sotto il palco

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Nelle mie lezioni cerco di presentare la musica in tutte le sue forme. Manca solo la dimensione della musica suonata, il che apparentemente costituisce un paradosso: la musica si fa principalmente con gli strumenti in mano. Non è facile, però, organizzare una classe di musica con studenti la maggior parte dei quali non ha mai preso lezioni pratiche. La scelta di uno strumento da attribuire individualmente dev’essere ponderata secondo le attitudini del singolo ma, circoscritta in un programma didattico e in tempi poco accomodanti, non è perseguibile. E poi si pone il problema di che tipo di ensemble formare, con una ventina di bambini o ragazzi. Un’orchestra vera e propria con archi, ottoni, legni e percussioni? Una banda da strada? Oppure, considerando l’impossibilità di insegnare venti strumenti diversi, comporre quattro gruppi da cinque elementi ciascuno e poi lavorare separatamente su batteristi, bassisti, chitarristi, tastieristi e cantanti? Fantascienza pura. Si potrebbe scegliere uno strumento per tutti, un rigido flauto o un più gradevole glockenspiel, che è quello che poi facciamo tutti, per non limitare il coinvolgimento alla sola vocalità. A me piace ascoltare musica tutti insieme, che è poi una delle mie grandi passioni quando sono a casa e quindi non vedo perché non mi ci possa dedicare anche a scuola. Ne scrivo spesso, qui, perché è un’attività che – curata nei dettagli – garantisce soddisfazione, consente di comprendere il carattere e le personalità degli alunni, permette il confronto e il dialogo, è inclusiva e aiuta gli studenti a mettersi in gioco e a farsi conoscere più approfonditamente grazie ai loro brani preferiti. Capita spesso che si riferiscano ai loro beniamini con un trasporto sorprendente, un attaccamento sicuramente diverso dalla venerazione che ho io per i Cure o David Bowie ma, al netto dell’ingombro della dimensione videoludica, non per questo non degna di attenzione. In questi casi mi impegno sempre a valorizzare gli artisti da cui si sentono ispirati – anche quando, oggettivamente, fanno cagare – e suggerisco loro di andare a vederli dal vivo, un giorno in cui finalmente si potrà uscire e ci si potrà sfogare liberamente sotto il palco scambiandovi il sudore e urlando senza mascherina. Cerco di trasmetter loro l’idea che il concerto è un’esperienza che non ha confronti. Vedere e ascoltare la musica live è una dimensione a sé in cui le vibrazioni dei suoni ci urtano e ci penetrano nelle viscere. Parlo ai miei alunni delle frequenze basse che fanno tremare la pancia, di quelle acute che ci fanno vibrare i timpani delle orecchie, dalla batteria che è una cosa miracolosa e che ci fa muovere a tempo. Racconto anche delle migliaia di sconosciuti con cui ci si ritrova, che sono lì come noi in quel momento per lo stesso identico motivo, persone che percepiscono la stessa cosa in un modo probabilmente all’opposto del nostro e che invidiamo perché cantano a memoria strofe che non ci ricordiamo. Ogni tanto trovo qualcuno che ha visto Vasco con i genitori a San Siro, altri che hanno partecipato a qualche rassegna estiva in piazza alla ricerca dei tormentoni, persino qualcuno che ha letto che nella località in cui trascorrerà le prossime vacanze si esibiranno in Maneskin, e poi ci sono molti meno privilegiati che hanno solo l’idea di cosa possa essere un concerto. A tutti dico di farsi regalare un biglietto del loro cantante o band preferita, appena si presenterà l’occasione, e di correre a vedere la musica dal vivo che è una delle esperienze più coinvolgenti e appaganti del mondo.

