la bolla dell’arte contemporanea

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Molti artisti contemporanei specializzati nelle video-creazioni e nel visual tout-court utilizzano bolle, magma, fluidi e materia riconducibile allo stato semi-liquido resa attraverso riprese o creata con la computer graphic in 3D. Masse vere o finte che si muovono lentamente e che, se ci pensate, possono rappresentare qualunque cosa. Il tempo, lo spazio, l’amore, la vita, la morte, la natura, il pensiero, l’angoscia, il benessere, il caldo, il freddo, il passato, il futuro, mia sorella, il progresso, i rifugiati politici, i cambiamenti climatici, una cazzo di materia informe e vivente. Una specie di slime – se avete a che fare con i bambini sapete di cosa parlo – di qualsiasi colore che, spostandosi, crea delle bolle che possono essere interpretate come un tentativo di contatto tra l’arte e la realtà. Bocche di non si sa bene che cosa che tendono la loro pellicola trasparente sino a farla esplodere per dirci qualche cosa e a mostrarci l’interno. Che poi, a essere sinceri, dentro non c’è un fico secco. Anche la creatività nella realtà virtuale e immersiva si bea di questa formula. Le istruzioni a corredo delle installazioni di questo tipo spaziano tra la rana e la fava ma poi, indossato il visore e le cuffie insonorizzanti, ci troviamo di fronte al solito blobbone di materiale pseudo-liquido o pseudo-gassoso mutevole di forma che ci gira intorno, cerca di inglobarci, cambia colore a seconda di come muoviamo la testa, il tutto corredato da un sottofondo di rumori in loop che sembrano sempre gli stessi indipendentemente dalla performance a cui stiate assistendo. Sono in molti a chiedersi se l’impressione che l’artista contemporaneo faccia delle cose a cazzo ce l’avessero anche ai tempi di Michelangelo, mentre l’artista dipingeva l’affresco della Cappella Sistina. Tra qualche secolo i posteri osserveranno – chissà con quale tecnologia – questi video di bolle e ne daranno la corretta interpretazione.

di che pasta sei fatto

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Cenare in un ristorante italiano all’estero è un comportamento che non sta né in cielo né in terra per due motivi. Quello meno nobile è che noi italiani professiamo l’enogastronomia italiana in una versione così radicale da subire ogni riduzione facilitata delle nostre ricette tradizionali per i palati stranieri come un vero e proprio vilipendio a una religione. In realtà è da provinciali non approfittare di un soggiorno fuori dai nostri confini per non immergere appieno il nostro apparato digerente nelle usanze locali.

Il problema è che siamo talmente di bocca buona che, in certi posti agli antipodi del nostro gusto, arriviamo a un punto in cui ci arrendiamo perché più di sei o sette giorni senza una pizza non riusciamo a resistere. Il fatto è che in molte grandi città europee l’assenza di una identità culinaria vera e propria è colmata dalla grande disponibilità di sapori etnici di altre culture, un aspetto che da noi – che guardiamo ancora con sospetto chi non è nato in Italia e anzi, nemmeno a tutti quelli che sono nati in Italia concediamo lo status di italiani – è ancora agli albori ed è visto con sospetto. Quindi perché non approfittarne per assaggiare della vera cucina orientale, o della vera cucina africana?

Nei confronti della Francia ci sono da fare però altre considerazioni, dal momento che la loro cultura enogastronomica è forte tanto quanto la nostra, se non di più. A causa della competizione che tradizionalmente ci contrappone ai nostri cugini transalpini ci risulta però difficile parlarne in modo lucido. Allora comincio io: trovo che il vino francese sia superiore al nostro soprattutto nella qualità media. Mettete a confronto una bottiglia da meno di dieci euro di entrambi e poi ditemi se non è vero.

Per il resto,  non credo che esistano ristoranti francesi in Italia, o almeno io non ne ho mai visti, mentre in Francia c’è pieno di ristoranti italiani. Questo genera più di un equivoco: se ci copiano è perché siamo un modello, giusto?

