una normale famiglia di supereroi

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Michele sosteneva di essere il nipote di Enrico Montesano. Non nego che la somiglianza fosse sorprendente. Il fatto è che in un contesto in cui nessuno ti conosce ci vuole poco a guadagnarsi un po’ notorietà sfruttando quella acquisita da altri. Michele è stato un mio commilitone ai tempi della leva obbligatoria, uno tra le svariate centinaia di persone che ti capitano casualmente in una fase così particolare della vita, talmente particolare e con l’aggravante della divisa che a un certo punto – finalmente – qualcuno ne ha sancito l’inutilità. Ho ripensato a Michele poco fa e solo perché ho visto su Facebook una foto di Gianni Morandi con suo nipote e mi sono chiesto come debba essere acquisire, a un certo punto della vita, la consapevolezza di appartenere a una famiglia di cui fa parte un membro importante. Una donna o un uomo famoso. Una celebrità in qualche ramo della nostra civiltà. Sei a scuola e arriva il momento in cui qualcuno ti chiede se tuo padre è davvero Ozzy Osbourne o tuo zio Marco Travaglio. Chissà come si diventa grandi, in questa condizione. Quali stati d’animo si manifestano, in un mix tra il desiderio di emancipazione per essere valutati per chi siamo davvero e il ricorrere invece ai privilegi che ciò comporta, in casi di necessità. Negare o ostentare? E, soprattutto, Michele era davvero il nipote di Montesano?

con questa faccia da straniero

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La calca all’ingresso del commissariato mi fa temere il peggio. Ho prenotato per le 15 in punto di oggi il turno per il passaporto elettronico per mia figlia ma, chissà perché, immaginavo un’esperienza diversa. Non è stata l’emergenza sanitaria a trasformare il nostro presente in una concatenazione senza fine di appuntamenti. Avere un orario in posta, dal dottore o in qualunque altro ufficio in cui c’è il rischio di fare la coda era un sistema già in auge prima. Ci risparmia perdite di tempo e ora riduce anche al minimo il pericolo di ritrovarsi assembrati tra la gente e la sua portata virale. L’ingresso della stazione di Polizia invece è gremito di gente e la fila è disposta senza un adeguato distanziamento. Mi accingo a chiedere informazioni per capire se ci sia un ordine strutturato e una eventuale procedura auto-organizzata da seguire ma presto mi accorgo di essere l’unico italiano lì in mezzo, oltre a mia moglie e mia figlia.

Qualche agente in borghese attraversa la calca e si fa aprire il cancello, probabilmente sta per prendere servizio. Pochi minuti dopo le quindici un poliziotto in divisa esce dal portone principale, si avvicina a noi e con un foglio alla mano impartisce le istruzioni. Divide la gente in attesa in gruppi a seconda del servizio richiesto. Chi deve fare denuncia, chi deve rinnovare il permesso di soggiorno, chi deve farlo la prima volta e chi è lì per il passaporto.

Il fatto è che gli stranieri capiscono poco o niente di quello che l’agente sta dicendo e lo incalzano mostrandogli il display dello smartphone sul quale qualcuno ha scritto per loro il motivo per cui si trovano lì. In risposta ottengono un servizio di – chiamiamola – customer satisfaction piuttosto approssimativo. Penso a come ci si possa sentire in un paese straniero e con le conseguenti difficoltà linguistiche a sbrigare pratiche decisive come quelle e mi chiedo perché tutto ciò che riguarda la cittadinanza debba essere di pertinenza delle forze dell’ordine o, comunque, di persone in divisa. Pensate a come sarebbe diverso se per questo tipo di questioni chi si trasferisce nel nostro paese potesse recarsi in un ufficio più accogliente, arredato in un modo diverso da un commissariato di polizia, al cospetto di persone che conoscono le lingue straniere e vestite da civili. Anzi, sono convinto che nei paesi civili è già così.

