i morti non ci dicono nulla

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I morti non ci dicono nulla. Non ci parlano proprio. Ci insegnano moltissimo, almeno quello. Le vittime delle epidemie ci ricordano che i vaccini sono la soluzione. Le guerre che è meglio parlarne prima o, per lo meno, non comportarsi da prepotenti. Per il resto proprio non c’è storia. Anzi, di storia ne abbiamo a tonnellate, anzi ancora, a millenni. Entri in una tomba vuota di una necropoli etrusca e ti aspetti che qualcuno o qualcosa azzardi un contatto. Invece al massimo trovi un nido di rondine, una ragnatela, i cavi elettrici – che poi possibile che non ci sia un modo per occultarli – e stop. Girelli per i borghi medievali la notte al buio e immagini che ogni ombra anomala si muova verso di te ma poi è un gatto o un turista russo. In genere non c’è anima viva ma è molto meglio di un’anima morta, perché se apparisse qualcosa di soprannaturale, pensate a un’urna sul comodino come accadeva negli sceneggiati di una volta, io rischierei un infarto, andando ad aumentare le fila di quelli che vorremmo incontrare almeno in sogno, per avere in cambio qualche numero da giocare al lotto. Qualche notte fa ho sognato mio suocero. Lo abbracciavo stretto ma sentivo che ci stava abbandonando per tornare alla dimensione a cui appartiene ora e io non volevo andasse via di nuovo e lo chiamavo forte. “Franco!”, gridavo. “Franco!”, tanto che l’ultimo l’ho urlato per davvero e mia moglie si è spaventata e mi ha svegliato, temendo che mi sentissi male. Poi ci siamo calmati e ho cercato di riaddormentarmi ma non ci sono riuscito subito. Ho provato un po’ di senso di colpa. Mio papà non l’ho mai sognato così.

città che muoiono

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Il belvedere a ridosso delle prime scalette che conducono verso il ponte che collega la terraferma a Civita di Bagnoregio induce tutti i visitatori alla stessa reazione emotiva. È il primo punto da cui si vede il paese sulla rocca di tufo al centro del panorama e l’emozione è realmente forte. Poi ti avvicini alla città che muore, come è descritta nel suo pay off, e a freddo puoi notare qualche difetto. Sul ponte di poteva fare qualcosa di meglio, per esempio. I piloni bianchi che lo supportano, in mezzo a tutto quel tufo e a quel verde, sarebbero potuti essere di un materiale e di un colore differente. Provate a immaginare un’opera di quell’impatto in mano a un’archistar. Un ponte realizzato con le più moderne tecniche bioarchitettoniche o, addirittura, tutto trasparente. Ma nell’insieme l’orgoglio campanilistico della bellezza che abbiamo solo noi e tutta per noi si alimenta passo dopo passo, avvicinandosi a quel posto che ha dell’incredibile. La resa massima di Civita di Bagnoregio probabilmente è verso il tramonto, ma attenzione che ci fate la figura di quelli che non vogliono pagare i 5 euro del biglietto d’ingresso, obbligatorio dalle 8 alle 20 di sera. Noi siamo arrivati a pochi minuti dalla chiusura della biglietteria, felici di aver potuto contribuire alla sua manutenzione. Probabilmente altrove avrebbero messo dei tornelli, a metà del ponte, attivi 24×7, e una cassa automatica, in modo da rendere il giusto pedaggio sempre obbligatorio. Se pensate che il vicino bosco dei mostri di Bomarzo costa 11 euro, tutto sommato ci sta. Poi, una volta in cima alla rocca, Civita di Bagnoregio dà l’impressione di una città dai giorni tutt’altro che contati. Una Mont-Saint-Michel ma infinitamente più bella, anche se valorizzata la metà. Certo, in mano ai francesi sarebbe piena di botteghe con il rumore delle cicale finto, bancarelle di magneti e varia fuffa turistica. Invece, per il posto che è, ha mantenuto un certo rigore. Ci sono ristoranti e bed&breakfast ma niente di più. Salendo lungo il ponte, ho notato sulla cima della collina a destra una splendida villa immersa nel bosco dominare la vallata sottostante e ho pensato a cosa di possa provare, ogni mattina, a svegliarsi, affacciarsi dalla finestra più alta e godere di un panorama così. Tutto sommato, però, preferirei essere da questa, di parte. Uno degli undici abitanti della rocca. Ma cosa faresti tutto il tempo lì sopra?, viene da chiedere dopo un’affermazione così. Vivere bene, vivere e basta, mi sembra già un buon punto di inizio.

