fate finta

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Ogni calendario editoriale, in questi giorni, non dovrebbe esimersi dalla ricorrenza dei tragici fatti del G8 di Genova. Vent’anni fa si è consumato un episodio di una gravità inaudita, non a caso si parla di sospensione della democrazia e dei principi della costituzione. Nel luglio del 2001 vivevo ancora a meno di un km dai confini della madre di tutte le zone rosse, nei pressi della stazione di Genova Principe. Era tutto diverso e non saprei da dove iniziare per spiegarmi il perché. Il bello di tenere un blog da tanti anni è che, quando vuoi scrivere qualcosa su qualche argomento, sicuramente lo hai già fatto. Così ho trovato questa specie di racconto, pubblicato in occasione del decennale degli scontri, in cui avevo raccolto una serie di reminiscenze di allora. Inutile dire che mi ero scordato di alcuni dei dettagli che avevo scritto, e rileggermi oggi è stato ancora più toccante di quanto pensassi, non certo per la mia prosa ma per ricostruire le poche cose di cui ero stato testimone.

Ieri sera Raitre ha trasmesso il “Concerto ritrovato” di De André e la PFM, un documento di un forte valore artistico e storico che, nel caso ve lo siate perso, potete rivedere qui. Che cosa c’entra con i fatti del G8? Nulla, se non perché è la registrazione di una tappa di quel tour pazzesco tenuta al Palasport di Genova, ora al centro di una ristrutturazione insieme a tutta l’area fieristica. Nel film si vedono un po’ di caruggi, si vede De André, e per questo ho inteso la prima parte del palinsesto serale del 20 luglio di RaiTre come un tentativo di rendere omaggio a una città sfregiata senza ritorno dagli eventi di vent’anni prima. Un’amica su Facebook però mi ha fatto riflettere sulla scelta di mostrare una testimonianza così toccante – non solo per un genovese – proprio nell’anniversario della morte di Carlo Giuliani, commentando l’iniziativa con “la Genova che fa comodo trasmettere”. Ieri sera ci sono rimasto un po’ male, ma a freddo mi sento di darle ragione. Avrei preferito che RaiTre invertisse la proposta dei due programmi della serata, le due facce della mia città, facendo precedere il concerto di PFM e De André con il reportage “Frontiere” dedicato proprio al G8 di allora, in alcuni passaggi un po’ paraculo ma, nell’insieme, sufficiente per chi è ancora a digiuno di quanto successo.

Un’ultima cosa. In quei giorni di luglio del 2001 e nelle settimane che seguirono ho tenuto tutti i quotidiani e le pubblicazioni con cui mi informavo. Uno scatolone di copie de “Il Manifesto”, “Carta”, “Diario”, “Internazionale” e “L’Espresso” che conservo tutt’ora. Qualche giorno fa sono sceso in cantina con l’intenzione di portarmi tutta la rassegna stampa in casa, fare un po’ d’ordine nel materiale e digitalizzare il tutto per dare il mio contributo alla ricorrenza. Ho scannerizzato e passato con l’OCR qualche articolo fino a quando ho notato una specie di vignetta, una di quelle cose che oggi vanno tanto di moda sui social. Carlo Giuliani morto, una chiazza di sangue sull’asfalto a forma di stivale, lo slogan “L’Italia che ho in mente” in voga allora. Ho rimesso tutto via, ho riportato lo scatolone in cantina e ho pensato che non sono ancora pronto. Fate finta che l’abbia fatto. Vi rimando così all’iniziativa di Indymedia e alla sua macchina del tempo che sta riproponendo tutto, come allora, e molto meglio di come avrei fatto io. Per quanto riguarda me, ci rivediamo tra dieci anni.