una cantonata

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Devo ammettere che quest’anno, con Sanremo, ho preso più di una cantonata. Una débâcle che suona come un campanello d’allarme per uno che fa vanto della sua capacità di cogliere al primo ascolto una band o un’artista promettente e un brano di sicuro successo come il sottoscritto. Se date un’occhiata ai giudizi che ho messo a caldo quest’anno avrete capito di cosa sto parlando. Nei venti minuti scarsi di auto che separano casa mia da scuola non passa viaggio sia di andata che di ritorno in cui non senta almeno due volte, facendo zapping con la radio, “Voce” di Madame e “Musica leggerissima” di Colapesce e Dimartino. A differenza di quanto accade le altre volte, la sovraesposizione mi ha permesso di apprezzare le qualità di entrambe le canzoni e mi suona strano averle bistrattate, nel corso delle serate del festival. Non voglio andare a rileggere che cosa ho scritto ma sono sicuro di averle stroncate senza pietà. Anzi, fatemi una cortesia, leggete voi qui e qui per me e poi ditemi. Ora, è successo che ieri sera i Maneskin, non paghi della vittoria a Sanremo e degli svariati milioni di ascolti accumulati su Spotify, abbiano sbancato anche l’Eurovision o come si chiama. Sapete come funziona, vero? L’Eurovision accoglie i progetti più bizzarri dell’industria musicale. Questo perché i paesi europei, ma dalla tradizione musicale agli antipodi di quella europea, mandano band e artisti che dalle nostre parti, noi che siamo registrati su livelli qualitativi di ben altra scala, verrebbero a malapena impiegati nei siparietti comici delle puntate dedicate ai partecipanti esclusi dei talent show. Avente presente? Di conseguenza in UK non è che possono mandare John Newman. Al massimo iscrivono il fratello scarso, come quest’anno, quello che ha preso zero punti. È un po’ come alle olimpiadi, quando ci lamentiamo del fatto che non partecipa la nazionale di basket con i mostri dell’NBA. Questa è la ragione per cui, continuando con la stessa metafora, i Maneskin ci fanno la figura di Steph Curry e centrano il primo posto. Oggi mi sono così trovato a canticchiare sono fuori di testa ma diverso da loro più volte. Ed è per questo che ho pensato che, quest’anno, con Sanremo, ho preso più di una cantonata. Ma con i Maneskin non mi sono sbagliato.

società sportiva

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La gente non vede l’ora di mettersi in tuta il sabato mattina e uscire di casa. Poi ci sono anche quelli che nel weekend corrono, vanno in bici, camminano, zampettano con le bacchette da nordic walking per i parchi urbani, e sono davvero tanti. Alla gente normale però basta solo il contatto con la tuta per percepirsi di maggior tonicità, in forma e pronta a mettersi in marcia, un po’ come quando prendi l’appuntamento dal dottore e, messo giù il telefono, ti senti già meglio. Con la tuta ci si va al supermercato, si fa la spesa nelle botteghe di quartiere. In tuta si lava la macchina, si fa la scorta alla casa dell’acqua per la settimana, si va in posta o a fare un bancomat e, tra una commissione e l’altra, c’è il tempo per un caffè al bar della piazza o, se è quasi mezzogiorno, uno spritz. La diffusione delle tute come outfit trasversale a ogni ceto sociale ha indotto la moda ad adattarsi alle nuove linee. Prendete i pantaloni da uomo, sempre più slim, o le scarpe che, anche quando sono eleganti, richiamano le sneakers. A vederci tutti con la tuta, l’uomo del futuro di noi penserà che siamo una società sportiva, una civiltà in cui teniamo molto al nostro benessere fisico. L’uomo del passato giudicherebbe invece esclusivamente l’estetica discutibile e il tessuto artificiale di bassa qualità con cui vestiamo i nostri corpi. L’uomo del presente è solo più pratico degli altri e non vede l’ora di mettersi in tuta il sabato mattina e uscire di casa. Tutto qui.

le barricate in piazza le fai per conto della borghesia che crea falsi miti di progresso

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Io spero che da morti ci sia la possibilità di portare con sé, qualunque sia la destinazione, i propri dischi preferiti. Allo stesso modo mi sentirei davvero al sicuro se i cantautori che non ci sono più sentissero, nell’empireo in cui si trovano ora, il calore dei loro sostenitori sulla terra. De André, Ivan Graziani, Lucio Dalla, Claudio Lolli e, da qualche ora, Franco Battiato, ma sono sicuro di averne dimenticato qualcuno. Più delle rockstar, più dei Bowie o dei Kurt Cobain, i cantautori sono ambasciatori nell’aldilà della società che abitiamo dal vero ogni giorno, nelle nostre piccole città della penisola. A casa, per le strade e nelle piazze, sul posto di lavoro, a scuola, nei quartieri dormitorio, nei centri storici, nella vita privata e in quella pubblica. Questo perché, a differenza di Prince o di Amy Winehouse, i cantautori parlano la nostra lingua, vivono i nostri sogni, ci prestano il modo di dire al nostro prossimo più vicino che siamo tristi, siamo felici, amiamo qualcuno o qualcuno ci ha tradito, vorremmo cambiare ma non ce la facciamo, siamo cambiati ma poi tutto è tornato come prima.