che giramento

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La capacità che hanno quelli che fanno le cose serie di rovinare tutto non finirà mai di sorprendermi. Pensate alla disciplina, all’argomento, alla cosa che più di ogni altra accende la vostra passione. Pensato? Bene. Provate a cercarla sui social e troverete sicuramente un gruppo Facebook di gente che la coltiva ma in quel modo malato e esagerato da guastare ogni poesia. Branchi di esaltati nerd spaccano il capello su ogni tema. L’ultima mia esperienza a riguardo sono i cultori della musica ascoltata con il giradischi. Non so se vi ricordate, ma i fanatici dell’hi-fi – sia domestico che automobilistico – erano una sottospecie umana che, da ragazzini, chi aveva buon senso evitava come la peste. Oggi tutto ciò è esacerbato dal dualismo di fondo che mette in cagnesco reciprocamente chi ascolta musica su dispositivi informatici contro chi è legato a cd e vinile. In mezzo ci sono quelli come me che l’ascoltano come cazzo gli pare perché:

  • non trovo differenza d’ascolto tra dischi, cd e Spotify
  • non trovo differenza d’ascolto tra giradischi da 120 euro come il mio e piatti da migliaia di euro
  • non trovo differenza d’ascolto tra puntine di serie come la mia e puntine da centinaia di euro
  • non trovo differenza d’ascolto tra amplificatori entry-level come il mio e amplificatori da migliaia di euro
  • non trovo differenza d’ascolto tra le mie casse Pioneer a tre vie comprate a metà anni novanta e certe torri in legno artigianali di cui si popolano gli interstizi delle pagine di Chrome e che poi, quando clicco sull’annuncio, scopro che costano migliaia di euro
  • non trovo differenza d’ascolto tra la prima stampa di un vinile degli anni 70 e la ristampa a 180 grammi colorata della settimana scorsa

Forse è un problema mio. Anzi, delle mie orecchie. Eppure il gruppo Facebook dedicato a dischi e giradischi è tutta una polemica e un batti e ribatti su questi temi. Se coltivate una passione qualsiasi, il mio consiglio è di farlo da soli e non dirlo a nessuno. Godrete il doppio.

l’importante

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Non capisco che problema ci sia ad arrivare secondi, terzi, quinti, settimi, ultimi, non qualificarsi, arrivare primi tra i non qualificati, rinunciare a un passo dal traguardo, cadere, fallire, perdere, perdere sei a zero, perdere ai rigori, fermarsi quando si è stanchi, desistere, essere incostanti, ritirarsi quando ci sembra il momento, ritirarsi per colpa di un demone nella testa, ritirarsi e basta, cadere, interrompere, riprendere quando se ne ha voglia, non riprendere più, sbagliare, inciampare, lasciare il passo, limitare l’impegno, saltare un allenamento, non aver chiaro l’obiettivo, mollare, fare errori, smettere, ricominciare, smettere di nuovo, abbandonare il campo, abbandonare la partita, sbagliare, cambiare, aspettare un momento migliore, dimostrare poca serietà, cedere, ritirarsi l’ho già detto, fermarsi anche. Lo sport non fa sempre bene.

un mestiere da fighi

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Non pensavo che l’insegnante di scuola primaria fosse un mestiere da fighi. Me ne rendo conto invece ogni volta in cui rivelo ciò di cui mi occupo quando si parla del più e del meno con le persone appena conosciute e, in cambio, ricevo attestazioni di stima, questo senza che nessuno sia in grado di dimostrare se sia un bravo o pessimo docente.

