo a ripetizione le strofe e i ritornelli di “Porcelain”, tanto che, durante la premiere collettiva, oramai il pathos si confermava quasi una routine. Ai primi piagnistei perĆ² ho rischiato di scoppiare in lacrime con loro. Poi, compresa la gravitĆ  della situazione, la fermezza imposta da ciĆ² di cui ero spettatore ha prevalso e mi sono messo a fare l’adulto. Va da sĆ© che “Porcelain” mi ĆØ rimasta addosso tutto il giorno e praticamente tutto il tempo, da allora. La canto con trasporto ed evito persino di parodiare la voce campionata del ritornello, come ho sempre fatto. Domani ci sarĆ  la festa di fine anno e, probabilmente, qualche genitore mi chiederĆ  spiegazioni. Non ĆØ un video per bambini, gli dirĆ². Ditegli di tenerlo, di conservarlo chiuso in una scatola, e di aprirlo e proiettarlo non prima di aver compiuto trent’anni.

in prima fila

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Il momento in cui si manifesta il cosiddetto panico da palcoscenico ĆØ difficile da prevedere, e non ĆØ detto che lo si avverta mentre siamo svegli. ƈ facilissimo perĆ² percepire questo stato d’animo diffuso tra i miei bambini impegnati in una delle svariate prove generali dello spettacolo che chiude, in un solo colpo, progetto di teatro e musica, anno scolastico, ciclo alla primaria.

Ma anche a me, l’emozione, gioca brutti scherzi. Sto cercando di posizionare la telecamera un po’ datata che abbiamo in dotazione a scuola – dovrĆ² riprendere l’intera esibizione – senza riuscirci. Se siete del mestiere – videomaker, non insegnanti – saprete che non ĆØ scontato saper impostare l’inquadratura dritta regolando la lunghezza delle singole gambe del treppiede. CioĆØ i professionisti ci riescono, i cialtroni come me vanno a tentativi. Senza contare che i neon della platea dell’auditorium sono spenti per far abituare i bambini alle sole luci del palcoscenico e, nonostante gli occhiali, ci vedo malissimo. Nel display della camera perĆ² riconosco perfettamente i colori che ho impostato schiacciando a caso i pulsanti e le levette del mixer luci di cui ĆØ dotato l’impianto.

In prima fila, non chiedetemi il perchĆ©, sapete come funzionano i sogni, sta assistendo alle prove la moglie di un notissimo presentatore televisivo, uno di quelli che ha appena fatto armi e bagagli per darsela a gambe dalla tv di stato meloniana. Io e lei (sua moglie, mica la Meloni eh) siamo molto in confidenza, lo si evince dal fatto che mi siedo accanto e ci scambiamo effusioni ma sarebbe scorretto definirle amorose. I nostri volti si trovano vicinissimi e io, anzichĆ© pensare a baciarla, le morsico delicatamente ma con trasporto emotivo che non vi sto a descrivere il naso, mentre lei si sbellica dalla risate per il presunto solletico procurato. Sono certo che, prima dell’inizio della recita, la raggiungerĆ  suo marito, sempre che sia libero dagli impegni che un personaggio pubblico della sua statura comporta.

Con i bambini ci siamo esercitati e preparati molto, e spero che i risultati mi diano ragione. Anche io ho dato del mio meglio. Ho addirittura noleggiato uno studio per registrare le musiche e definire al meglio il sound design dello spettacolo. Sulla scelta della struttura non ho avuto dubbi, in queste occasioni importanti – in cui c’ĆØ poco tempo e bisogna essere certi del risultato finale – ci si affida a professionisti e, come nel mio caso, a conoscenze personali. In realtĆ , se nel sogno mi sono rivolto allo studio di Fabry K., ĆØ piĆ¹ perchĆ© devo aver sbirciato nella sua pagina Facebook recentemente. Ve lo dico perchĆ© io da un metallaro non mi farei registrare nemmeno la base di “Tanti auguri a te” per festeggiare i compleanni in classe.

La sua storia, perĆ², ĆØ piuttosto curiosa. ƈ un perfetto nessuno, mai quanto me, ma sin da quando era ragazzino – ĆØ sempre stato un virtuoso della chitarra e il suo look da hair metal non ha mai lasciato dubbi – il suo atteggiamento ha dato sempre al prossimo l’impressione di uno sempre sul punto di sfondare. Si era trasferito a Milano dopo le superiori e, da allora, ha militato esclusivamente in cover e tribute band esclusivamente di matrice hard rock e tamarra. Grazie alla sua attivitĆ  musicale di serie C, comunque un mestiere dignitosissimo, ha rilevato una sala di registrazione con alcuni colleghi metallari quanto lui.

