io sto bene io sto male

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Di tutte le esagerazioni sulla privacy e la sicurezza dei dati e dei documenti frutto delle nevrosi della società moderna e digitale, quella sulle informazioni riservate sanitarie e mediche mi sembra la più fuori controllo. Al di là di tutto ciò che riguarda i servizi bancari, il resto passa in secondo piano, almeno io la vedo così. Mi sfugge a chi potrebbero interessare i referti o lo stato di salute di un cittadino, se non alle assicurazioni per fini di telemarketing.

Il fatto è che, a essere seri, la pluralità di modi di accesso al fascicolo sanitario personale online mi sembra di un altro pianeta, a vederlo qui dal 2021. Possiamo scegliere tra l’accesso tramite SPID con autenticazione tramite app sul telefono. Comodo, vero? Senza contare la procedura per ottenerlo, questo cazzo di SPID. Ogni servizio che necessita di un servizio di consulenza per usufruirne non è un servizio, siete d’accordo?

Al fascicolo sanitario personale si può accedere anche con la carta di identità elettronica o con la CRS, e qui c’è da divertirsi. Sarebbe davvero pazzesco se non occorresse dotarsi di un lettore da collegare al pc (e di conseguenza un pc, che non è scontato ai tempi dell’hype dei tablet). Comunque potete dotarvi di un lettore di card (una roba molto anni novanta, provare per credere) ma poi, per farlo funzionare su Windows 10, ci vuole il driver. Il driver si può scaricare via FTP, quindi prima occorre dotarsi di Filezilla o software di questo tipo. Scaricato e installato il driver? Bene. Ora procuratevi anche il software per trasferire i dati della CRS o della carta di identità elettronica al server online per accedere al fascicolo. Carina e user-friendly, l’interfaccia, vero? Non vedevo una grafica così fuori moda dai tempi di Splinder. Installato tutto? Ok, ma non funziona ancora. Manca la DLL per la firma digitale. Una ricerca su Google e anche questa è fatta. Finalmente funziona tutto? Eh, magari. Ci vuole l’aggiornamento di Java. Installato anche questo? Ok, ce l’abbiamo fatta.

Ce l’abbiamo fatta un cazzo. Vi sembra normale tutto questo? E vogliamo parlare del PIN per i minorenni da richiedere metà allo sportello dell’ASL e metà inviato via SMS? Non so voi, ma io per GMail ho un username e una password. La cambio ogni tanto per essere sicuro. Lo uso da quindici anni e non mi è mai successo niente. Mi chiedo perché tutto il mondo non possa essere di Google.

radiolina

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Tutti lo chiamavano “gola secca” ma noi lo chiamavamo Radiolina perché la sua voce ricordava quegli apparecchi a bassa fedeltà audio che trasmettevano “Tutto il calcio minuto per minuto” e che gli appassionati tenevano incollati all’orecchio la domenica pomeriggio, durante le passeggiate a spasso nel centro o sul lungomare con la famiglia al seguito. Radiolina non si vedeva ma lo si sentiva e basta. Il suo timbro si diffondeva ovunque per una legge dell’acustica tutta particolare, come quei portici di Bologna in cui se parli rivolto a una colonna senti il tuo interlocutore nel punto opposto. Ovunque stanziasse nella stazione di Genova Principe, da lì irradiava le sue trasmissioni pubbliche, il suo incessante e incomprensibile monologo di cui i più giovani facevano a gara a cogliere le parti più scurrili. Radiolina costituiva una presenza costante di quell’ambiente, come gli annunci dei treni in ritardo, le rotelle dei trolley sulle mattonelle, le ali nei voli pericolosi dei piccioni nella hall. Era impossibile resistere alla tentazione di cercare da dove provenisse quel sottofondo metallico di spoken word. I colori neutri degli abiti dimessi di Radiolina lo rendevano invisibile, perfettamente mimetizzato nello sfondo come uno di quei giochi della Settimana Enigmistica. Il vero nome di Radiolina è Roberto Maini ed era un talentuoso pittore. Non conosco la sua storia e non so perché vivesse per strada ma con una folle e paradossale dignità. La stazione di Genova Principe era la sua casa, i pendolari il suo più affezionato pubblico. Ho trovato questa chiacchierata di Radiolina registrata nel 92 alla Panteca, un altro posto altrettanto surreale di una città incredibile e complessa come poche altre nel momento del suo massimo splendore.