latte e vaccino

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Uno degli aspetti negativi dell’aver cinquant’anni oggi è che ho buone possibilità di perdermi il finale dei complotti orditi negli ultimi decenni alle mie spalle. Su tutti, quello delle case farmaceutiche che un giorno domineranno il mondo, obiettivo che ora è sicuramente più prossimo grazie al controllo che esercitano sulla popolazione mondiale e sull’economia dopo l’inoculazione massiva del vaccino spacciato come anti-Covid19. Mi spiace anche perché vorrei avere maggiori dettagli su quale sia il mio ruolo passivo, in tutto questo. Mi sono sottoposto alle due dosi di Astrazeneca ma non riesco a trovare, nel database sottratto a Facebook dagli hacker russi, una corrispondenza tra il mio codice di somministrazione e ciò a cui sono predestinato. Quando l’AD di Big Pharma regnerà incontrastato sul creato io sarò già come uno di quegli scheletri che vedrò quest’estate a ETRU, il Museo Nazionale etrusco di Villa Giulia e Villa Poniatowski di Roma. Anzi no, chissà se lo visiterò, considerando che a fine luglio, data in cui ho pianificato l’inizio della vacanza, è tutto da vedere se sarà aperto e se potrò partire. I contagi causati dalle varianti del virus sono in rapida ascesa e le previsioni per agosto si attestano su 30mila al giorno, numeri ovviamente dati da chi ha pianificato l’altro grande complotto parallelo, quello che ci vuole tutti chiusi in casa agli arresti domiciliari e senza discoteche. Chissà come sarà la vita nel duemila e cinquanta, quando appunto per le strade circoleranno solo mezzi automatici a benzina per arricchire le lobby del petrolio, che sicuramente sono in combutta con le altre di cui sopra, mentre nelle loro abitazioni le famiglie – composte da genitori dello stesso sesso come imposto dalle lobby gay – vivranno la loro vita di clausura e potranno approvvigionarsi beneficiando delle sole consegne di Amazon, dato che nel frattempo avrà divorato tutto il resto delle attività commerciali del pianeta. Un futuro distopico e ucronico ma, soprattutto, da perfetti imbecilli, degno di quelli che scelgono di non vaccinarsi. Vi lascio con questa storiella: una ragazza, mia figlia, aveva vinto una borsa di studio per puro miracolo, considerando l’ISEE di famiglia, un soggiorno studio a Città del Capo. Ma la campagna vaccinale è rallentata, i contagi sono risaliti e, una settimana prima della partenza, tutte le iniziative di questo tipo sono state sospese. Questo dopo che lei, come decine di migliaia di ragazzi, si è smazzata nella sua stanzetta mesi e mesi di scuola al computer. Avete mai partecipato alle lezioni in DAD? Siete mai stati privati dei vostri compagni di classe, dei vostri amici e della vostra gioventù? Loro, i nostri ragazzi, loro sì che potranno scoprire come andrà a finire, ma sulla loro pelle. Ecco. L’unico vero complotto, pianificato alle spalle di voi che non vi volete vaccinare, è quello che spero prima o poi organizzeranno i vostri parenti e amici con l’obiettivo di mandarvi affanculo.

Passpartù – Premiata Forneria Marconi

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Metti insieme un passe-partout e Re Artù, i disegni di Andrea Pazienza, qualche retaggio di rock sinfonico, la tradizione popolare e tutto quello che lo tsunami del 77 ha appena portato a galla. Il risultato? Una PFM in cerca di identità alle prove con il nuovo che avanza.

Sembra un paradosso ma “Passpartù”, per alcuni un vero buco nero nella discografia della PFM, è forse l’album della band che riflette di più il momento storico in cui è stato pubblicato, e non solo per l’artwork di un Andrea Pazienza agli albori della sua carriera. Un’epoca di ingenue ma significative sperimentazioni, crocevia di generi oramai superati e di fermenti pronti a esplodere di lì a poco.

Il disco, uscito nel 1978, costituisce inoltre la testimonianza di quanto il punto di forza della più celebre formazione del nostro panorama progressive si sia improvvisamente rivelato un limite, in un mondo e una società che si stava radicalmente trasformando. La Premiata Forneria Marconi è una delle poche band della storia della musica priva di un frontman, un leader carismatico, una primadonna, caratteristica in cui risiede una delle chiavi del loro successo. Negli album degli esordi, quelli che hanno reso la loro musica immortale, cantano tutti, e privare i fan di una figura di riferimento in cui identificare il brand sembra davvero l’ultimo dei problemi. Non importa se non c’è un Peter Gabriel o un Ian Anderson, un cantante vero e proprio che metta la sua faccia sulla carta d’identità del gruppo, qualcuno in piedi di fronte al pubblico pronto a farsi da parte con uno strumento in mano (o una grancassa di rappresentanza davanti, non amplificata per evitare pasticci con le parti già sin troppo elaborate di Phil Collins) nelle lunghe suite strumentali tipiche del genere musicale professato.

Nella PFM non milita nemmeno un Francesco Di Giacomo, con una voce e un timbro così particolare e una portata intellettuale da assurgere a elemento rappresentativo del gruppo. Nella loro prima fase artistica sono Mussida, Premoli e Pagani che si alternano – con ottimi risultati – al microfono e spesso è Di Cioccio a introdurre i brani dal vivo. L’assenza di un cantante puro lascia spazio a tutti, un approccio vincente totalmente in linea con la filosofia del progressive vero, in cui la musica e gli strumenti – voce compresa – sono gli unici protagonisti, senza tanti fronzoli.