Il fatto è che non sempre ce la raccontiamo giusta, perché i martiri del rock straniero sono tentacolari in quanto impersonano il posto in cui avremmo voluto vivere la nostra storia personale, e ci mancherebbe. Londra, Seattle, Berlino, New York. Ma come la storia del camaleonte che si insegna a scuola, alla resa dei conti, senza la saetta rossa disegnata sulla faccia, la maglia a righe orizzontali, la Stratocaster incendiata sul palco o distrutta contro l’ampli, dovremmo tornare ad accettare noi stessi, i vicoli di Genova, le piazze di Bologna, i borghi dell’Italia centrale, la provincia, la Sicilia.

Per chi è cresciuto quando i cantautori erano gli interpreti della vita di tutti, un cantautore morto si porta via una parte non da poco. Anche se, negli anni d’oro del cantautorato, si ascoltava tutt’altro. Perché le canzoni dei cantautori erano dappertutto. Erano come il battito del cuore delle nostre madri, quello che sentiamo per nove mesi mentre tutte le nostre cose vanno al loro posto. Un universo sonoro che viene fuori ogni volta che ci serve una frase fatta, un verso, un modo per esprimere qualcosa che sia compreso da tutti. Per questo quando un cantautore muore si cancella qualcosa, anche per chi i cantautori li ha ascoltati poco. E non è solo il fattore umano. Ci consola il fatto che, a fronte della perdita di un esponente centrale per la nostra cultura, in cambio ci resta un capitale condiviso, una ricchezza che non si esaurirà mai.

il sorpasso

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Una delle mosse più pericolose in macchina è affiancare in sorpasso un’altra auto in una strada a due corsie in prossimità delle strisce pedonali. Se qualcuno si avventa in un attraversamento in extremis, mentre la vettura sulla destra frena all’ultimo per lasciarlo passare, il rischio di travolgerlo è elevato.

Mi è capitato qualche giorno fa e per mia fortuna sono riuscito a inchiodare in tempo. Avevo un camion al mio fianco che occultava completamente la vista. Non ho notato il suo fermarsi all’improvviso e mi sono trovato all’improvviso davanti un ragazzo che, giustamente, mi ha fulminato con lo sguardo. Mi sono scusato all’istante, anche se giustificarsi quando si commette un errore di quel tipo – che si potrebbe rivelare fatale – lascia il tempo che trova, ma ancora prima di spegnere la radio per aumentare la concentrazione su quello che era appena accaduto e trovare le parole per dirgli che avevo sbagliato mi ha mostrato il pollice in alto con significato ironico, come a dire “bravo, coglione”. Non l’ha detto solo perché era straniero. Non ho colto però l’idioma con cui mi ha sparato affanculo. Ho cercato comunque di mostrargli il mio rammarico, sottolineando in più il fatto che il furgone mi aveva completamente oscurato la visuale. Non so perché ma sono bastate quelle parole per ribaltare completamente la situazione. Mi ha sorriso, ci siamo salutati e si è affrettato a raggiungere l’altro lato della strada.

Il passaggio pedonale si trova a ridosso del parcheggio di un discount. Ci ho fatto caso solo il giorno dopo, passando di lì alla stessa ora. Ho percorso il tratto più lentamente, memore di quanto successo il giorno prima. A pochi metri da lì è sbucato ancora lo stesso ragazzo che avevo rischiato di investire. Ho scalato e fermato con ampio anticipo il veicolo, questa volta, per farlo passare. L’ho scrutato in volto, sperando mi riconoscesse e si accorgesse del gesto. Ho anche pensato che si trattasse di un dipendente del discount che, come il giorno precedente, aveva appena terminato il suo turno. Questa volta però indossava gli auricolari e sembrava molto concentrato nella musica che stava ascoltando. Ha attraversato accendendosi una sigaretta senza nemmeno voltarsi. O forse mi ha osservato con la coda dell’occhio e ha fatto finta di niente. Così ho aspettato che giungesse incolume alla fine delle strisce, ho ingranato la prima, ho cambiato stazione alla radio e sono ripartito.