i vicini di casa

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Nel corso di una trasmissione pomeridiana su RadioTre di qualche giorno fa, un rischioso microfono aperto, è sorto un dibattito tra conduttore e interventi degli ascoltatori su una tra le svariate conseguenze di questa pandemia. Oramai è un anno che siamo in ballo e non venite a dirmi che, debellato il virus, sarà tutto come prima. In giro si legge di adolescenti dagli psicologi, di persone che non fanno più sesso, di attacchi di claustrofobia da mura domestiche e, all’opposto, di panico per gli spazi aperti, e questo è niente rispetto a cose come l’impatto sull’economia, sulle dinamiche sociali, sulla fiducia nel futuro e, in generale, sull’ottimismo della gente, per non parlare della scuola allo sbando, delle maxi-risse tra ragazzini che non trovano altro per sfogare il nervosismo e di quello che aspetta la generazione che sta diventando adulta durante il C-19. Ieri però qualcuno ha posto una riflessione agli ascoltatori riguardo a tutto quello che abbiamo fatto in questi mesi di reclusione e, in particolare, su cosa abbiamo scritto durante il lockdown. Case editrici prese d’assalto da manoscritti, pagine e gruppi Facebook cresciute e alimentate a dismisura dai rispettivi iscritti, blog e memoriali di ogni sorta letteralmente esplosi e teatro di infinite discussioni tra utenti. Il tema ha poi avuto un seguito sui social, manco a dirlo, dove qualcuno suggeriva alla gente di scrivere di meno e leggere di più. Di provare a farci bastare le vite e le storie raccontate da autori capaci di intrattenerci rispetto a proporci come narratori improbabili.

moriremo tronchi

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Doveseifinitamore
Comenonciseipiù
Etidicochemiman
Sevuoitidicocosamiman
Cadessochenoncisonopiù
Adessocheridonodime
Adessochenonciseipiù
Non so se
Tiricordidime
Quantèbellabbracciar
Persentirtiunpoacas
Saràbellabbracciar
Dirtimiseimancat
Inunboscodime
Ceunrumorincessan
Telofacciodapar
Tuseilamiavosc

la fanno facile

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Alla TV quando parlano di lavoro o di tecnologia la fanno sempre facile. Ci sono le trasmissioni dedicate alle start-up o alla gente che va sul cucuzzolo della montagna e da web project manager si mette a fare formaggio di capra e la scuola in famiglia ai figli strappati ai quartieri dormitorio della metropoli. Presentatori attempati ma supergiovani come Carlo Massarini che passano da un creativo a un cervello in fuga, da un giovanissimo imprenditore a un artigiano alla riscoperta delle tradizioni, visionari accumunati dall’aver messo il digitale al centro del progetto e ora strumentalmente presentabili per dimostrare che a far le cose in questo modo il successo è lì che ti aspetta. Ma non è così. Quant’è che sentiamo parlare di start-up? Dieci anni? E quante ce l’hanno fatta? Un sacco di idee sono finite nel nulla. Un po’ perché erano belle idee e basta, un po’ perché non servivano a niente, un po’ perché qualcuno le ha soppiantate con progetti migliori, un po’ perché boh. Non lo so. Qualcuno dovrebbe fare del fact checking e verificare di tutte le innovazioni presentate nei programmi specializzati quante sono state adottate e quante sono state gettate nel dimenticatoio. I programmi TV che parlano di lavoro o di tecnologia la fanno sempre facile. La realtà è molto differente.