Quando qualcuno mi chiede che lavoro faccio, dapprima rispondo solo un generico “insegnante”. Poi c’è chi insiste e vuole sapere di quale ordine scolastico e la materia, e a quel punto metto le carte in tavola. Mi tocca chiarire che, alla primaria, siamo tenuti a insegnare tutte le discipline e che, nell’attuale ciclo, seguo la parte logico-matematica, artistica e di lingua inglese. Una manfrina che, per brevità, i più traducono con la locuzione “maestro elementare”. Parole che, nell’immaginario collettivo, inducono a una visualizzazione di questo tipo:

Ed è a questo punto che si innescano le espressioni di incredulità e le reazioni di sorpresa. Intanto perché sono un uomo e l’uomo che per lavoro si prende cura metodicamente di una ventina di mocciosi a mille e quattrocento euro al mese suscita curiosità e restituisce quella sorta di folklore che trasmettono certi personaggi caratteristici e bizzarri che vediamo alla tv o in giro nei nostri paeselli.

Ma questa è solo l’interpretazione più cinica. Alla notizia che insegno alla scuola primaria, nelle mamme si attiva il processo dell’analisi comparata con l’esperienza scolastica dei loro figli, mentre i padri – specie quelli che fanno lavori pagati meglio, cioè praticamente tutti a parte gli insegnanti come me – a stento riescono a dissimulare il loro scetticismo. Si precipitano a pisciare immediatamente per delimitare il loro territorio e non rischiare crepe alla stima professionale di cui un ingegnere gode in famiglia. Corrono a banalizzare il nocciolo della questione con l’aneddotica personale sugli insegnanti maschi incontrati nella loro vita o delle persone che conoscono perché, in fondo, dentro di loro si attiva un segnale di allarme di cui questo spot costituisce una sintesi efficace:

che attesta che il mestiere di insegnante di scuola primaria è un lavoro da fighi.

Succede che anche il maschio ingegnere più alfa si abbassi ad ammettere di essere privo della pazienza necessaria a tenere a bada una classe di bambini per diverse ore al giorno, d’altronde non è mica un requisito maschile. L’importante è non equivocare una reazione di questo tipo come un atto di subordinazione a chi esercita un mestiere di natura femminile. Tale dichiarazione va letta come “ce l’ho così lungo che la società non si aspetta da me che sottragga tempo alla mia forza riproduttiva e alla mia abilità nel sostentamento e nella difesa della comunità di appartenenza in attività che non richiedano competenze organizzabili tramite diagrammi di flusso”.

In questo frangente occorre agire con un po’ di intelligenza e di psicologia. Non dimentichiamoci che, anche se ingegneri, sono sempre uomini e, quindi, piuttosto elementari. L’insegnante di scuola primaria dovrà quindi mostrarsi innocuo e disponibile a non mettere a repentaglio le dinamiche di gruppo nelle battute di caccia e nell’organizzazione della difesa delle mura. Automaticamente, la conversazione si assesterà sugli attestati di stima.

Che, a dirla tutta, a volte sono sin troppo espliciti e suscitano imbarazzo. Non è che uno che dedica la sua vita alla scuola è, per forza di cose, un eroe invisibile della contemporaneità. Piuttosto, ormai l’opinione più comune è che è grazie a noi che ci prendiamo cura dei figli più piccoli, tenendoli lontani dalle famiglie per buona parte del giorno, che l’economia va avanti, perché consentiamo ai genitori di recarsi al lavoro – un lavoro vero – senza orpelli da accudire. Certo, è così che la società restituisce una visione in cui noi insegnanti passiamo poco più che per bambinai (con tutto il rispetto per i bambinai), ma d’altronde cosa possiamo pretendere, che già godiamo di cinque mesi di vacanze l’anno.