Il successo internazionale ottenuto grazie alla riproposta dei loro primi album adattati ai testi in inglese di Peter Sinfield, già paroliere dei King Crimson, con versioni parzialmente ripensate per un gusto più angloamericano (i primi approcci oltremanica furono tacciati di eccessiva italianità dalla stampa britannica) favorisce l’incontro tra la formazione storica della PFM e Bernardo Lanzetti, un cantante con un passato negli Acqua Fragile che, grazie agli studi in USA, se la cava bene con la lingua del rock.

Succede però che i due album pubblicati con questa line-up, “Chocolate Kings” e “Jet Lag”, coincidano con la fine dell’epopea del progressive. Il primo suona tutt’ora sopra le righe, se paragonato ai primi lavori, mentre il secondo – a mio giudizio uno dei migliori della storia della PFM – spinge verso atmosfere jazz-rock, complice l’uscita di Mauro Pagani e l’ingresso del violinista americano Greg Bloch, un cambio di marcia che avvicina la PFM alle sonorità dei Weather Report. Nel frattempo è già il 1977 e il gusto del pubblico sembra virare agli antipodi.

La Premiata Forneria Marconi non passa indenne dalla damnatio memoriae nei confronti del rock sinfonico imposta dai fermenti sociali che dilagano in Italia, gli stessi che indeboliranno gli argini da cui tracimeranno fenomeni come il punk e i nuovi movimenti di autonomia culturale. Lanzetti sfoggia comunque una personalità artistica originale e di indubbia qualità – aspetti che emergeranno anche nei lavori solisti successivi – e, con la collaborazione del cantautore Gianfranco Manfredi, contribuisce a posizionare le nuove composizioni del gruppo entro i confini dei contenuti di quella che è la musica italiana del momento, un ruolo in cui il resto dei musicisti però non sembra sentirsi perfettamente a proprio agio.

“Passpartù” risulta così un ingenuo mix di canzonette intelligenti (“Se fossi cosa”) che strizzano l’occhio a quel che resta del progressive (“I cavalieri del tavolo cubico” e “Su una mosca e sui dolci”) e la musica popolare (“Viene il santo”), genere nel pieno di un vero boom di notorietà (pensate al Duo di Piadena che aveva partecipato pochi anni prima a Canzonissima). Senza contare la nostra canzone d’autore: non a caso “Passpartù” costituirà il trait d’union tra il background della PFM e il repertorio di Fabrizio De André, artista per il quale il gruppo aveva già prestato la propria tecnica strumentale suonando ne “La buona novella”. Gli arrangiamenti di “Svita la vita” e della titletrack sembrano anticipare certe soluzioni d’effetto con cui la PFM reinterpreterà – di lì a poco – canzoni come “Bocca di rosa” o “Il pescatore”, sulla carta veri e propri mostri sacri e intoccabili ma a cui la band di Mussida, sopra a ogni pronostico, riuscirà ad aggiungere un valore inestimabile.

In generale un album quasi completamente acustico, privo di chitarre elettriche e synth, con alti e bassi che conducono al pezzo di chiusura (“Fantalità”), una traccia da skippare senza pietà, se non per certe trovate che – a posteriori – ci ricordano curiosamente Elio e le Storie Tese.

“Passpartù” prima e il successo degli album live con De André, pubblicati nel biennio successivo, gettano anche le fondamenta per il nuovo corso che la Premiata Forneria Marconi inaugurerà a breve giro. L’esperienza cantautorale, una fase – vista da qui – tutt’altro che di transizione, renderà meno traumatico l’incontro della band di Di Cioccio con gli anni 80 e li renderà più resilienti al rock urbano (e lezioso) che li porterà ad album come “Suonare suonare” e “Come ti va in riva alla città”, prima di tornare a incarnare la loro essenza nel fenomeno di culto progressive di cui sono stati oggetto, nel nuovo secolo, in tutto il mondo.