Squid – Bright Green Field

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I posteri parleranno del periodo storico che stiamo vivendo come il momento in cui la musica e il modo di fare musica hanno finito definitivamente di coincidere. L’essenza delle cose che smette di abitare nelle cose stesse. Succede con le lingue, per esempio, tra scritto e parlato. Provate ad ascoltare i dialoghi costruiti per un film e poi recitati da attori o doppiatori. Nessuno si esprime nella vita di tutti i giorni così, se non nei libri o ovunque risulti necessario organizzare il pensiero dentro la griglia di un sistema strutturato. La gente, invece, parla e comunica con un altro idioma. Impoverito, barbarizzato, semplificato, imbrattato dai social media e tutto quello che volete. Sta di fatto che dobbiamo conviverci.

Nel nostro caso, possiamo ricondurre questa scollatura tra la musica e il modo di fare la musica al fatto di aver digitalizzato la musica (come tutti gli altri aspetti del nostro sapere), di averla processata e destrutturata (pensate a cosa è successo all’arte visiva e alla letteratura dopo anni di meme e di citazioni sui social) e di averla consegnata in pasto ai millennials e alle generazioni che, non conoscendone l’uso tradizionale, hanno dato vita a nuovi modelli che poi sono stati sviluppati e personalizzati da chi suona gli strumenti tradizionali. Gente che non conosce il rock (in tutte le sue accezioni) ma ne ha sentito parlare dalle intelligenze artificiali che lo hanno raccontato a modo loro, scevro dalle teorie tradizionali e dalle scuole di pensiero che lo hanno regolamentato fino alla sua dissoluzione. Potremmo banalizzare dicendo che qualcuno ne ha hackerato il codice, nessuno si pone più il problema di come si faceva prima e i testimoni oculari si sono quasi estinti del tutto. Artisti che ne assemblano le componenti a piacimento perché il manuale utente è andato perduto, chissà dove.

Per gli Squid la musica funziona così, come ci tengono a rimarcare fino allo sfinimento nelle undici tracce del loro disco di esordio. Ci sono chitarre, basso, persino sintetizzatori e strumenti a fiato. Ci sono armonia, melodia, ritmo, rumore. Voci e suoni. Ci sono persino delle indicazioni e dei riferimenti per fornire al mercato le coordinate per collocare commercialmente il prodotto: il math-rock, il post-punk, il noise. Ma l’avvertimento è chiaro: per i boomer, inoltrarsi in “Bright Green Field” senza un navigatore satellitare o una guida a come vanno le cose, aggiornata al 2021, potrebbe rivelarsi fatale.

Se Fountains DC e compagnia bella la prendono alla leggera, i Black Midi trasudano ormoni punk-fusion da tutti i pori, i Black Country New Road introducono la componente psichedelica e post-rock e Idles, Viagra Boys e Sleaford Mods incarnano il filone più estremo, una rappresentazione su un piano cartesiano porrebbe gli Squid nell’esatto centro dei quadranti. La voce è indisponente e sgraziata (con l’aggravante che è un batterista a cantare) ma ogni tanto sconfina in proposte più accomodanti. Tra i brani trovano posto divagazioni da otto minuti ma anche contesti più facilmente riconoscibili. Le strutture sono spesso caotiche e schizofreniche ma lasciano spazio a modelli concilianti. Ne risulta un disco in cui, osservato da vicino e ascoltato istante per istante, pixel dopo pixel, difficilmente ci si capisce qualcosa. Solo al termine dell’ultimo brano, evaporato anche l’ultimo suono, ci si rivela in tutto il suo significato. “Bright Green Field” è un’opera complessa. Ci vuole pazienza, curiosità, concentrazione e disposizione ad accettare qualcosa di veramente diverso da tutto ciò che conosciamo.

Gli Squid vengono da Brighton e danno l’impressione di essere una di quelle band in perfetto equilibrio interno. Un’armonia in grado di far lavorare cinque menti come una unica per un prodotto che non ha eguali. Pubblicato dopo alcuni singoli e un EP che ha attirato molta curiosità sulla band (e l’attenzione della Warp, etichetta abituata a ben altri suoni) “Bright Green Field” risulta un album di portata e ambizione elevatissime.