parodiare

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Giocare con le parole è un passatempo antico come il linguaggio, un divertimento iconoclasta che vuole depotenziare significanti e significati e mostrare la nudità di quello che diciamo e scriviamo. Le parole saranno anche importanti ma sono tutt’altro che insostituibili e lo dimostra quell’usanza infantile di cambiare i versi che trasmettono maggiore solennità, a partire da poesie, canzoni e preghiere. Una cosa da bambini che resta nel bambino che resta con noi, insieme a certe barzellette e tutto ciò che riguarda la sfera della risata facile. L’imitazione volutamente scherzosa se non dissacratoria, quella che rientra nell’ambito della parodia, è una pratica a cui ci siamo dedicati tutti e che, nei casi di eccessiva dedizione, rimane come vera e propria forma mentis, un approccio con il quale si hackerano i costrutti per ottenerne una versione capovolta nel contenuto – ma dall’analoga forma – ancor prima della stesura originale. E se già ci sono stati progetti in cui la parodia delle canzoni ha avuto un buon successo (pensate ai brani di Elio e le storie tese o a “M’e’ morto i’gatto” degli Edipo e il suo complesso) bastano qualche dispositivo digitale e un po’ di tempo da gettare alle ortiche che ci si può costruire una professione. Youtube è satura di giovanissimi videogamer che riadattano le hit del momento con strofe piene di tecnicismi presi dallo slang dei giochi più in voga, parodie da decine di migliaia (se non milioni) di visualizzazioni a dimostrazione che c’è un nuovo mercato pronto da spremere e servito su un piatto d’argento. I miei alunni vanno matti per questa roba immonda e quando gli chiedi che musica ascoltano o di proporre una canzone per far conoscere ai compagni i propri gusti, eccoli con l’ultima versione di un brano di Rovazzi o Sangiovanni che trasuda neologismi del calibro di shoppare, pigman, crafta, pvp, creeper eccetera. A onor del vero sono i maschi che prediligono queste schifezze, perché le bambine vanno dritto al punto e chiedono senza peli sulla lingua di mettere i video dei loro eroi di Amici. Posso quindi confermare che la parodia con testi tratti dai videogiochi è ormai un genere musicale fatto e finito e, come si reclama la dignità sportiva per chi passa giornate intere con la console in mano, le parodie avranno prima o poi la loro dignità artistica e riempiranno San Siro.

a volte basta un gesto

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Da quanti anni è in voga la trap tra i giovanissimi? Anche troppi, direte voi. Ma se siete ascoltatori attenti come me vi sarete accorti che le cose sono cambiate moltissimo. Sono cambiate alla velocità della luce come tutte le cose che cambiano ai nostri tempi grazie o per colpa di Internet, dei socialcosi e di tutta quella roba lì che ha ridotto la scala delle distanze spazio-temporali a un nanosecondo contro le settimane e i mesi e gli anni di una volta. Comunque, per farla breve, la narrazione delle gang di periferia, della droga, dei disadattati e del nichilismo dei giovani annoiati tutti brand di lusso e Tesla ha lasciato il posto a un poppettone, per non dire polpettone, in cui il flow somiglia sempre più a una melodia (grazie al demone dell’autotune) e la trasgressione si è ridotta a smancerie – a volte da macho altre da personalità sensibili e fragili – ma sempre rivolte alla donna amata. Un trend di cui è facile accorgersi osservando le dodicenni cantare a memoria le strofe velocissime dei loro beniamini mimando le movenze che è facile ritrovare nelle versioni video dei brani su Youtube. Osservatele fuori da scuola, gobbe sul loro smartphone, doppiare all’unisono le parole sull’audio della cassa del telefono che sembra più un ronzio che un vero suono. Mi chiedo che cosa possano provare, usi alla bassa qualità, a mettere le loro canzoni preferite sull’impianto hifi di mamma e papà. Le ascolto cantare le rime veloci della trap e mi chiedo se anche loro, come i cantanti che ascoltano, a forza di usare così male voce e respiro un giorno avranno bisogno di un buon logopedista. Ecco, peggio della pop/trap di oggi c’è solo il pubblico della pop/trap che canta sui brani originali riprodotti sul telefonino. Ma meno male che si tratta di un genere dai giorni contati, almeno come lo conosciamo. Lo ha detto un tizio su un blog, e voglio dargli credito.