Mentre, dietro al bancone del mixer, stiamo mettendo a punto l’equalizzazione dei pezzi, Fabry e il fonico commentano l’imminente cambio di sede del loro studio. L’intero stabile in cui ci troviamo ĆØ stato acquisito da una banca – peccato, quegli spazi hanno una storia artistica di tutto rispetto – e a breve sarĆ  ristrutturato per ricavare mini appartamenti piĆ¹ adatti al mercato immobiliare del quartiere. Mi pare anche che vogliano vendermi qualche synth per evitare un trasloco oneroso ma ĆØ tempo perso, a casa non saprei dove tenerli e finirebbero per ammuffire in cantina. Il mixaggio termina in tempo per prendere il Flixbus per Roma, un plot twist che nell’economia della trama non ha alcun senso. Nella paura di perderlo – come nella vita reale, sono paranoico sulla puntualitĆ  negli appuntamenti – non faccio in tempo a fare la pipƬ prima di partire, cosƬ approfitto della prima sosta a Genova per scendere e cercare una toilette. Qualcuno mi indica il piano seminterrato del teatro Carlo Felice – il pullman ha parcheggiato nella piazza antistante – ma sapete come vanno le cose nella confusione onirica. Non vedo piĆ¹ i cartelli con l’omino stilizzato e soprattutto so che devo sbrigarmi, non credo che l’autista a ogni fermata faccia l’appello come facciamo a scuola prima di partire per la gita e non abbandonare nessuno nelle cittĆ  d’arte. Finisce che non la faccio nemmeno lƬ ma non dovete preoccuparvi, la coda del sogno non ĆØ cosƬ prevedibile. In fretta e in furia riesco a elaborare una strategia che si rivelerĆ  perfetta: decido di trovare la comitiva che viaggia con me, e sulla scaletta del Flixbus faccio di tutto per svegliarmi e precipitarmi in bagno, dove abbiamo appena installato il motore del nuovo condizionatore e non mi sono ancora abituato al controsoffitto con i faretti.

Beth Gibbons – Lives Outgrown

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I Portishead ci hanno lasciato pochissimo materiale a consolazione della loro assenza. Tre album e un live – questā€™anno peraltro ristampato con qualche traccia in piĆ¹ – nonostante alcune delle loro canzoni (due su tutte, anzi tre) siano tra le piĆ¹ iconiche della storia della musica. Tra i pezzi da novanta di una stagione musicale irripetibile (il trip hop, il sound di Bristol e in generale l’ultimaĀ porzione di un secolo agli sgoccioli) solo loro mancano allā€™appello, in questā€™epoca di tributi, di reunion e di cannibalizzazioni del passato.

Ed era un peccato soprattutto aver perso le tracce di Beth Gibbons, uno dei timbri piĆ¹ rappresentativi del decennio in questione. Dā€™altronde, anche nel momento di maggiore successo, lā€™approccio dei Portishead allo show businessĀ  ĆØ sempre sembrato piuttosto defilato. DaĀ Roseland NYC LiveĀ in poi, il crescente disinteresse per la musica praticato soprattutto da Geoff Barrow (fuggito a cercare ispirazione in Australia) aveva completamente dilapidato tutte le energie compositive necessarie per un prosieguo di carriera. Non a casoĀ Third, lā€™album pubblicato nel 2008, ampiamente oltre il tempo massimo di scadenza del trip hop, seppur un disco bellissimo, ha lasciato perĆ² (almeno a me) il retrogusto di un tentativo postumo, una di quelle eccezioni che non conferma nessuna regola.

E Beth Gibbons, in quanto a posizionarsi al di lĆ  di qualunque circuito, non ĆØ certo da meno. Quante volte ne avete sentito parlare, da allora? A memoria ricordiamo una partecipazione a unā€™iniziativa di beneficenza, il featuring di ā€œMother I Soberā€ di Kendrick Lamar un paio di anni fa e il disco frutto della collaborazione con Paul Webb, bassista dei Talk Talk, lƬ con il nome dā€™arte Rustin Man, unā€™opera cosƬ incorporea e fragile da evaporare dopo una manciata di ascolti. Fuori dagli standard imposti dallo star system, Beth Gibbons si ĆØ impegnata per costruirsi una dimensione privata, in cui diventare adulta e invecchiare con consapevolezza (stavo per scrivere con serenitĆ ).