Non lasciatevi ingannare, però, dal titolo dell’album e dal verde brillante dei prati in copertina. La relazione tra post-punk e le composizioni degli Squid è la stessa che vige tra un qualsiasi panorama bucolico e la natura decostruita teatro delle gesta dei Teletubbies. Una realtà completamente riscritta da capo e basata su architetture paradossali e distopiche. Una trasposizione dei nostri tempi al limite della vivibilità in un nuovo ordine soggetto all’incertezza e alla paura, in cui si sta scomodi e tutt’altro che a proprio agio, una pavimentazione sconnessa che ci costringe a un continuo adattamento. La musica degli Squid è spaventosamente profonda e si spinge giù fino ad un livello a cui non siamo più abituati. “Bright Green Field” è una vera e propria variante inglese al nostro incedere verso il futuro, una strada panoramica sull’infinito priva di protezione a valle e fuori da ogni percorso certificato dai motori di ricerca.

Per questo, quando gli storici tra qualche secolo si troveranno davanti da una parte degli spartiti con delle note scarabocchiate e dall’altra i file delle tracce di dischi come “Bright Green Field”, si chiederanno il perché dell’esistenza di una teoria e di una pratica della stessa disciplina così agli antipodi l’una dall’altra e si inventeranno chissà quali congetture per capire, intorno agli anni venti del ventunesimo secolo, che cosa sia realmente capitato al genere umano.

pong

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Confesso di non aver mai pensato all’esperienza videoludica come a una “possibilità di vivere vite infinite che ne deriva e che in passato veniva tradizionalmente associata al romanzo”, come scrive Marco Montanaro nell’articolo/intervista a Lorenzo Fantoni, giornalista specializzato in videogiochi e tecnologia che ho avuto la fortuna di conoscere per lavoro. Dall’esperienza personale di amici sepolti nelle sale giochi e bar a sperperare la paghetta e, quindi, il frutto del lavoro dei genitori distruggendo astronavi a duecento lire a botta, ho sempre ricondotto i vdeogame a tempo sprecato e rubato a qualcosa di più interessante per bambini delle elementari, pregiudizio di cui ho trovato conferma da quando faccio l’insegnante di scuola primaria, un contesto in cui il raggio di interesse dei miei alunni – maschi – non va oltre Fortnite e Brawl Stars. In una recente puntata di Report, che ha compreso ancora un intervento di Lorenzo Fantoni, si sottolineava il valore identitario per le nuove generazioni cresciute con i videogiochi, i ragazzi di allora ma anche quelli di qualche decennio fa e che adesso ancora leggo trascorrere ore in questa dimensione virtuale, che ha superato in portata quello di musica, cinema e letteratura. La cosa mi ha fatto riflettere: quello che io ricerco nelle storie scritte, narrate e suonate in effetti può essere trovato in una vita parallela vissuta al di là di una console. L’esperienza provata in un videogioco è la più coinvolgente perché passiva per il fruitore, più facile da cogliere, a differenza di un romanzo, di un film o di un long playing. Il videogioco è il media più caldo di tutti, il più rovente: una full immersion con effetto presenza per chi gioca, diventa protagonista, sceglie e vive il proprio destino di una second life alternativa. Per tutto il resto, come le cose che preferisco, ci vuole più impegno e più pazienza. E se pensate a come ci siamo ridotti, tutto torna.