la canzone scomposta

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Non mi piace citare me stesso – cioè in realtà mi piace molto ma sono troppo umile per ammettere di non essere umile – comunque tempo fa, in una recensione a caldo delle canzoni del Festival di Sanremo, ho definito il pezzo “Voce” di Madame una canzone scomposta. Un giudizio che mi è venuto di getto e che non saprei spiegare se come un modo di affrontare la creazione musicale non come somma di parti, da cui, appunto, la composizione, piuttosto come una sovrapposizione delle stesse che, messe come intralcio l’una dell’altra e non in sequenza, vanno a contaminarsi a vicenda nei punti in cui si soffocano reciprocamente. Sotto a “Voce” c’è una griglia tutta storta fatta di celle i cui bordi non coincidono, tanto che la geometria tradizionale della musica, quella che ci fa andare a tempo e che ci beneficia di schemi grazie ai quali riusciamo a prevedere ciò che succederà subito dopo, fa a farsi friggere. Il punto è che questo lavoro di destrutturazione sembra non essere avvenuto a posteriori, non credo che sia frutto di un arrangiamento pensato per eccellere in originalità. Sono convinto che gli autori della generazione di Madame abbiano proprio questa libertà artistica nella testa e, di conseguenza, nelle melodie, nelle armonie e nelle parole. Nessun essere umano riuscirebbe a rendere tangibile una metrica di versi come quella, a meno di non aver mai avuto influenze culturali da ciò che c’è stato prima. Per una volta i giovani artisti sembrano davvero liberi da tutto, anche quando fanno del poppettone melenso da classifica come quello e non musica a elevato tasso di complessità e difficile da sostenere. Noi invece li ascoltiamo alla radio o di strascico perché li ascoltano i nostri figli e finalmente possiamo non capirli più, abbandonarli al loro nuovo ordine mondiale e tornare al nostro passato fatto di cose che interessano solo a noi. Poi però succede che qualcuno cerca di appesantire questi nuovi fenomeni con delle zavorre di cui secondo me gente come Madame farebbe anche a meno. Spero infatti che l’esser stata insignita del premio Tenco come miglior canzone non le faccia né caldo né freddo ma viva la cosa come se una vecchia zia le avesse regalato un capo di abbigliamento vintage ricamato a mano ma destinato alle tarme, ai tempi dell’elastan e di Primark.

ricrescita

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La scuola è grande e tra colleghi non ci conosciamo tutti, un po’ come accade in certe multinazionali con headquarter e filiali. Qui c’è la sede principale con la presidenza, gli uffici amministrativi e la secondaria di primo grado. Poi ci sono i plessi della primaria e quelli dell’infanzia in distaccamenti veri e propri. Prima del Covid si tenevano i collegi docenti plenari in cui almeno potevamo incontrarci tutti di persona. Poi è subentrata la pandemia e, da allora, vediamo solo la faccia in videoconferenza di quelli di noi mostrati random dalla piattaforma che utilizziamo, sempre che si tenga la videocamera accesa. Qualcosa però mi dice che, quando anche un giorno il pericolo di contagio cesserà, continueremo a mantenere la stessa modalità perché, oggettivamente, è più comoda. Ma se aggiungiamo anche il fatto che ogni anno è un continuo via vai di docenti tra precari, supplenze e trasferimenti, il turn-over estremo impedisce di consolidare amicizie professionali oltre il proprio metro quadro, senza contare che – anche ne migliore dei casi  – non è per niente facile. Non è come nelle aziende normali, in cui al netto della competizione per far carriera non è raro che nascano forti legami. Qui c’è moltissima umanità rispetto ai lavori orientati al profitto del datore di lavoro, però la mediazione degli studenti e le loro incessanti richieste di attenzione favoriscono la dispersione della portata relazionale degli insegnanti tanto che poi difficilmente, al termine della giornata lavorativa, ci si va a fare una birra tutti insieme. Qualche settimana fa ho passato un po’ di tempo, tra una lezione estiva e l’altra, con una collega che prima conoscevo solo di nome. Ho intuito solo dopo qualche scambio su esperienze molto simili che fossimo coetanei e gliene ho chiesto conferma. Non ci sarebbe nessun problema se non per il fatto che, prima di saperlo, ero certo fosse molto più grande di me. Una stima che, a pensarci a mente lucida, non ha senso. Ho 54 anni e molto più grande di me, alla mia età, significa 65/70 anni suonati. Mi vergogno di non riuscire a dare un’età al prossimo ma sono convinto che non si tratti di un problema di incapacità di focalizzare e trovare la sintesi o, peggio, di una considerazione anagrafica deviata che ho di me stesso. Anche se mi compro dischi di band i cui componenti hanno trent’anni meno di me non significa – almeno spero – che mi creda un irriducibile adolescente. Sono consapevole della mia età ma credo che l’essere anziani nel modo in cui pensiamo siano gli anziani sia una condizione culturale. E comunque si tratta di un modo di sentirsi che abbiamo tutti. Mia mamma mi dice spesso di percepirsi come la stessa persona di quando aveva 18 anni, poi si guarda allo specchio e vede un’anziana di 84 anni e resta delusa. Con la mia collega coetanea però abbiamo parlato di argomenti da anziani, e questo è ovvio perché, tutto sommato, siamo abbastanza anziani. Al termine della conversazione ero ancora più convinto della mia opinione, e cioè che non mi interessano le cose da vecchi e non mi riferisco alle malattie, ai nipoti o a com’era meglio quando eravamo giovani noi rispetto al presente. Voglio continuare a parlare di post-punk, di letteratura americana, di politica, di comunicazione digitale, argomenti per i quali pensavo fosse fondamentale la data di nascita, quanto hai già vissuto e il periodo che hai vissuto. Evidentemente non è così.