seconda casa

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Piove ogni giorno alla stessa ora, c’è gente che sfreccia in monopattino ovunque, ce ne sono altre che camminano in fretta con la mascherina. Se qualcuno dall’altra parte del pianeta si chiedesse che cosa succede dall’altra parte del pianeta, cioè qui da noi, questo potrebbe essere l’inizio di una storia. Ma mi accontenterei se fosse il testo di una risposta da inserire nella seconda edizione del libro che raccoglie molte delle e-mail che ho inviato dalla casella di posta dell’ufficio in cui lavoravo prima. D’altronde la letteratura epistolare è vecchia quanto la scoperta che si possono tessere relazioni a distanza. Ora si fa presto, grazie a Internet, ma non per questo le conversazioni in differita come le conoscevamo prima sono cessate. Il mio editor ne ha approfittato per togliere quelle più laconiche, con risposte tipo “perfetto, grazie” oppure “ok” ma, a onor del vero, erano davvero poche. Impegnarsi nella scrittura in modo cordiale ed esaustivo, oltreché puntando sulla correttezza della forma, può aprirvi molte opportunità in questo caos di scrittori e self publishing. Ho insistito però affinché fosse mantenuto un ricco scambio raccolto in un’unica e-mail in cui, a causa di inoltro a terzi estranei al carteggio, avevo lasciato per errore un paio di considerazioni poco rispettose dell’interlocutore. Si trattava di un cliente e per fortuna che non sono state mai lette dall’interessato, probabilmente avrei perso il posto. Peraltro il format, un po’ come accaduto per le lettere degli apostoli o le ultime – più celebri – di Jacopo Ortis, è molto più accessibile rispetto a un romanzo e se proprio non trovate uno spunto su cui lavorare ve lo stra-consiglio per tenere alta l’attenzione sulla vostra attività. Sto lavorando proprio a un romanzo su uno scrittore che fonda la sua nuova vita post-pandemia dando alle stampe un po’ di scambi sui social a cui si è dedicato durante lo scorso lockdown. Ora sono al punto in cui, terrorizzato dall’imminente nuovo blocco totale per la variante delta, decide di trasferirsi nella seconda casa, cosa che io non farei mai perché non ho una seconda casa e, nel caso, non saprei con che mobili arredarla. Dice mia moglie che un conto è affittarla, un conto possederla e personalizzarla. La proprietà infatti induce le persone a considerarla una sorta di emanazione dei principali spazi che siamo abituati ad abitare. Pensavo di attribuire al protagonista una turba causata dal remote working, quella di tenere la mascherina per non sentirsi costretto a indossare un ponte di denti finti e poter parlare da solo, per strada. Vedremo.