tocco di classe

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Al più recente consiglio di classe aperto la coordinatrice dei docenti di mia figlia ha detto che i ragazzi seguono le lezioni, che intervengono poco e talvolta devono essere sollecitati, che studiano ma potrebbero impegnarsi di più, che sono uniti tra di loro e che tutto sommato sono una buona classe. Ho partecipato anche agli altri analoghi incontri organizzati quest’anno e aperti ai genitori. Ricordo il precedente, a ridosso degli scrutini del primo quadrimestre. La coordinatrice, ma anche gli altri colleghi di team erano d’accordo, aveva sottolineato che i ragazzi seguono le lezioni, che intervengono poco e talvolta devono essere sollecitati, che studiano ma potrebbero impegnarsi di più, che sono uniti tra di loro e che tutto sommato sono una buona classe. Mia figlia frequenta la quarta superiore e, concluso il biennio, la sua seconda era stata smembrata tra varie sezioni. Ai tempi aveva un corpo docente diverso da quello attuale, ma anche loro, nei consigli di classe aperti, dicevano a noi genitori che i ragazzi seguono le lezioni, che intervengono poco e talvolta devono essere sollecitati, che studiano ma potrebbero impegnarsi di più, che sono uniti tra di loro e che tutto sommato sono una buona classe. E io già ai tempi mi ero stupito, perché quando mia figlia frequentava la secondaria di primo grado, quella che conosciamo come scuola media, mi ricordo benissimo che i professori ci avevano restituito più volte un quadro della classe la cui sostanza era che i ragazzi seguono le lezioni, che intervengono poco e talvolta devono essere sollecitati, che studiano ma potrebbero impegnarsi di più, che sono uniti tra di loro e che tutto sommato sono una buona classe. Non vi nascondo la sensazione di deja-vu: anche le maestre della primaria, per raccontarci il contesto didattico, ci parlavano spesso di una classe formata da bambini che seguono le lezioni, intervengono poco e talvolta devono essere sollecitati, studiano ma potrebbero impegnarsi di più, uniti tra di loro e, tutto sommato, una buona classe. E ritenetevi fortunati del fatto che non mi ricordo cosa si diceva alle riunioni alla scuola materna. Ora, probabilmente il problema è mia figlia che, come un re mida al contrario, rende con la sua presenza tutto quello che ha intorno a sé uguale a uno standard di basso livello. O forse i consigli di classe aperti ai genitori sono una perdita di tempo perché, in fondo, c’è ben poco da comunicare. Oppure gli insegnanti fanno fatica a diversificare il loro spirito di osservazione sul materiale umano che hanno di fronte e, abituati a modelli che non si sa bene da dove derivino – probabilmente dalla notte dei tempi della scuola – ripetono un copione di cui sono sicuri, mica che poi qualche genitore voglia andare nel dettaglio o faccia qualche ricorso. D’altronde, come biasimarli, con così tanti studenti davanti giungere a una sintesi adeguata non è facile.