le ferie, spiegate bene

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Non è scritto da nessuna parte che le ferie debbano coincidere con l’inizio e la fine di una vacanza o di un viaggio. Anzi, sono convinto che trascorrerle dal primo all’ultimo minuto fuori da casa propria sia controproducente. Mettersi in viaggio il primo giorno di ferie significa giungere stremati al momento della partenza, perché nei giorni precedenti i preparativi si sommano con la chiusura delle cose da fare al lavoro. Per non parlare del rientro in ufficio la mattina successiva al ritorno a casa dopo un viaggio. Ve lo dico perché l’ho fatto per anni e non solo non mi sono mai goduto appieno i due momenti, ma i primi giorni di ferie e gli ultimi li ho sprecati come periodo di decompressione per adattarmi alle condizioni precedente e successiva. Soprattutto, riprendere il lavoro così è a dir poco traumatico.

Il problema è che due o tre settimane di ferie in un anno sono davvero poche e così pensiamo erroneamente che il modo più fruttuoso di estendere al massimo la durata sia quello di farle coincidere il più possibile con un viaggio o un soggiorno altrove, ignari del fatto che le ferie sono, prima di ogni altra cosa, uno stato d’animo. Tutto questo sempre che, come me, non facciate l’insegnante ma non è certo questo il luogo per avviare un dibattito su una questione annosa come l’organizzazione della pubblica istruzione.

Quest’anno le cose però non sono andate proprio così. Chi ha voluto – e io ho scelto di farlo – ha potuto mettersi a disposizione per i corsi estivi organizzati dalle scuole su input del MIUR. Giornate di lavoro straordinario (retribuite come extra oltre allo stipendio che già prendiamo e non è certo questo il luogo per avviare un dibattito su una questione annosa come la busta paga dei docenti) e proposte come recupero di quanto perso durante l’anno scolastico per la pandemia. Ogni scuola si è organizzata come ha preferito, in base alle adesioni di studenti e personale. Io ho partecipato per l’intera durata del nostro piano scuola, un mese tondo tondo (dal 14/6 al 14/7) per quattro ore di lezione ogni mattina. Avete letto bene: oggi finalmente sono in ferie anch’io, e lasciate perdere la data di questo post, io li pubblico retrodatati e non chiedetemi il perché, sarebbe lunga da spiegare. Oggi è il quattordici luglio, la ricorrenza della presa della Bastiglia, della mia laurea e ora anche della fine di quest’anno scolastico che è durato un mese in più degli altri.

Ho avuto in classe studenti dai 7 ai 13 anni organizzati in gruppi omogenei, ho preparato micro-programmi da due o tre incontri per seguire un percorso organico indipendentemente dal forte turn-over di alunni che c’è stato e che non era previsto alla partenza. Ho svolto gli argomenti per i quali avevo pianificato il materiale ma ho anche improvvisato per svariati motivi (questo succede anche durante l’anno scolastico vero e proprio). Ho conosciuto colleghi con cui non avevo mai collaborato e alunni visti per la prima volta in questa occasione, e questa è stata la parte più significativa di tutta l’esperienza. Ho affrontato temi di cui mai avrei pensato di parlare in classe. Ho scoperto che in seconda media c’erano ragazzi che non avevano mai visto i Blues Brothers ma anche che non è vero che a quell’età ascoltano solo trap. Anzi, pare si sia riaccesa l’antica fiamma del pop, ne parlano anche qui, e sono felice di aver preso una cantonata preparandomi ad approfondire i loro ascolti preferiti partendo dalla peggio cose che  pensavo gli piacessero. Ho mostrato loro qualche app per fare musica e poco fa uno di loro mi ha mandato una composizione creata in quattro e quattr’otto appena rientrato a casa, poco fa, dopo l’ultimo incontro di stamattina.