Ma se invece andate a fondo e trovate il coraggio di sedervi a un tavolino di un ristorante italiano in Francia quasi sicuramente non resisterete all’impulso di guardare con sospetto quello che vi verrà proposto, nel menu e nel piatto. Questo perché vi renderete conto presto che tutto ciò che prenderete sarà in realtà una rielaborazione secondo il gusto locale dei nostri piatti. Chi denota una forte personalità difficilmente riesce a impersonarne altre mettendo a tacere la propria.

L’esempio più eclatante è l’uso sacrilego della pasta come condimento per altri piatti, che per noi è grave quanto denigrare a male parole la propria madre. A me non piace l’accostamento, ma tutto sommato apprezzo l’uso creativo di un pilastro della nostra cucina. Alcuni invece lo vedono come un tentativo dei francesi per esercitare la propria superiorità annullando l’identità altrui, come un Napoleone qualsiasi che espropria la Cappella Sistina per farne un granaio.

A me è successo di vedere una carbonara in Francia servita come un piatto dell’Ikea tutto da assemblare a cura del cliente: hanno portato delle tagliatelle scotte immerse in una crema di un loro formaggio (non pecorino), con un uovo compreso di albume crudo e posizionato nel centro della pasta impiattata a nido, una spolverata di erba provenzale e dei dadini di prosciutto cotto in una scodella a parte, da aggiungere a piacimento. Questa è la prova che la volontà dei francesi è proprio quella di decostruire le nostre ricette come monito per ricordarci la loro grandeur. Non ci resta che adattarci.

le mani in tasca

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Per la seconda volta in vita mia oggi mi sono trovato le mani di un’altra persona nelle tasche dei pantaloni. A pensarci bene, le occasioni sono state più numerose ma occorre fare dei distinguo. Ci sono persone che ti mettono la mano nella tasca davanti dei jeans come preliminare, insomma ci siamo capiti. Altre che ti mettono la mano in tasca per rubarti il portafoglio, e qui la questione si fa un po’ più spinosa per diversi aspetti.

Anzi, a dirla tutta, la prima volta che mi è successo non si è trattato proprio di una mano nelle tasche dei pantaloni, bensì nella borsa. Avevo il vezzo di usare borse a tracolla da dj come se dovessi trasportare dei dischi ma vi confesso che non ci tenevo dentro quasi nulla perché il portafoglio l’ho sempre portato nella tasca davanti – o al massimo nei tasconi dei pantaloni con i tasconi, appunto. Passeggiavo per corso Buenos Aires e grazie alla mia andatura sbilenca provocata da una postura altamente asimmetrica ho percepito uno sbilanciamento anomalo dalla parte della borsa a tracolla da dj di cui sopra. Mi sono voltato e ho colto in flagrante un ragazzino con la mano dentro la mia borsa alla ricerca della (sua) felicità.

Da intellettuale di sinistra faccio molta fatica ad ammettere l’etnia errante di quel moccioso, sta di fatto che l’ho ammonito con qualche parola che, data la provenienza che inizia per erre e che ricorda i CD multimediali che si acquistavano in edicola e che gli preclude qualsiasi possibilità di salire almeno al seminterrato dell’ascensore sociale, non gli sarà nemmeno giunta all’anticamera del cervello. Ho minacciato di chiamare chissà chi ma poi mi ha fatto tenerezza e l’ho mollato lì, come un ciula qualsiasi. Un ciula io, sia ben chiaro, d’altronde faccio il maestro elementare, mica frequento le palestre di quelle arti marziali che ti insegnano a massacrare gli appartenenti a etnie poco inclini ad adattarsi alle regole della società e, anzi, fanno pugilato, diventano pure campioni nazionali e prendono a testate quelli che provano ad andare a fondo circa i loro standard di approvvigionamento. Ogni tanto penso a che sarebbe successo se avessi preso a calci quel ragazzino. Per fortuna non sono una bestia e so applicare il buon senso ai miei comportamenti.