ora solare

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Esiste una speciale classifica delle domande che irritano maggiormente gli insegnanti. Mi riferisco a quella pratica per cui gli alunni alzano la mano e pongono questioni che non c’entrano con quello di cui si sta parlando perché, sostanzialmente, sono indice del fatto che chi vuole chiedere quella cosa non sta seguendo adeguatamente e sta pensando ad altro. I bambini più piccoli sono campioni mondiali di questa disciplina, perché qualunque argomento discusso in classe genera una sequenza di link concatenati che portano all’irrefrenabile desiderio di condividere un’esperienza quasi sempre personale distante almeno dieci gradi di separazione dallo spunto che l’ha indotta. Poi ci sono però le domande legate a esigenze di più basso livello, a partire dal chiedere di andare in bagno che concentra in sé l’intero spettro delle necessità relative al voler fare un break contro la noia del docente che spiega.

La top ten delle richieste che mettono a rischio la pazienza dell’insegnante vede domande tipo “maestro che cosa facciamo dopo?”. Parole ingenue, proferite da piccoli teneri esseri viventi, che nascondono però un non detto che suona tipo “maestro mi sto facendo due coglioni così, se non sei in grado di trasferirmi il tuo entusiasmo e la tua passione nella materia faresti meglio a cambiare mestiere”.

Una domanda che è seconda solo al classico dei classici: “che ora è?”. Il guaio è che il settore della didattica manca completamente di best practice sul modo in cui rispondere ai bambini che chiedono l’ora nel bel mezzo della lezione senza mandarli affanculo. La tentazione di pungerli sul vivo facendo loro notare che, così grandi, non essere in grado di leggere l’ora all’orologio appeso al muro è grave è molto forte. Il fatto è che se l’orologio in questione ha le lancette potrebbe trattarsi di un’osservazione boomerang. Qualche genitore potrebbe infatti ricorrere al TAR perché siamo nel 2021 e nelle case ci sono solo orologi digitali. O, meglio, l’ora si guarda sullo smartphone o la si chiede ad Alexia.

Ma si sa, in classe dobbiamo portare solo il lato migliore di noi e lasciare ciò che ci rende frustrati e irritabili nell’armadietto (che esiste solo nei film sulle scuole americane) in sala insegnanti. Quando uno dei miei alunni – che poi è sempre lo stesso e si chiama Marco – mi chiede l’ora, conto fino a dieci e poi rispondo con cose cordiali tipo “resisti che tra poco si fa merenda” oppure rilancio con una domanda: “perché, sei già stanco?”. Quando sono di buon umore dico l’ora come se niente fosse e cerco di dissimulare la voglia di fargliela scrivere cento volte sul diario.

In realtà Marco ha la faccia troppo simpatica per attirarsi il disappunto di un adulto. Sorride senza soluzione di continuità e lo si capisce anche se ha la mascherina. Qualche giorno dopo il mio compleanno è stata la volta del suo e si è presentato a scuola con un vistoso orologio da polso, tutto nero e grande quanto il suo pugno. Anche il cinturino è evidentemente sproporzionato per la sua età, e quando lo indossa ne avanza una parte lunghissima oltre il buco della sua misura. Mi chiede spesso aiuto nel toglierlo e metterlo, per esempio quando siamo in giardino. Credo che abbia paura di romperlo giocando. L’orologio nuovo ha il quadrante digitale ed è subacqueo. Me lo ha fatto notare mentre lo aspettavo fuori dal bagno con lo scottex in mano. Ha messo l’orologio sotto l’acqua corrente e mi ha chiamato per mostrarmi il prodigio. Potete immaginare come mi sono sentito. Io non mi fido della tecnologia che viene spacciata come idrorepellente. Non avete idea di quanti auricolari classificati come resistenti al sudore ho già cambiato per la corsa. Asciutto o bagnato, l’orologio ha avuto comunque un effetto positivo perché i “maestro che ore sono?” in effetti nelle ultime settimane sono crollati, sostituiti da continui bip bip bip di Marco che sperimenta le funzioni dell’orologio nuovo durante l’orario scolastico. 