Non sorprende cheĀ Lives Outgrown, quello che puĆ² essere definito il primo vero album solista della cantante dei Portishead, sia un disco frutto di almeno dieci anni di note prese a margine, di spunti messi da parte per dopo, di ispirazioni suscitate dalla straordinaria quotidianitĆ  della vita che scorre trasformate in musica con quello che capita di avere sottomano. Non necessariamente gli strumenti musicali piĆ¹ comuni con cui si compone o comunque strumenti veri e propri, ma anche qualunque oggetto che si presti a fare rumore, come i contenitori per gli alimenti, le scatole e quant’altro sia in grado di generare il suono piĆ¹ adatto allo scopo.

Fatto sta che la prima volta in cui si ĆØ diffusa la voce di un suo lavoro solista Beth Gibbons andava per i cinquanta, mentre la pubblicazione del primo estratto daĀ Lives OutgrownĀ la vede quasi sessantenne. Una fase della vita disperata nella sua unicitĆ , un concentrato di perdite e di addii forzati, un ponte a senso unico tra un prima che sembra infinito e un poi dai giorni cinicamente contati che, intonato dallo stesso timbro che abbiamo ascoltato implorare ā€œuna ragione per amartiā€ chissĆ  quanti milioni di volte, lei con la sigaretta in mano, aggrappata al microfono e con unā€™energia impossibile da descrivere a parole, ci suona ancora piĆ¹ struggente. ā€œThe burden of life just won’t leave us aloneā€, cosƬ oggi Beth Gibbons ci trasmette il peso della vita, corredato da un elenco di fardelli, incompleto ma sufficientemente esaustivo, che comprende cose come maternitĆ  sfiorate, ansia, menopausa e morte.

Temi che nellā€™immaginario a cui i nostri beniamini del pop e del rock, raggiunta la terza etĆ , ci hanno abituato, richiederebbero poche cose di contorno. Chitarre acustiche, pianoforte e poco altro. Beth Gibbons ci stupisce invece con una ricchezza di arrangiamenti e orchestrazioni di rara bellezza, ovunque maestosi e evocativi, pensati per sprigionare al massimo tutte le potenzialitĆ  delle sue canzoni. Un folk ā€œsbagliatoā€ nel suo tripudio di archi, flauti, percussioni e persino cori di voci bianche, tanto che le due incursioni di chitarra elettrica e quella di organo, con un effetto tipicamenteĀ DummyĀ (in ā€œRewindā€ e ā€œBeyond The Sunā€), ci sorprendono per la loro estemporaneitĆ , a conferma che non cā€™ĆØ disco piĆ¹ distante dai Portishead e dai campionatori di questo.

Tra le tag con cui questa superlativa tracklist puĆ² essere descritta rientrano di diritto termini come intensitĆ , affanno, sospiri, spleen, dubbio, ineluttabilitĆ , disincanto e malinconia.Ā Lives OutgrownĀ va ben oltre il decennio durante il quale ĆØ maturato, e risulta il diario dell’intera esistenza di unā€™artista permeata da una inquietante cupezza. Un oscuro presagio del fatto che, dopo questo album, non ci sarĆ  davvero piĆ¹ nulla.

luci della ribalta

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Il vero problema dell’insegnamento ĆØ che noi docenti siamo legati all’idea di costituirci modello per i nostri allievi. CioĆØ che, al netto del supporto al raggiungimento dei traguardi delle competenze, che ĆØ il nostro diciamo core business, gli studenti ci prendano per esempi di vita. Vi posso assicurare che nessuno dei miei bambini si ĆØ ancora presentato in classe con la t-shirt degli Idles, anche se stamattina Elisa indossava la maglietta dei Ramones, quella che conoscete tutti, la piĆ¹ iconica, ma forse perchĆ© avevamo le prove generali dello spettacolo di fine anno a conclusione del progetto di teatro/musica con lo specialista, ĆØ stato chiesto ai bambini di vestirsi di nero, e a casa di Elisa la maglietta dei Ramones era l’indumento piĆ¹ vicino a un outfit total black da palcoscenico. Che poi la vera maglietta dei Ramones non sarebbe proprio nera nera, piuttosto nera stinta come erano stinti loro. Ma, sfumature a parte, ĆØ difficile che dei genitori comprino a ragazzini di 10 o 11 anni una tenuta da Robert Smith da tutti i giorni, quindi per occasioni come queste va bene qualsiasi cosa trovino nei cassetti dell’armadio.