In realtà, prima ho detto ciula perché è lo stesso termine che ha usato mia moglie poco fa, a proposito di quanto è accaduto oggi. Queste persone abituate a vivere ravanando nelle tasche degli altri per trovare qualcosa con cui approvvigionarsi, secondo mia moglie, sono in grado di riconoscere i ciula che, dopo che le hanno colte con le mani in pasta, anzi, con le mani in tasca, anziché corcarli di mazzate come meriterebbero, queste persone, dicevo, in quanto intellettuali di sinistra li lasciano defilarsi impuniti proprio per non dover ammettere che, questi che appartengono alle tribù che soggiornano in roulotte e a stento si adeguano alle regole sociali che impongono di contribuire al benessere comune – che poi riguarderebbe anche loro – attraverso lo svolgimento di un mestiere e il conseguente pagamento delle tasse, dicevo che queste persone sono in grado di riconoscere i ciula intellettuali di sinistra da quelli che li corcherebbero di mazzate trovandoli a ravanare nelle proprie tasche dei pantaloni.

Insomma, per farla breve, qualche ora fa ho sorpreso una ragazza palesemente riconducibile all’etnia che ricorda appunto quei CD multimediali da consultare con i computer, e l’ho sorpresa con la mano nella tasca anteriore dei miei jeans a sfilarmi il portafoglio su un tram di Lione.

Un tentativo architettato perfettamente. Il display alla fermata avvisava in francese la presenza di borseggiatori proprio su quella linea. Salito sul tram, ho notato un’intera famiglia di quelle lì i cui maschi danno testate ai giornalisti e mettono a ferro e fuoco le capitali come la nostra, insomma ci siamo capiti. Mia moglie, mia figlia ed io eravamo senza biglietto – il distributore automatico alla fermata da cui siamo saliti era guasto – così siamo scesi alla fermata successiva per acquistarli.

Due ragazze con un ragazzo di quel gruppetto hanno fatto altrettanto. Una delle due si è messa in fila al distributore davanti a me ma poi, improvvisamente, si è defilata fingendo di ricevere una telefonata. Prima di acquistare i biglietti le ho fatto cenno se volesse fare prima lei ma mi risposto di servirmi pure. Nel frattempo è sopraggiunto il tram su cui siamo saliti in mezzo a loro. Il ragazzo si è fermato davanti a me per ostruirmi il passaggio ed è lì che ho compreso che c’era qualcosa di strano.

Ho abbassato lo sguardo è ho colto la ragazza che era in coda con me con la mano nella mia tasca anteriore dei jeans, intenta a sottrarmi il portafoglio. Sono riuscito a sventare il piano con un freddezza che, davvero, stento a riconoscermi. Ho gridato, ho rimesso a posto il portafoglio e la banda di borseggiatori è corsa subito fuori dal mezzo.

Mia moglie sostiene che, se non fossi stato io, un altro sarebbe immediatamente sceso a corcarli di mazzate. Io mi sono limitato a guardare negli occhi la ladra – entrambi indossavamo la mascherina – cercando di strapparle se non una spiegazione almeno un cenno di pentimento che, ovviamente, non ho trovato. La morale è che, di fronte alle ingiustizie, è difficile mantenere la calma, non lasciarsi prendere dal razzismo – anche quando una generalizzazione ci starebbe – e non corcare di mazzate il prossimo. Ho ancora i contanti che tenevo nel portafoglio e le carte di credito e salvato il resto della vacanza. Tutto sommato continuo a mantenere la mia posizione di intellettuale di sinistra. La prossima volta prometto di stare più attento.