Per questo, quando chiacchiero del più e del meno con persone appena conosciute, evito di parlare del mio lavoro. Anzi, evito di parlare proprio. Poi però c’è sempre qualcuno che tira in ballo la sfera professionale – siamo ciò che produciamo – e a quel punto, svelato il mio mestiere, mi tocca fare la persona seria, empatica, brillante, credibile, affidabile, dispensatrice di sorrisi e affabilità, e da quel momento so già che sarò costretto a omettere le mie passioni, le mie perversioni, le cazzate che mi capita di combinare ogni giorno il mio lato oscuro, il tutto a favore della componente di autorevolezza, quella che mi sforzo di tenere sempre accesa nei pochi mesi in cui non sono in ferie, come sostiene la maggioranza della gente. Se faccio l’insegnante e sono un uomo ho, per forza di cose, un’indole paziente. Che poi è vero, ma che pazienza.

E solo allora capisco, dalle espressioni altrui, di esserci riuscito. Ce l’ho fatta: ho convinto chi ha preteso spiegazioni del fatto che sono una brava persona, un buon insegnante di scuola primaria. In più, un uomo equilibrato di cui i genitori dei miei alunni possono fidarsi lasciandomi, ogni mattina, i loro marmocchi per poter far girare l’economia mentre io chiedo di ricopiare le cornicette disegnate alla lavagna.

Poi però c’è sempre qualcuno un po’ più sagace degli altri, e che spesso è una donna, che mette insieme ciò che già sapeva di me, magari anche gli aspetti più sconvenienti della mia personalità, con tutto ciò che ha appena ascoltato e capisce che, tutto sommato, sono così anche grazie a quella parte di me che meno può essere ricondotta a un mestiere per svolgere il quale sto in una classe con venti bambini di otto anni per sei ore al giorno. Qualcuno che trae delle conclusioni e che pensa che, davvero, per fare l’ingegnere occorre essere una sorta di semi-divinità ma, specie se sei un maschio, l’insegnante di scuola primaria è un vero mestiere da fighi.

la prima porta

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Sono in attesa del Frecciarossa per tornare a casa, un treno per Milano in arrivo a Bologna da chissà dove e che proseguirà fino a Torino. Una coppia di anziani dall’inconfondibile accento – lui parla come Erminio Macario – e diretta a Torino Porta Nuova discute sull’ordine delle fermate. Lei sostiene che il treno che prenderanno fermerà prima a Torino Porta Susa e dopo a Torino Porta Nuova. Lui asserisce il contrario. Il fatto è che il Frecciarossa ha qualche minuto ritardo e il battibecco si protrae sui binari più del dovuto. Passa un ferroviere, probabilmente il capotreno che darà il cambio al collega in arrivo, e il marito non perde l’occasione per chiarire la faccenda. «Mi scusi, ferma prima a Torino Porta Nuova o Torino Porta Susa?». Il ferroviere risponde che il treno arriva a Torino Porta Nuova ma prima ferma a Torino Porta Susa. Il marito non sembra convinto e la moglie, per tagliare corto, cerca di minimizzare il fatto di aver avuto ragione. «Probabilmente ricordi male», gli dice, «quanto tempo è che non prendiamo un treno ad alta velocità?». Il marito continua come se non la moglie non avesse aperto bocca. «Come fa a fermare prima a Torino Porta Susa?». Il ferroviere interpellato capisce l’antifona e aggiunge, sibillino: «Ferma prima a Porta Susa, ma dopo prosegue per Porta Nuova». Nel frattempo il Frecciarossa arriva a Bologna e la lotteria delle prenotazioni mi condanna a un’esperienza di viaggio a pochi metri dalla coppia. Il marito indossa la mascherina e scommetto che quell’espressione degli occhi, lo sguardo di uno che non si arrende facilmente, non promette niente di buono. Squilla il telefono e, con quella caparbietà mal esercitata che pervade le persone anziane alle prese con i dispositivi touch e la modernità in genere e che si manifesta in disagio, il marito impiega almeno sei ditate sullo schermo prima di avviare la conversazione. «Ciao, siamo sul treno, abbiamo cinque minuti di ritardo e poi non so se il treno fermi prima a Porta Susa o a Porta Nuova. Ti chiamiamo quando siamo lì». Io e la moglie ci guardiamo, lei capisce che ho capito, ma ho capito anche che noi uomini, prima o poi, diventiamo tutti così.