ho sbagliato bambino

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Non c’è nulla che metta ansia a un insegnante ansioso come l’uscita da scuola, quando il capannello di parenti forma un emiciclo in prossimità del cancello e il maestro restituisce, uno per uno, i suoi alunni ai rispettivi nonni genitori zii o chiunque abbia una delega depositata in segreteria, con tanto di foto, documento d’identità, autorizzazione controfirmata e lasciapassare A38. Qualche tempo fa c’era in giro una pubblicità della Volkswagen in cui un bambino faceva finta di salire su una T-Roc di un altro genitore per darsi delle arie con i compagni, ne ho scritto qui ma purtroppo il video è stato rimosso da Youtube. A me aveva colpito proprio perché se accadesse che un genitore ritirasse un figlio che non è il suo si scatenerebbe – giustamente – l’apocalisse. Il docente deve osservare attentamente chi si propone di prendere il bambino sulla rampa di lancio verso la libertà dalla scuola e, come quei giochi di memoria in cui bisogna collegare le carte scoperte, deve sincerarsi con se stesso che i due termini della coppia coincidano. Potete immaginare il delirio quando un insegnante ha una classe nuova, oppure nei casi in cui fa supplenza e accompagna dopo l’ultima ora un gruppo che non è il suo. Bisogna fidarsi dei bambini, bisogna fidarsi di chi si sporge verso il centro dell’emiciclo perché è il suo turno o X? Senza contare il fatto che un docente deve ispirare fiducia, sapere il fatto proprio e smistare con sicurezza ogni prole alla relativa collocazione. Talvolta ci si trova a bluffare di fronte a un prozio o al vicino di casa incaricato dalla mamma perché bloccata al lavoro o altri rimescolamenti di questo tipo, sperando che tutto fili liscio. Per questo, quando ho letto la notizia del nonno che ha sbagliato bambino all’asilo, si è aperto un varco di terrore dentro di me. Si è concretizzata infatti una delle mie peggiori paure, ancora più terribile di quella che avevo da piccolo dopo aver visto il film “Lo squalo”, quando temevo che passasse sotto casa una bisarca con rimorchio trasportante un gigantesco predatore testé pescato il quale, in preda a un energico istinto di sopravvivenza, balzava nella mia cameretta sfondando la finestra e, una volta dentro, mi inghiottiva in un solo morso. Ma i nonni, lo dico per cameratismo anagrafico, a volte sono un po’ rincoglioniti, magari mettono troppa sambuca nel caffè dopo pranzo o quel giorno hanno lasciato occhiali e Amplifon nel bagno del circolino dove giocano a burraco. Non siate troppo duri se qualche anziano confonde un bambino con un altro considerando che, diciamocelo, a quell’età i nostri mocciosi sono un po’ tutti uguali. Quando mia figlia era appena venuta al mondo e sonnecchiava inconsapevole del miracolo di cui era stata appena protagonista nella nursery insieme alle altre decine di neonati di quel giorno, ricordo di aver mostrato allo zio di mia moglie, venuto a trovare la nipote puerpera, la bambina a fianco di quella che avrei dovuto indicargli. Non avevo colto la differenza, questo per dirvi che può capitare a tutti. Non ho mai raccontato a nessuno questo aneddoto, e mai lo farò in vita mia. Statene certi.

scuola ufficio

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Il laboratorio digitale organizzato per il piano scuola estate è frequentato da tre gruppi di bambini della primaria e due di alunne e alunni della secondaria. Ho strutturato oil programma per gli studenti più grandi in modo più articolato pensando che, tra DAD e abilità con i dispositivi personali, sapessero già fare molto e riuscissero a imparare con maggior facilità. Ho previsto così una serie di approfondimenti sui più diffusi tool per la presentazione dei contenuti, a partire da quelli che la piattaforma di DDI che utilizziamo a scuola mette a disposizione, a cui ho aggiunto un po’ di pratica con Canva che, ad oggi, non teme confronti per il confezionamento di contenuti in modelli pronti all’uso. Il percorso si chiuderà con WordPress e l’introduzione alla creazione di siti con il più completo sistema di CMS. Si tratta di un programma pensato a supporto della didattica. Considerare grafica e impaginazione come parte integrante delle attività che si fanno a scuola è un approccio decisivo per formare i giovani sul ruolo dell’informatica oggi, imprescindibile in qualunque settore – a partire dallo studio – e non più appannaggio degli informatici. Certo, una predisposizione a smanettare aiuta, e sotto questo profilo i ragazzini che hanno partecipato mi hanno sorpreso per approccio. Peccato solo per Lorenzo, che ha dato forfait perché l’ho ripreso per cercare immagini inappropriate sui pc della scuola durante le mie lezioni. Gli ho fatto notare che a casa può anche stare tutto il tempo su Pornhub, ma qui a fare certe bravate si fa la figura dello sfigato. Non ho usato proprio queste parole, ma il senso c’era. A parte il suo caso, il resto si mette a lavorare a testa bassa sui portatili del laboratorio e non li senti più. Ho dato loro in pasto un documento interno della scuola da risistemare graficamente, e da quel momento non è più volata una mosca. Una situazione anomala per un contesto didattico. Trascorso qualche minuto mi sono persino preoccupato. Abituato al disturbo continuo di sedie che si spostano, astucci che cadono, interventi fuori luogo, richieste di andare in bagno, gente che si alza per temperare la matita e molto altro delle classi della primaria, ho osservato i partecipanti al laboratorio chini sulla tastiera ed è stato inevitabile il richiamo all’atmosfera che si respira in un ufficio. Il bello della scuola è proprio il fattore umano, che è fatto soprattutto di parole, odori (spesso poco gradevoli) e movimenti. In quel clima asettico ho ritrovato invece un gruppo di persone orientate a raggiungere un obiettivo, prendendo controllo il più possibile dello strumento a disposizione e perdendo il contatto con l’ambiente circostante. Ho chiesto loro, così, se preferissero lavorare con un po’ di musica di sottofondo ma sono stato sommerso da occhiate di scetticismo, forse pensavano che avrei messo canzoni da boomer.