Ma ora basta, sono davvero in ferie. Ho un sacco di roba arretrata che va da lavare l’auto a smontare lo scarico del lavandino per recuperare una testina dello spazzolino elettrico, fino a cercare in garage tutta la rassegna stampa sul G8 di Genova acquistata all’epoca e da rispolverare in occasione del ventennale che ricorrerà a giorni. Poi partirò, ma più in là, dopo che mi sarò già abbondantemente sentito in colpa per aver trascorso del tempo inoperosamente. Ma si sa, le ferie sono uno stato d’animo, ed è questo il problema.

lapidario

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Le cose funzionano così. Fai lo sceneggiatore per un importante regista, qualcuno ti consiglia un bel romanzo con una storia in grado di reggere perfettamente la trasposizione per il grande schermo, leggi il libro e confermi l’impressione, sottoponi l’idea al regista con cui collabori, il regista realizza il film e vi ritrovate entrambi in lizza per uno dei principali premi del settore. L’estate però ispira solo storie che trasmettono malinconia e a cui nessuno è interessato. Vicende che abbiano sullo sfondo quartieri residenziali assolati e deserti, luoghi generalmente vitali chiusi per ferie, persone sole che non sanno che farsene delle vacanze, edifici scolastici oggetto di ristrutturazioni interrotte a metà per la pausa estiva e difficilmente terminabili prima della ripresa delle lezioni, amici che partono con altri amici lasciando a casa gli amici di prima, coppie che si sfaldano come nelle isole televisive della tentazione. In generale si fa fatica ad accettare le cose che sembrano sul punto di evaporare e le persone che non sono al loro posto e tutto ci sembra vuoto, un’area archeologica abbandonata a se stessa e alla mercé di tombaroli, turisti poco rispettosi, gite di classe che lasciano il segno con tratto pen e strumenti appuntiti su affreschi e colonne, nell’attesa di rientrare in hotel e tentare la fuga per raggiungere la discoteca più vicina. La scorsa estate ho visitato nell’ordine Ostia antica, Pompei ed Ercolano in un’atmosfera irripetibile a causa delle restrizioni da Covid-19. Anzi, a pensarci bene, se continuate a non vaccinarvi, anche quest’anno ci sono alte possibilità che tutto si ripresenterà tale e quale. Comunque ho camminato sui ruderi di città di duemila anni fa con un caldo torrido e a Ostia, per dire, c’eravamo solo noi, i quaranta gradi all’ombra e gli addetti al sito, donne e uomini in pensione con le divise e i berrettini con la visiera dei Carabinieri che ci hanno rimproverato perché non avevamo una adeguata protezione per il capo. Ho avuto la conferma che ci sarebbero tantissime storie da inventarsi in quei luoghi con i protagonisti dell’epoca, se solo ne sapessimo di più, se solo conoscessimo i dettagli della loro vita quotidiana. Sull’onda dell’entusiasmo per la storia antica quest’inverno ho così seguito, al colmo delle aspettative, la serie tv dedicata alle origini di Roma, cercando di cogliere al netto della vicenda principale che cosa facevano le comparse sullo sfondo. Non solo, quindi, i guerrieri secondari alle prese con l’ordinaria violenza in battaglia, ma donne, uomini, anziani, bambini, persone normali che sullo sfondo di eroi e re forgiavano metalli, portavano l’acqua, chiacchierano sulla soglia delle loro capanne. Mi sono chiesto quanta cura dedichino registi e sceneggiatori a dettagli di questo tipo. Quest’anno abbiamo organizzato un viaggio analogo ma ancora più indietro, nella storia degli Etruschi. La sfida è ancora più difficile perché l’arte è al riparo nei musei e il resto sono tombe e poco più e mi chiedo che cosa si potrebbe inventare, per un film, considerando una base di partenza così vaga. Necropoli e urne vuote. Molto più semplice lavorare a una versione tv della Divina Commedia, magari con le atmosfere dark che solo certe serie americane o nord-europee di successo riescono a rendere. Tre stagioni da undici episodi ciascuna più un prologo, ogni puntata divisa in tre parti, personaggi e storie attualizzate, colonna sonora che attinge a piene mani dalla produzione contemporanea. E poi c’è un copione già fatto e finito e che pare aver avuto un discreto successo, nel tempo. Ci vorrebbe anche una sigla ad hoc, una di quelle che, malgrado il binge watching, non skippiamo per passare subito alla visione dell’episodio ma su cui ci soffermiamo, ogni volta, per calarci nel mood e prepararci meglio a quello che sta per accadere.