Comunque, tornando al problema dell’esuberanza di personalitĆ  dei professionisti della scuola, quell’impeto in cui ciascuno di noi docenti si percepisce come un John Keating pronto a strappare le pagine piĆ¹ reazionarie dei libri di testo e a gratificare ragazzini che salgono in piedi sul banco in senso proprio o in senso lato e traslato, io non sono da meno. E vi confesso che ĆØ proprio lo spettacolo che abbiamo messo in piedi, insieme alle altre quinte, a crearmi dei problemi. Intanto perchĆ© la trama e l’affidamento dei ruoli penalizza fortemente la mia classe, nell’insieme siamo quelli che hanno meno spazio, e questa cosa mi somiglia tantissimo. Meno spazio ho e piĆ¹ mi sento felicemente vittima e forse questa attitudine al ridimensionamento l’ho trasmessa efficacemente e loro davvero mi hanno preso come modello di tendenza verso il basso.

Non solo. I bambini delle altre quinte sono stati designati per lunghi monologhi e scene ad alto tasso di drammaturgia, mentre noi abbiamo una gag molto veloce, un balletto da tamarri e un finale degno del teatro brechtiano. Per non far loro pesare questa disparitĆ , frutto della smania di protagonismo e di accentramento di alcune colleghe, che addirittura si permettono di mettere in discussione le scelte dello specialista al cospetto degli studenti, una tecnica che mette a rischio la sua autorevolezza, dicevo che per non far pesare loro questa disparitĆ  ho puntato sul fatto che salire sul palco alla fine di uno spettacolo ĆØ un privilegio riservato alle star. Gli ho portato, come esempio, i concerti, nei quali per ultima ĆØ prevista l’esibizione dell’headliner e chi lo precede ĆØ solo lƬ per scaldare la folla per l’atto conclusivo, l’acme, il momento culminante. Gli ho ricordato che quando ho suonato al concertone del Primo Maggio noi abbiamo aperto la manifestazione alle due del pomeriggio, quando la piazza era giĆ  bella piena ma la diretta tv sarebbe cominciata un’ora piĆ¹ tardi, e in quell’edizione c’era Sting subito dopo il tg, a coronamento dell’esibizione di decine di artisti sconosciuti come noi.

Vada come vada, ĆØ indubbio che non c’ĆØ nulla di meglio di un laboratorio teatrale a conclusione di un percorso scolastico di cinque anni, un’esperienza nella quale si esordisce bambini e che si conclude con le mestruazioni e la puzza di crescita. Vederli scorrazzare sotto le luci colorate e la sala al buio, nel silenzio delle prove generali e avvolti nel profumo del legno del palcoscenico, inconsapevoli del fatto che il giorno dello spettacolo la platea non sarĆ  vuota ma ci saranno duecento persone a vederli, trasmette l’emozione forte del tempo che passa e della vita che va. Aspetti che cogliamo solo noi ex genitori di bambini di quell’etĆ , divorati dal rimorso di non poter rivivere certe emozioni da capo, perchĆ© su di loro tutto scorre via liscio, senza ieri nĆ© domani, in un eterno presente che capire non si sa.

Li osservo provare e mi immedesimo in uno di quei quasi ex bambini, quando saranno evaporate le sensazioni di panico da palcoscenico e l’euforia degli applausi, e mi chiedo se, la sera dopo lo spettacolo, nel loro lettino, magari a seguito di una pizza con tutta la famiglia come premio per la giornata, rifletteranno sul vuoto che li aspetta davanti e l’ignoto che li sta per avviluppare nelle varie declinazioni della crescita, degli affetti, dei cambiamenti, dei dolori, delle passioni, dei dispositivi elettronici che si romperanno e degli ombrelli che dimenticheranno sui treni e del caos della vita. Mi chiedo se ripenseranno a quel turbamento appena provato, tutti in cerchio sul palco a recitare una versione approssimata di quello che sono diventati in quella manciata di anni in cui hanno vissuto, non per loro scelta, in mezzo ad altre persone a grandi linee simili a loro.

E non ho potuto non mettere in relazione questo spettacolo d’addio con un’iniziativa analoga che ha coinvolto una seconda, a cui ho assistito il giorno prima, nello stesso spazio. Esseri umani di una dimensione veramente ridotta, con quell’incertezza in entrambi i ruoli – quello di bambini piccoli e quello di attori – che ĆØ poi il principio attraverso il quale inducono gli adulti a prendersi cura di loro, ad accudirli in quanto figli (o bambini tout court) e a insegnargli le cose che sappiamo per aiutarli ad uscirne fuori, da quell’incertezza che ci ispira cosƬ tanta tenerezza.

In generale un insegnante non dovrebbe essere troppo sensibile, tendere alla malinconia, metterci troppa passione, caricare le aspettative, portarsi il lavoro a casa, voler cambiare le persone, aspettarsi la riconoscenza da chicchessia. Ogni giornata ha un suo tema, una sua canzone, un colore imprevedibile, un pezzo di sĆ© da portare a scuola e che non ĆØ detto che serva a qualcosa.