dove batte la lingua

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Dev’essere come avere la testa nel casco di uno scafandro e, quel poco che si percepisce da fuori, ti arriva in un idioma alieno. Lorenzo è nato in Italia da una famiglia cinese. A casa la lingua che parliamo a scuola si pratica poco e, in più, è costretto a indossare un apparecchio acustico perché ci sente male. Una combinazione di fattori che lo penalizza dal punto di vista sociale. Malgrado l’età ha sviluppato un vocabolario esiguo che limita fortemente il suo rapporto con i pari, un po’ perché il tempo in classe è insufficiente a esercitarlo e un po’ perché le difficoltà di sentire e sentirsi, unita alla frustrazione di vivere in una bolla in cui c’è solo lui, aumentano la sua tendenza a isolarsi. La sua bravura nel calcolo e nel disegno non ha eguali. Stesso discorso in qualunque attività manuale. Dovreste vedere i suoi quaderni di italiano: Lorenzo scrive come un libro stampato. Il fatto è che comprende solo il significato di alcune delle parole ma prese singolarmente, mentre anche i periodi meno articolati lo mettono in seria difficoltà. Quando sono in compresenza con la collega mi siedo al suo fianco e, portatile alla mano, cerco di illustrargli in qualche modo il senso di quello che sente e legge. Non parla molto e il dialogo con lui non è dei più facili. Ieri, come tutti i suoi compagni, Lorenzo si è sottoposto alle prove Invalsi di seconda. Abbiamo aperto il fascicolo insieme e ci siamo trovati di fronte al racconto di due facciate che costituiva il focus del test di comprensione di quest’anno. Lorenzo l’ha letto tutto con la diligenza che lo contraddistingue, parola per parola, seguendo il testo con il suo dito indice, impiegando gran parte dei quarantacinque minuti che aveva a disposizione. Poi gliel’ho riletto io, anche se non si potrebbe, scandendo bene le parole nel microfono che il suo dispositivo di ricezione del suono ha in dotazione, cercando di mimare la storia di Anna e Lisa che, seguendo l’esempio del nonno, si mettono in testa di scappare di casa. Poi ha provato a leggere le domande. “Che cosa significa tirarsi indietro”, chiedeva una delle prove, che è già un livello di comprensione secondario rispetto a quello primario della semiotica della parola. Qualche km in più rispetto alla distanza che intercorre tra quello che Lorenzo vede stampato su un foglio e il link che quelle lettere, separate da uno spazio all’inizio e uno spazio alla fine, gli suscitano nella sua testa, che potrebbe essere chiusa in un casco di uno scafandro e immersa in un mondo in cui la gente, come dicevamo prima, si esprime in un idioma di un altro pianeta. Non saprei dire di chi sia la colpa del disagio che prova Lorenzo. La sua famiglia? La sua comunità? La nostra comunità? La scuola? I suoi insegnanti? Il mondo degli adulti senza distinzione di confini? Per mia fortuna mi hanno chiamato per intervenire nel laboratorio di informatica in cui svolgevano la prova i DSA delle quinte, con le cuffie collegate ai pc per ascoltare l’audio dei vari task. Ho dovuto lasciare Lorenzo al largo nel mare di quella storia fatta solo di parole senza un perché, tra le onde che con il loro moto perpetuo disperdono il codice che le concatena una dopo l’altra in frasi di senso compiuto. Non ho visto com’è andata a finire, ma quando sono rientrato era il momento dell’intervallo. Lorenzo mi è corso incontro come sempre, con la sua merendina confezionata in mano, per farmi sentire il rumore che fa la pellicola quando scoppia.

summer school

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A me l’idea di organizzare qualcosa per i ragazzi a scuola nel periodo estivo sembra un’intuizione efficace. Sono d’accordo sul fatto che sia meglio mettere a norma l’attività didattica nei tempi regolamentari dell’anno scolastico aumentando il personale, riducendo gli alunni per classe, vaccinando studenti e docenti, investendo nell’edilizia scolastica, puntando sulla formazione degli insegnanti di ruolo, adeguando il percorso di abilitazione e recruiting delle nuove leve, accelerando sulla digitalizzazione, sburocratizzando le componenti organizzative e tutto il resto che continuiamo a ripeterci dalle origini della scuola pubblica. Credo anch’io, inoltre, che l’idea sia stata lanciata con imperdonabile ritardo: allestire in una manciata di settimane un’iniziativa così complessa sta mandando su tutte le furie i favorevoli (“ancora una volta si è persa un’occasione!”) e i contrari (“si potevano fare tutte quelle belle cose durante il periodo di servizio ordinario!”). Se chiedete agli addetti ai lavori vi imbatterete negli apocalittici (“vi voglio vedere a fare lezione a luglio nelle aule prive di pale e di aria condizionata!” o “non siamo animatori da villaggio turistico”) e negli integrati (“possiamo recuperare tutta la socialità che è andata smarrita nei mesi di didattica a distanza!” o “riportiamo i ragazzi al centro della scuola”). E il bello è che hanno ragione tutti. Le famiglie e il personale scolastico rinunceranno a qualche settimana di vacanza? Ci sarà domanda conseguente all’offerta o viceversa? I cittadini cosa si aspettano da noi? Riusciranno i dirigenti scolastici e i loro più stretti collaboratori a mettere in piedi qualcosa in fretta e furia, col rischio dei gattini ciechi? Io, nel dubbio, la mia disponibilità a fare qualcosa fuori dai programmi – musica, cultura digitale, cinema, comunicazione – l’ho data. Ma, se volete il mio parere, non ce la faremo mai.