in miniatura

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Alla fine hanno scelto tutti di restare o tornare bambini e l’umanità si è trovata completamente priva di adulti, con tutto ciò che comporta. Avete presente cosa ci vuole per procreare? O anche solo le competenze per portare a termine un intervento chirurgico, costruire un microchip, preparare una torta, contare fino a un milione, girare un film con un storia che abbia un inizio e una fine e una trama coerente, esportare dei prodotti in oriente, compilare la dichiarazione dei redditi, guidare un aereo ma anche un camioncino, organizzare una vacanza, conoscere qualche fondamento di chimica per non avvelenarsi, riconoscere una truffa, giocare in borsa, anche se tutte queste cose, senza gli adulti, non solo non sono possibili ma nemmeno immaginabili. Le cose sono andate così: una tizia ha scritto come status di Whatsapp: “Non mi interessa nulla dell’essere adulti. I soldi, l’indipendenza, le relazioni, il lavoro. Stasera voglio solo avere dieci anni e mettermi a fare i compiti delle vacanze sul tavolo in cucina dopo aver passato tutta la giornata al mare”. Il fatto è che ha premuto una combinazione di tasti sullo smartphone che funziona un po’ come la lampada e il genio che esce fuori, ma con conseguenze molto, molto più gravi e irrimediabili. Un virus si è diffuso su tutta la rete e così alla fine hanno scelto tutti di restare o tornare bambini e l’umanità si è trovata completamente priva di adulti, con tutto ciò che comporta. Pure io adesso ho dieci anni, ma prima di regredire sono riuscito a salvare in bozza questo post.

buchi nell’acqua

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Qualche tempo fa sono intervenuto in un dibattito in un gruppo FB inerente l’acqua che beviamo e come migliorarla. Ci sono però un bel po’ di doverose premesse da fare:

1. discutere non serve a un cazzo
2. discutere su FB porta se possibile ancora a meno risultati
3. la gente è sempre più cattiva, dal vivo, sarà per via del Covid e del Green Pass
4. la gente è sempre più cattiva, sui social, sarà per via del Covid e del Green Pass
5. in ogni discussione c’è sempre il rischio che scoppi una guerra civile, quindi attenzione a cosa dite, come commentate, con chi parlate eccetera eccetera e non importa di cosa stiate parlando. Anche se parlate dell’acqua che beviamo e come migliorarla, c’è gente pronta a venire alle mani.

Comunque il tema era, come dicevo, l’acqua che beviamo e come migliorarla. La discussione era moderata da gente molto preparata, laureati in chimica e che si occupano di sistemi di depurazione, purificazione e cose così. Professionisti che installano macchinari domestici che rivoltano l’acqua come un calzino in ogni sua particella rimuovendo qualsiasi impurità. Un tecnologia che ha dell’incredibile. Io l’ho provata a casa di mio cognato. Aveva un boccione sotto il lavandino con una specie di secondo rubinetto azionando il quale l’acqua dell’acquedotto, che da me normalmente è abbastanza una merda, si trasformava in acqua di montagna. Non sto scherzando. Poi mio cognato si è rotto i maroni di quel sistema, non mi ricordo perché, ma a me è spiaciuto perché l’ho vissuta come una sconfitta dell’ecologia.

Poco tempo dopo qui da noi sono comparse le case dell’acqua. Postazioni da cui è possibile servirsi gratuitamente di quella che chiamiamo l’acqua del sindaco. Liscia e gassata. Sempre fresca. Una figata. Lo sbattimento è, come potete immaginare, il rifornimento. Io bevo come un cammello, ho due cestelli da 6 bottiglie da un litro ciascuno, e in estate 12 litri d’acqua mi durano meno di due giorni. A volte la voglia di riempirle latita, ma piuttosto che acquistare le bottiglie di plastica al supermercato farei qualunque cosa.

In un momento di debolezza poi mi hanno consigliato dei cilindretti di ceramica da mettere nella caraffa dell’acqua del rubinetto. Li ho provati e vi giuro che ne migliorano il sapore di molto. Il problema è che si tratta di un prodotto borderline con l’omeopatia, i grillisti e tutta quella roba da guaritori magici lì, e quindi non sempre è facile accettarne il beneficio. Per questo, come vi ho anticipato prima, quando ho portato la mia testimonianza alla discussione di cui sopra – dicendo di usare i cilindretti di ceramica – sono stato tacciato di omeogrillismo dagli altri, e quindi me ne sono vergognato. Qualcuno si è persino vantato di aver fatto credere a uno di questi omeogrillisti di fabbricarsi l’acqua in casa unendo gli atomi di idrogeno – acquistati a Leroy Merlin – all’ossigeno dell’aria catturata in campagna. Insomma, per farla breve, da allora i cilindretti di ceramica non li uso più e, anche quando non ne ho voglia, carico in auto i cestelli con le bottiglie vuote e vado a riempirle alla casa dell’acqua.