ringraziamenti

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Gli organizzatori della corsa hanno posizionato lo spogliatoio per gli iscritti nel cimitero. Potrei anche non usufruirne perché la mia casa di campagna si trova duecento metri dopo. Il fatto è che c’è una salita sterrata abbastanza faticosa e non oso immaginare come sarò sfatto tre ore dopo l’inizio della gara, sempre che tagli il traguardo e non muoia prima. In quel caso, il cimitero potrebbe fare al caso mio. Il mio tempo per la mezza maratona fa ridere i polli ma chi se ne importa. Ho cinquant’anni suonati, sono un podista cialtrone e, soprattutto, senza pretese. Mi avvio con la borsa a tracolla e, per raggiungere il posto dove potrò indossare il mio abbigliamento entry level della marca economica del Decathlon, attraverso il prato di fronte al cancello di ingresso. Ci passo con piacere. Ho giocato centinaia di partite di calcio su quell’erba, da bambino. Mi ricordo persino un paio di gol realizzati grazie alla mia tecnica sfrontata da principiante. Ora ci sono coppie di lottatori afroamericani piazzatissimi che si fronteggiano completamente nudi, pensando alla prima mossa per stendere l’avversario. Non serve Freud per l’interpretazione della presenza di queste comparse nel sogno. Ho visto i primi episodi della serie tv tratta da “La ferrovia sotterranea”, e li ho visti su Amazon Prime Video ma nella realtà. Poi mi sono stufato. Nel bellissimo romanzo di Colson Whitehead la ferrovia è una metafora e speravo che nell’adattamento cinematografico la produzione avesse pensato a un escamotage meno visionario per non sminuire la portata di denuncia. Con mia moglie, durante la visione, ci siamo chiesti se negli USA la hanno vista tutta, dall’inizio alla fine, come si devono sentire i bianchi, la vendetta degli schiavi e dei loro discendenti che non sarà mai abbastanza. Questo rimando alla fiction mi fa però perdere il filo della storia: entro nel cimitero per cambiarmi ma poi mi ritrovo seduto in macchina, in uno di quei momenti in cui stai per spegnere il motore nel parcheggio ma vuoi lasciar finire una canzone che ti piace un casino. Questa volta la canzone è di Alanis Morrisette.

come un libro stampato

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Nella figura si nota come la risposta sia stata considerata errata; secondo me quella è un’ingiustizia. Quello è un orologio che segna le 11 e 10: è chiaro che l’insegnante voleva che fosse disegnato un orologio analogico, ed è anche chiaro che probabilmente nei giorni precedenti la classe è stata tempestata di orologi analogici, ma nel foglio non è stato specificato che tipo di orologio ci voleva. Forse chi ha progettato il quiz è una persona della mia età che ha ancora l’imprinting dell’orologio analogico; o magari non ha pensato abbastanza alla domanda.

Maurizio Codogno tira in ballo certe cantonate che prendiamo noi docenti quando prepariamo le verifiche. Comunque consoliamoci: i libri di testo – almeno quelli per la scuola primaria – non sono da meno. Telefoni con il disco, televisori con il tubo catodico, PC con i floppy disc, bilance che non si vedono nemmeno al mercato e – appunto – orologi a lancette. Per i bambini è troppo presto per apprezzare il vintage.

prima di andare al mare

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Da qualche tempo gira su Youtube questa versione di “Vamos a la playa”. Divulgata come la prima registrazione demo di Johnson Righeira da solo e precedente all’arrangiamento italo-wave che vendette milioni di copie in tutto il mondo, il brano suona come un acerbo quanto convincente anelito post-punk. Quelli che, come me, si considerano tra i più documentati studiosi del celebre tormentone dell’estate 83, ci sono rimasti molto male per il fatto che la demo sia stata messa in circolo solo ora. Avendo riconosciuto nella versione ufficiale numerosi richiami alla new wave elettronica del periodo, siamo tutti consapevoli del fatto che, se invece quell’estate fosse uscita nell’arrangiamento originale, sarebbe stata non solo una hit da juke-box ma un vero punto di riferimento per gli ascolti di allora e di tutto quello che è seguito nella musica alternativa italiana. Siamo arrivati persino a pensare che la pubblicazione della demo sia l’ennesima trovata magistrale dei Righeira, un revamping pensato per cavalcare la retromania electro-wave in auge di questi tempi, l’ultima geniale diavoleria per sbancare ancora una volta l’industria musicale e balzare ai primi posti di tutte le top ten del mondo.