in famiglia siamo tutti degli artisti

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“In famiglia siamo tutti degli artisti” è il testo dell’adesivo più in voga del momento, una sorta di tormentone estivo appiccicato sul portellone posteriore delle automobili che sta prendendo il posto delle silhouette degli occupanti del veicolo con il nome sotto e che però consentiva, ai più curiosi, di stanare le scelte più bizzarre per chiamare figli e animali domestici. Per puri scopi statistici ho fatto un giro nel parcheggio della Coop per capire quanto questa moda stia prendendo piede. Non vi faccio vedere i miei appunti ma fidatevi, prima o poi li pubblicherò dopo averli ordinati. Ero lì con il Tenente Colombo perché aveva appena terminato le riprese dello spot, quello in cui cerca il cane che si perde nei magazzini della Coop e così tempesta di domande – pura deformazione professionali – commessi e operatori per sapere dove vanno a prendere quella frutta così buona. Nella pubblicità della Coop fa pure una comparsa Mario, il marito di Enrica, quello che si è tatuato il numero 10 di Maradona sulla schiena a grandezza naturale, proprio come se fosse una maglietta tessuta di pelle umana. Sono queste le considerazioni che mi hanno fatto pensare che, in fondo, è vero quello che si dice sull’adesivo di cui parlavo prima. In famiglia siamo tutti degli artisti, e prima o poi ci ritroveremo in un’occasione come quella, proprio come è capitato a me.

per me è un sì

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Risulta incredibile la quantità di occasioni in cui mi ritrovo allo stesso semaforo, all’ora in cui rientro a casa da scuola, fianco a fianco con un tizio con uno zaino Invicta sulla schiena a bordo di un motorino Sì Piaggio. Colpisce l’esiguità dei volumi del mezzo, paragonata agli scooteroni e ai motocicli che vanno di moda adesso. Il Sì Piaggio, tanto quanto il suo fratello maggiore Ciao, ha un ingombro di poco superiore a un monopattino elettrico e, nel traffico, colpisce per il senso di precarietà che trasmette soprattutto in un contesto di ordinario traffico suburbano, e non certo di un raduno di nostalgici di antichità a due ruote. Potrebbe trattarsi di uno studente appena uscito da una scuola secondaria dei paraggi, o qualcuno che rientra dal lavoro e che si è appassionato ai veicoli impiegati in gioventù dei propri genitori. Magari gli piace pasticciare con i motori e se l’è rimesso in sesto da solo, nel garage di casa. Ma una parte di me, quella più autorevole, è seriamente convinta che il giovane uomo sul Sì Piaggio sia una sorta di emissario degli anni 80, un agente segreto in grado di viaggiare in motorino in lungo e in largo nel tempo, al soldo di qualcuno che lo paga per seguirmi e scoprire dove mi nasconda.