Poi però ho visto questa pubblicità e mi ha ingolosito, se non altro perché il muletto che sfonda la parete è piuttosto convincente.

lettori di agosto

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Conosco diverse persone a cui non piace viaggiare e, credetemi, non è il caso di biasimarle. Il viaggio comporta una serie di difficoltà da affrontare, di responsabilità di cui farsi carico e di scelte da prendere, per noi stessi ma molto spesso per chi ci accompagna perché difficilmente viaggiamo da soli, anche se viaggiare da soli è una figata che non ha paragoni. Il fatto è che noi italiani siamo ancora legati al calendario dettato dalla Fiat e da tutto il suo ecosistema e indotto che imponeva di prendere le ferie in agosto. Oggi la Fiat non esiste più, l’ecosistema probabilmente è soggetto al calendario cinese, nonostante ciò continuiamo a fare vacanze in agosto. Occorre quindi manifestare tutta la nostra solidarietà a coloro ai quali non piace viaggiare e, di conseguenza, sono costretti a fare cose alternative durante le settimane di ferie imposte in agosto. Tenendo conto che ovunque è tutto chiuso, ci sono quaranta gradi, c’è il Covid, la tv è una merda, ci sono i gatti degli amici – che invece partono – da curare e cose così. Perché se a chi non piace viaggiare fosse consentito di prendere ferie in altri periodi dell’anno sono certo se la passerebbe meglio e, a dirla tutta, la formula potrebbe interessare anche a gente come me. Voglio dire, non vi piacerebbe staccare due o tre settimane a marzo? O a giugno? Parliamone. In altri periodi, con tutto aperto, uno a cui non piace viaggiare potrebbe godersi davvero il posto in cui vive. Vederlo sotto una luce diversa dalla canicola di ferragosto, l’asfalto che brucia e nemmeno una pizzeria aperta in giro. Per farvi capire quanto sono disperati quelli a cui non piace viaggiare vi dico solo che il numero di lettori di blog come questo, nelle settimane centrali di agosto, cresce a dismisura. E non credo che leggere articoli inutili o deprimenti sia un passatempo adatto a chi ozia sulla sdraio in una spiaggia della Sardegna del sud. Secondo me è gente che sta a casa, che le ha provate tutte e che sta raschiando il fondo del barile per trovare qualcosa da fare. Amici lettori a cui non piace viaggiare, mettetevi comodi: questo post è tutto per voi.

residenti resilienti

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Verso la fine degli anni 90 tra gli appassionati delle vacanze in Francia era d’obbligo la consultazione di Homelidays, uno dei primi siti web grazie al quale era possibile entrare in contatto con chi offriva in affitto case o camere e contattarli comodamente in inglese via e-mail, evitando momenti imbarazzanti al telefono a causa del nostro francese improvvisato. E lo so che sicuramente tra di voi c’è qualcuno che ha usato un altro portale simile prima di quello e non vi biasimo, d’altronde la frenesia di assicurarsi una posizione pioneristica dell’Internet, ai tempi dei socialcosi, è difficile da contenere.

Il successo di Homelidays è provato dal fatto che, con il tempo, è stato assorbito da un’organizzazione più strutturata e poi da un’altra più grande ancora, ma questo è stato il destino di tutte le iniziative del settore turistico fai-da-te che, pian pianino, sono convogliate tutte sulla piattaforma Airbnb, mentre anche i proprietari di strutture vi si trasferivano perché c’è più pubblico e i motori di ricerca ti ci riportano sopra, volente o nolente.