ma poi quando piove

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L’incubo pandemico che ci tiene svegli la notte – indipendentemente dagli orari delle gare olimpiche – non è certo l’unica causa del nuovo logorio della vita moderna. Pensate alla paura dovuta al cambiamento climatico che non costituisce un vero e proprio stress costante ma è più quella stretta allo stomaco che ci prende quando vediamo i video delle trombe d’aria sulle Dolomiti o degli incendi in Sardegna. Che futuro possiamo avere, sempre che un giorno quelli che fanno le manifestazioni contro il vaccino ci permetteranno di tornare a goderci le vacanze e a riaprire le nostre attività commerciali? Si chiama climate anxiety e c’è un sacco di letteratura in giro che dovrebbero leggere tutti quelli che sostengono che non è cambiato un fico secco. Una vera e propria piaga biblica, considerando che si tratta di una paura che fiacca i più giovani, che poi sono i principali stakeholder del futuro, quelli che dovrebbero rimettere in sesto il pianeta e che – non avendolo vissuto – non trovano invece consolazione alcuna nel passato in bianco e nero di Techetechetè. Si sentono tuoni in piena notte che ci fanno saltare sul materasso e, ormai perso il sonno, ci mettiamo a osservare la grandine che distrugge le nostre auto parcheggiate sotto casa. Per non parlare dei temporali quotidiani sempre alla stessa ora, con il cielo diviso a metà tra nuvole scure e il resto sereno, che basta attraversare la strada per passare dall’estate all’inverno. Unica consolazione sono gli arcobaleni con cui intasare di foto le pagine dei social. Dite quello che volete ma si tratta di fenomeni a cui io, fino a cinque o sei anni fa, non avevo mai assistito.

impulsi

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I film “Smoke” e “Lulu on the Bridge” hanno molte cose in comune, a partire da Paul Auster e dalla presenza di alcuni attori – Harvey Keitel su tutti – fino al fatto che sono tra i miei preferiti di sempre (“Smoke” occupa il primo posto assoluto dall’anno in cui è uscito). C’è un ulteriore trait d’union tra le due storie. In entrambi i film i protagonisti – il tabaccaio Auggie Wren e il sassofonista Izzy Maurer – oltre ad avere la stessa faccia agiscono d’impulso. È l’impulso a indurre Auggie Wren a restituire il portafoglio alla nonna del ladruncolo che ha tentato di rubare le riviste porno nel suo negozio (per non parlare di quando si appropria della macchina fotografica nel bagno del ladruncolo con la quale scatterà la stessa foto ogni giorno dallo stesso punto all’ingresso della tabaccheria) ed è l’impulso che spinge Izzy Maurer a impossessarsi della valigetta rinvenuta a fianco del cadavere di Stanley Mar in cui troverà il numero di telefono di Celia Burns e la pietra magica con il segno rosso. Mi piace quando gli scrittori e gli sceneggiatori fanno agire d’impulso i loro protagonisti perché sono le vicende anomale, le coincidenze, le cose che nelle nostre esistenze ordinarie non accadranno mai a nutrire la passione dei lettori e di chi cerca l’evasione al cinema. “Smoke” e “Lulu on the Bridge” sono due film vecchi che rivedo ogni estate perché l’estate è una stagione senza tempo. Al netto delle peculiarità di quella che stiamo vivendo ora – mascherine, green pass e insulsi novax – quella del 2021 potrebbe essere un’estate qualsiasi delle cinquanta e più che abbiamo trascorso nella nostra vita, e i nostri film preferiti restituiscono sempre la stessa sorprendente esperienza indipendentemente da quanti inverni abbiamo sul groppone. Le riflessioni che storie come quelle ci suscitano meritano però, ogni volta, risposte differenti? Avrei restituito il portafogli alla nonna? Avrei sottratto la ventiquattrore incustodita? Una volta, durante un lungo viaggio in treno, mi sono accorto che il passeggero di fronte a me aveva dimenticato la sua valigetta in pelle sulla cappelliera e si era dileguato. Non vedendolo tornare e pensando che fosse già sceso, ho deciso senza pensarci troppo di verificare se dentro ci fossero indicazioni sul suo proprietario. Ho aperto la valigetta ma ho trovato solo dei fogli di appunti scritti a penna e un paio di calzini in filo di scozia marroni arrotolati. Così ho avvisato il capotreno per avere indicazioni ma, proprio mentre gli spiegavo la situazione, il proprietario della ventiquattrore è rientrato al suo posto, dopo una cena alla carrozza ristorante. Mi sono giustificato per aver curiosato dentro ma a fin di bene e lui si è messo a ridere per il contenuto di nessun valore della valigetta, scusandosi per essersi tolto i calzini per il caldo e averli riposti nella ventiquattrore. Vedete? Anche noi agiamo di impulso ma in cambio non sempre abbiamo l’ispirazione per scrivere qualcosa.