revisione

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Trovo l’officina uno degli ambienti più ostici. Preferirei qualunque cosa rispetto ad avere a che fare con un meccanico. Fondamentalmente perché non ho alcuna possibilità di instaurare una relazione e non ho mai conosciuto un meccanico che si sia messo nell’ottica di spiegarmi – anche a grandi linee –  quello che si appresta a fare. La revisione era scaduta da un pezzo ma per fortuna la pandemia ha messo tutto in stand-by quindi non preoccupatevi, potete anche farvi dare un’occhiata con calma prima di partire per le vacanze. Mi ero accorto che il sensore genetico, quello che mantiene il contatto con la parte di noi presente nella nostra prole, gracchiava e la trasmissione e ricezione dei segnali non era più limpida come dovrebbe. So che ogni dieci anni va cambiato ma sul libretto c’è scritto che è meglio dargli un’occhiata ogni due anni, dopo i primi cinque d’uso, e comunque occorre tenerlo sempre sotto controllo. Se il vostro meccanico di fiducia non ve lo propone, chiedetegli di mostrarvelo. Il mio aveva il coperchietto trasparente della capsula tutto ossidato. L’ho fatto risistemare e mi sono accorto subito della differenza. Ieri ho scritto una cosa sulla Settimana Enigmistica e a pranzo, rientrato da scuola, c’era mia figlia che risolveva un cruciverba di quelli più ampi, presenti verso le pagine finali della rivista che vanta quello che sappiamo bene ed è inutile ripeterlo. Mi ha chiesto un aiuto per completare le risposte alle definizioni più complesse, ero un po’ fuori allenamento ed alcune non le conoscevo nemmeno io. La mia famiglia ha una solida tradizione di solutori che ho interrotto ma che, a quanto ho appurato, potrebbe riprendere pur con un grado in meno di continuità.

centro

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Sviluppata sulla falsa riga dell’omonima prova della Settimana Enigmistica, l’app “Il bersaglio” consente di ottenere una parola completamente diversa da un termine di partenza attraverso una serie di passaggi invisibili al giocatore. Come spiegava ieri sera, tra un tempo e l’altro della partita della nazionale, il facoltoso ingegnere autore del brevetto, funziona come quei giochi in cui una biglia di metallo parte da un punto e percorre un tracciato del tutto casuale lungo una serie di passaggi, binari e gallerie. Il divertimento consiste proprio nel risultato random, che poi è la vera essenza di certi applicativi in voga ma che va ricondotta alla notte dei tempi, basti pensare al mistero dei dadi o delle carte da gioco. In studio, oltre a Paola Ferrari, che si distingueva come sempre per il trucco degli occhi sopra le righe, c’era il pianista Massimiliano Bandiera a testimoniare l’efficacia dell’invenzione. Il suo cognome avrebbe dovuto essere lo stesso di un attore spagnolo passato alla storie per una serie di spot con le galline, un fattore che potrebbe sembrare banale al netto del rapporto di parentela diretto con Memo Remigi, di cui è il secondogenito e che non ha saputo ricordare da quale parola fosse partito. L’ispiratore di chissà quante storie romantiche riconducibili alla bizzarria di provare sentimenti di affetto nella metropoli lombarda ha però poi lanciato il suo nuovo singolo e peccato che, nel passaggio televisivo, sia stato sfumato nella pubblicità. Avreste potuto tutti rendervi conto del palese rimando a quel brano che avevamo composto io e l’amico Marco, quello che paradossalmente somiglia a Memo Remigi molto di più di Massimiliano Bandiera, e che andava dicendo di avere uno zio che, per lavoro, faceva il manager per alcuni comici dello Zelig. Non ho chiesto a Marco perché non ne avesse mai approfittato, e di certo un’occasione come quella di ieri sera non mi capiterà mai più.