Lo scambio di case contiene l’essenza dell’ospitalità e del viaggio, sia che qualcuno vi lasci le proprie cose e si fidi ciecamente di chi vi soggiorni, sia che metta sul mercato appartamenti acquistati ad hoc, facendo diventare l’essenza dell’ospitalità di cui sopra un business. Saprete meglio di me che gli abitanti dei quartieri più caratteristici delle città sono su tutte le furie proprio per questo. Le case si svuotano di chi ci vive e si riempiono di turisti mordi e fuggi e i quartieri più caratteristici delle città attirano esercizi commerciali e servizi per i turisti mordi e fuggi snaturando l’essenza del posto. Un forma di gentrificazione a tutti gli effetti difficile da contenere perché fonda le sue radici nell’economia nata sul web e, quindi, per forza di cose, democratica, laddove è democratico tutto ciò che è impossibile da regolamentare perché voluto dal basso e sostenuto dalla gente. Il fatto è che la filosofia del CouchSurfing degli albori della rete non ha retto all’impatto della venalità. Un’epoca dorata in cui la smania di guadagno viaggiava sui modem a 56Kbps e c’era tutto il tempo per filtrare le cose con l’umanità.

In famiglia abbiamo ancora il vezzo di affittare gli appartamenti quando viaggiamo, preferendo di gran lunga questa formula all’albergo. La casa ti permette più intimità, la possibilità di usare la cucina, e nel caso in cui trovi qualcuno che ti lascia il posto in cui vive per i giorni richiesti, trovi quel calore che una camera di hotel, anche con decine di stelle, non restituirà mai. Le più accoglienti che ho trovato sono quelle francesi, forse perché sono loro ad aver inventato l’approccio di Homelidays e sono rimasti ancorati a quel modo di ospitare gli estranei. Anni fa, nell’appartamento a Parigi in cui ho soggiornato, c’era un pianoforte a coda pazzesco e vi giuro che non sarei più uscito di casa. In questo momento mi trovo a Lione nell’appartamento di un’artista che, oltre a tutti i suoi quadri in mostra sulle pareti, ci ha lasciato anche un formidabile gatto certosino. Da ospite, la cosa mi fa sentire doppiamente in vacanza, fermo restando che casa mia non la affitterei mai a nessun sconosciuto, ma forse nemmeno a gente che conosco, e tantomeno il mio gatto.

titolo provvisorio

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I viaggi che organizziamo per trascorrere le vacanze in agosto servono principalmente per consumare le ferie arretrate da noi stessi. Partiamo e andiamo via da ciò che siamo tutto l’anno e, per qualche settimana, facciamo finta di preferire le parole delle persone con cui ci accompagniamo a quel mantra di cose che ci sentiamo ripetere da sempre nella testa dal nostro abituale interlocutore interiore, pensieri sempre uguali con l’aggravante del tempo che dilata la nostra memoria e li fa sembrare sempre più oggetti puzzolenti di muffa da mercatino dell’antiquariato. Distanti da noi stessi portiamo solo qualche cianfrusaglia emotiva giusto per poter dimostrare, quando occorre, le nostre generalità. Un paio di libri, il computer con cui scrivere cose come questa sul nostro blog, le password di accesso ai servizi di streaming musicali e cinematografici che non si sa mai.

Seduto sul divano di casa, insieme al gatto nutrito e controllato da qualche vicino di fiducia, resta il nostro esoscheletro nella posizione segnaposto con cui ci lasciamo vivere il resto dell’anno, nemmeno fossimo un insetto qualunque. A quel simulacro di noi stessi, che torneremo a indossare al termine della vacanza come una tuta del Decathlon macchiata qualsiasi, abbiamo lasciato in custodia tutto ciò che tiene caldo a partire dalla depressione che ci coglie ogni fottuto agosto e, davvero, meno male che abbiamo messo da parte due lire per muoverci altrove.