background

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Il mio compagno di banco si chiamava Roberto come me e come milioni di altri Roberti nati negli anni sessanta. Ci ha messo cinque anni a finire le medie e io me lo sono ritrovato in classe in terza. Gli ho dato una mano a preparare l’esame perché era simpatico ma anche perché la sua famiglia gestisce tutt’ora la pizzeria migliore della città. Studiavamo da lui e a merenda ci servivano spesso una margherita preparata alla napoletana, accompagnata da un bicchiere di Pepsi con ghiaccio e limone. Quando ho saputo che la figlia di uno dei masterchef frequenta lo stesso liceo della mia ho pensato così al menu delle festicciole che darà per i suoi compagni di classe, sempre che una celebrità di quel livello dia delle festicciole, si presti a far da mangiare per gli invitati e che la figlia abbia degli amici. Spero si noti la fortissima invidia per chi può dire di avere un genitore di quel rango. Per questo stesso motivo non credo che, quando si presenterà l’occasione, sceglierò di tenere il quadro che sovrasta il letto in cui dorme mia mamma, un dipinto che si sono regalati lei e mio papà molti anni fa e che ha accompagnato buona parte della loro vita matrimoniale. Perderò la possibilità di mettere le mani su un’opera di grande valore affettivo e di poche decine di Euro ma proprio non mi piace, a differenza del quadro che mi ha regalato la zia di mio padre, mia madrina nel paio di sacramenti di cui sono stato beneficiato. Pochi mesi prima che morisse, memore di quanto ne fossi attratto, zia Giulia ha dato disposizioni affinché la sua badante si occupasse di incorniciarlo a modo e me ne facesse dono. Anche in questo caso non si tratta certo di un pezzo da museo, però ha uno stile piuttosto originale che, inserito nell’arredamento del mio soggiorno, fa la sua figura.

Il quadro dei miei invece è stato realizzato da un artista noto nella comunità da cui proveniamo entrambi. Frequentavo i suoi figli, il più grande giocava a basket con me e con la sorellina addirittura – anni dopo – ci siamo baciati ma poi è finita lì. Ultimamente vedo spesso celebrato il padre pittore nelle pagine di cultura locale sui social network di massa, probabilmente ricorre l’anniversario della sua prematura scomparsa. Ho osservato con attenzione vecchie foto loro pubblicate – i figli sono rimasti orfani poco più che adolescenti – e ho notato la luce negli occhi di tutti i componenti di quel nucleo famigliare. Padre, madre, figlio e figlia, splendenti di quella bellezza che tocca pochi fortunati passeggeri di questo mondo. Gente destinata a compiere gesta esclusive e a una vita al riparo dall’ordinarietà, aspetti che si comprendono dal modo in cui rimanevano ritratti nelle fotografie e dalla scelta dello sfondo in cui sceglievano di scattarle.

Non mi piace guardare le vecchie foto di famiglia ma di recente, in occasione di una visita a mia mamma, mia figlia me lo ha chiesto e non mi è stato possibile sottrarmi. Qui a casa mia non ne ho nemmeno una, se non qualcuna scattata con le band in cui ho suonato e un intero servizio di quando giravo conciato come Robert Smith. Le vecchie foto di me bambino e della mia famiglia che ha conservato mia mamma – foto in località di villeggiatura, ricorrenze con parenti e altre occasioni altrettanto semplici – colpiscono per lo sfondo dimesso. Neve sporca, automobili parcheggiate, sconosciuti di spalle o di passaggio, ciminiere in lontananza, edilizia popolare, recinzioni instabili, tinte male abbinate, pannelli pubblicitari. Prima delle fotocamere digitali e degli smartphone le foto si facevano così. Si metteva l’occhio nel mirino, si serrava l’altro, si chiedeva di stare immobili e di sorridere, si scattava, si portava il rullino a sviluppare e ci si beava del risultato. Mi sono chiesto chi fosse l’incaricato alla documentazione delle occasioni importanti e dei momenti particolari e perché, chi ci scattava le foto, non si preoccupasse dell’inquadratura o almeno non ci chiedesse di spostarci in un punto diverso, di fare attenzione a tenere gli occhi ben aperti, di trasmettere ai posteri un messaggio più comprensibile, un futuro più facile da indovinare.

finta di niente

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Abbandonato a fianco del contenitore giallo degli abiti usati, a pochi metri da casa mia, c’è una borsa di plastica stipatissima di giochi per bambini. Il fatto è che il cassonetto dovrebbe raccogliere solo indumenti e non capisco il nesso. Non è mica una discarica di qualunque cosa ci si voglia liberare. Basta però riflettere qualche istante per comprendere il procedimento che ha spinto l’ignoto benefattore a lasciarla lì. Accade ogni tanto che i contenitori gialli degli abiti usati attirino le visite di qualche bisognoso, pronto a rischiare una contravvenzione e a mettere in pericolo la propria incolumità, considerando come si apre e si chiude il meccanismo di deposito, piuttosto che a rivolgersi alle strutture che ritirano e distribuiscono ai più poveri i vestiti di seconda mano. Il proprietario dei giocattoli deve aver pensato proprio a qualche genitore desideroso di portarsi a casa, oltre a un guardaroba rinnovato a costo zero, una bella sorpresa per i figli. Si sarà immaginato un padre e una madre rientrare con jeans firmati e scarpe alla moda gettate da qualche sprecone con in più un Monopoli come bonus, e bambini felici che si divertono vestiti di tutto punto in un appartamento dimesso di un quartiere popolare.