moderiamo i Tony

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Tutti a gran voce vogliono Tony Soft. I politici di sinistra e di destra richiedono Tony Soft ai rispettivi avversari e i giornalisti al TG lo riportano. “Draghi esige Tony Soft”. “Mattarella invoca Tony Soft”. Ma è estate e Tony Soft, probabilmente, è già partito per il consueto tour stagionale rivierasco con la sua orchestra, i suoi musicisti rispettosi delle camere d’albergo, i suoi strumenti elettro-acustici, gli amplificatori tenuti a un volume adeguato, le divise color pastello, le canzoni mai oltre i 100 bpm. Mai un distorsore, mai un urlo liberatorio, mai una parola fuori luogo, mai un botta e risposta con il pubblico tipo ari ari ari ha di “Minnie the Moocher”. Meglio non farsi riconoscere e non stare sopra le righe, tantomeno quelle del pentagramma. Nessun taglio addizionale perché, come dicono a Roma, questo è il tempo di dare e non di prendere. Non dimentichiamo che Tony Soft è l’artista preferito dal cantante Garbo e vanta collaborazioni del calibro – medio – di Moderat.

madre

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«Ci vediamo verso le 19 in Via Zoagli», mi scrive la persona che ho contattato per acquistare un pezzo di ricambio usato di un vecchio giradischi che mi è stato regalato e che voglio riportare in vita. La ricerca su Google Maps restituisce un risultato sorprendente. Via Zoagli, a Milano, si trova nel quartiere di Quarto Oggiaro. La cosa mi fa sorridere: avete presente, vero, che cos’è Quarto Oggiaro? La storia di Quarto Oggiaro? Chi vive a Quarto Oggiaro? Ho pensato che la scelta dei nomi da attribuire alle vie dovrebbe essere oggetto di scambio tra le città. In questo caso, se davvero fosse così, a Zoagli dovrebbe esserci una Via Quarto Oggiaro, magari una creuza che scende verso il mare. Se io vivessi in Via Zoagli a Quarto Oggiaro mi offenderei e me la prenderei contro il sistema che, ogni santo giorno, mi ricorda in che posto di merda abito se paragonato a Zoagli. Se percorressi ogni giorno Via Quarto Oggiaro a Zoagli mi irriterei altrettanto perché passare di lì mi ricorderebbe, ogni volta, i tristi palazzoni della periferia milanese. Poi, per fortuna, scopro che il nome completo della via di Quarto Oggiaro è Via Adele Zoagli, che grazie a Internet scopro essere la madre di Goffredo Mameli. Allarme rientrato.