Giunti a destinazione, disponiamo con cura nei cassetti dell’appartamento che abbiamo affittato tramite Airbnb – alla faccia di chi ha paura della gentrificazione – il bagaglio di ansie a cui non possiamo rinunciare e che ha condiviso il viaggio insieme a noi ben stipato nel Thule porta-tutto. La provvista di sogni ricorrenti che ci siamo portati da casa invece consente un rilascio graduale notturno a copertura di tutto il periodo di permanenza e, come quel sistema per cui Google all’estero ti restituisce risultati nella lingua del paese in cui ti trovi, il nostro subconscio programma un palinsesto estivo decontestualizzato dalle preoccupazioni stringenti del quotidiano invernale, una sorta di Techetechetè personale ma molto, molto più appassionante. Ecco quindi trasmissioni oniriche che non andavano più in onda da decenni con attori e comparse di cui avevamo perso le tracce pure su Facebook.

Poi, a metà viaggio, quando sembrano mesi che siamo via di casa e il rientro risulta così distante da non costituire alcuna preoccupazione, ci chiediamo regolarmente il senso delle cose e tentiamo risposte alle grandi domande della nostra vita. Gli stranieri che ci ospitano esistono davvero o stiamo partecipando a un reality? Chi ci crediamo di essere per sventare il complotto di chi sostiene che la terra sia tonda se, volando fino a qui, abbiamo notato qualche curvatura? Perché Marcell Jacobs vuole disinteressarsi del tema dello ius soli e segue Salvini sui social? Per tutto ciò non ci sono certezze, delle notizie sbirciamo solo i push sui nostri smartphone e poi camminiamo e basta. Camminiamo per km e km, controlliamo i passi su Google Fit, guardiamo le case diverse, le persone diverse, i menu diversi scritti in una lingua diversa. In tutto questo, le risorse per bearsi nello spleen sono davvero poche. Meglio risparmiare per una birra in più perché, si sa, all’estero per gli italiani è tutto molto più caro.

io etru

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Dagli Shardana ai Pelasgi, dai Troiani ai Siculi, dagli Euboici agli Italici, dai Fenici ai Corinzi, dai Focesi ai Cartaginesi, dagli Ateniesi ai Celti l’Etruria è stata per tutta la sua storia una terra di incontro, di confronto e di ibridazione tra genti mitiche e popoli reali.
Si sa tuttavia che ogni contatto più o meno prolungato porta con sè opportunità ma anche pericoli. Se la grandezza e la potenza degli Etruschi sono dipese dalla loro capacità di interazione e dall’intelligenza con la quale hanno saputo trarre profitti e vantaggi dalla condivisione delle loro risorse, dietro queste relazioni potevano celarsi rischi di ogni genere.
In un Mediterraneo che, per quanto apparentemente grande, già in antico poteva legittimamente essere paragonato a uno stagno (Platone) la diffusione di epidemie e contagi era una eventualità all’ordine del giorno.
Fino al XIX secolo e alle prime scoperte in campo epidemiologico e allo sviluppo di una maggiore sensibilità in campo igienico (tipo lavarsi le mani dopo un intervento chirurgico!) erano totalmente sconosciute le tecniche di prevenzione più scontate che siamo soliti adottare oggi anche nel nostro quotidiano.
Per ragioni come queste la mortalità nel mondo antico era elevatissima e la vita media raramente si spingeva oltre i 35 anni.
Le fonti letterarie e l’evidenza archeologica hanno registrato innumerevoli epidemie. Le cause potevano essere le più disparate: scarsa igiene e poca attenzione nella gestione dei rifiuti, possibilità di contaminazione da cadaveri e carogne, convivenza con animali, abitazioni inadeguate, malaria e altre forme di contagio veicolate da habitat spesso molto poco ospitali, difficoltà nella preservazione dei cibi e, naturalmente, contatti con genti esterne.
Conoscendo la saggezza, gli scrupoli religiosi e la disciplina proverbiale degli Etruschi si può affermare con certezza che se avessero avuto il green pass lo avrebbero usato senza scrupolo anche loro.
In questo modo avrebbero potuto portare avanti le loro attività e i loro contatti senza rischi e senza rinunce, come si conveniva a un popolo grande amante dei piaceri della vita.
D’altronde lo racconta già Tito Livio di come durante la terribile pestilenza del 365 a.C. in cui morì anche il celebre Furio Camillo, per ingannare il tempo e la paura vennero chiamati dall’Etruria ad esibirsi nel Circo massimo istrioni (parola non a caso di origine etrusca) e danzatori, dando origine a forme di teatro molto simili a quelle contemporanee. Non potevano certo sapere i Romani che così facendo aumentavano in realtà il rischio di contagio.
Ma la consapevolezza si acquisisce a caro prezzo e solo a spese di esperienze anche drammatiche.
Pertanto facciamo come avrebbero fatto gli Etruschi se avessero saputo e potuto. Acquisiamo il green pass ed esibiamolo ogni volta che ci viene richiesto, per la nostra sicurezza e per quella degli altri, per rispetto di tutti e anche per l’orgoglio di sapere che se oggi siamo qui e viviamo una vita molto più sicura e confortevole di quella del passato è anche perché abbiamo saputo arrivarci 😉