Questo spiegherebbe anche il motivo per cui l’intera borsa di plastica non sia stata riposta dentro al contenitore, un gesto in più che avrebbe messo al sicuro le parti più delicate e le scatole dei giochi dai temporali estivi che, almeno da queste parti, ricorrono con certezza ogni sera, per non parlare delle deiezioni dei cani.

Non è la prima volta che il contenitore giallo si circonda di oggetti che non dovrebbero essere lasciati lì. Qualche giorno fa c’era un seggiolino per auto, a conferma del fatto che chi fa la carità in questo modo poco efficace associa il concetto di indigenza a famiglie con prole e automunite. Tempo fa addirittura è comparsa una poltrona da salotto, in pelle marrone scuro e con i cuscini così logori da lasciar fuoriuscire il riempimento in gommapiuma. Il cerchio così si chiude: è chiaro che ci sono cittadini poco informati (o poco rispettosi) che confondono questo tipo molto rigoroso di raccolta differenziata con una stazione outdoor ove abbandonare oggetti ingombranti, con l’idea che gli addetti alla pulizia delle strade siano paladini del decoro urbano che caricano tutto, indipendentemente dal tipo di rifiuti che devono recuperare con il mezzo in dotazione al momento.

Nel sacco dei giochi ho notato però una tombola che possedevo anch’io, da bambino. Un modello, ai tempi evoluto, in cui le cartelle da distribuire ai giocatori si collocavano in alloggiamenti in plastica color écru e magenta dotati di fessure con sportellini richiudibili. Anziché impiegare fagioli o qualunque altro legume sui numeri estratti presenti sulla propria scheda era sufficiente muovere lo sportellino e occultarli. Ci pensate? Sarebbe fantastico se potessimo avere queste griglie per coprire o scoprire parti di cose nella vita, come il pulsante “vedi meno post come questo” sui social che ti mette al riparo dalle informazioni più scomode o, in generale, poco in linea con la tua sensibilità. Da qualche giorno – per fare un esempio – rimbalza tra una testata e l’altra la notizia secondo cui Amazon manderebbe al macero milioni di prodotti invenduti per risparmiare sui costi dei magazzini. Uno si immagina tutta la gadgettistica o le cineserie da pochi Euro che ci durano il tempo che meritano, invece ho letto qualcuno di questi articoli e si parla anche di articoli di valore.

Io però non lo credo possibile e così ho scelto di vedere meno post di questo tipo. Poi mi sono immaginato interi pallet di computer e tv abbandonati nei pressi dei contenitori gialli degli abiti usati come quello sotto casa mia. Ho pensato che non può essere vero, perché se Amazon avesse davvero milioni di prodotti invenduti troverebbe una soluzione come la persona che ha abbandonato lo stesso modello di tombola con cui giocavo da bambino e che sono stato tentato di portarmi a casa. Poi però ho notato, poco più a lato, un bambolotto dalle sembianze raccapriccianti, avvolto in una tutina da neonato e delle dimensioni di un bambino vero, con i capelli tutti arruffati e gli occhi parzialmente chiusi. Stavo per scattare una foto di forte condanna etica da postare su Instagram – avevo fatto lo stesso con la poltrona squarciata alla mercé del piscio dei cani del quartiere – ma poi ho desistito. Ho puntato l’obiettivo dello smartphone ma, immediatamente, ho provato una sgradevolissima sensazione.

c’è un Armstrong più spaziale dell’altro

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Armstrong aveva uno stile intenso ed emotivo, radicato nel blues del Mississippi, e che raccogliendo dalla tradizione di New Orleans sembrava far parlare la tromba: i suoi assoli sembravano dei discorsi. Il suo modo di suonare era dirompente e nuovo anche per l’interpretazione frenetica del ritmo, mai sentita prima nel jazz e che da lì in avanti diventò imprescindibile: la cadenza del suo fraseggio, i tempi e le sincopi dei suoi assoli avrebbero rappresentato il fondamento dello swing, cioè il genere che avrebbe dominato la musica americana per i seguenti vent’anni.

Tutti imitavano Armstrong, non solo i trombettisti – Ellington diceva che voleva «un Armstrong per ogni strumento» – e tutti andavano a vedere i suoi concerti quotidiani con la band di Henderson al Roseland, sulla 52esima strada a Manhattan.

C’è questa bellissima biografia di Louis Armstrong su Il Post. Metto il link qui per non perderla e per ricordarmi di leggerla in classe, quando ricomincerà la scuola.