Non so chi sia il socialmediacoso del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia di Roma che ha scritto questa cosa. Ho visitato Etru un paio di settimane fa e, insieme alla necropoli della Banditaccia di Cerveteri, sono stati i soldi meglio spesi della vacanza. Ah no, dimenticavo la cacio e pepe della trattoria “Il Girasole” alla Garbatella. Comunque Etru è un museo da visitare in lungo e in largo e, se mi consentite uno spoiler, terminato tutto il padiglione dedicato agli Etruschi preparatevi perché vi aspettano i Falisci al piano di sopra. Ora hanno a che fare con il green pass, quindi vaccinatevi, fate come i nostri avi come consigliano loro e soprattutto non rompete i coglioni.

le sfighe di Easttown

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Le famiglie di Easttown, Pennsylvania, sono un condensato narrativo del peggio della società statunitense ma del meglio della narrativa americana. In poche villette da pochi metri quadrati convivono parenti stretti segnati da alcolismo, droghe di varia natura, suicidio e pedofilia, temi saggiamente miscelati con tutto quanto sia in grado di mandare in tilt qualunque genitore a partire da figlie che diventano madri da adolescenti, violenza dentro le mura di casa, maniaci che rapiscono le ragazze, possesso e uso disinvolto di armi, sindrome di Down, bullismo. La serie TV che raccoglie tutto questo è “Omicidio a Easttown”, con Kate Winslet, che già si candida a serie TV dell’anno. Trama e sceneggiatura sono densissime, nel senso che qualunque altro regista avrebbe ricavato il doppio degli episodi diluendo la storia e perdendo per strada tutti quegli spettatori come il sottoscritto che, al secondo o terzo episodio di qualunque cosa, quando capiscono che la serie mena il torrone spengono la tele e passano ad altro. “Omicidio a Easttown” si compone invece di sole sette puntate da un’ora circa ciascuna. Il ritmo è serratissimo e il tempo vola sino alla soluzione del caso, che ovviamente non spoilero anche se ne avrei tanta voglia perché sino alla fine è tutto un plot twist ma vedrete che non c’è nulla di forzato. La narrazione vi accompagnerà lungo una storia in cui i personaggi si trovano perfettamente a loro agio perché delineati con maestria e coerenza. E le disgrazie concentrate in così poche persone vi convinceranno a osservare con occhi più indulgenti le piccole questioni che vi gettano nell’ansia e vi posticipano il sonno. Nessun essere vivente normodotato sopravvivrebbe al carico emotivo di Mare Sheehan, la protagonista, a cui d’ora in poi potremo pensare come al supereroe più umano del mondo occidentale e di quel concentrato di società a stelle e strisce di provincia che ci piace tanto veder soffrire nei film che prevedono la redenzione finale. “Omicidio a Easttown” è una serie TV da dieci e lode, o da cinque stelle piene, se vogliamo attestarci ai criteri più diffusi della critica cinematografica. E, se fosse un libro, sono certo che lo divorerei con altrettanta foga.