che figa l’immortalità

Standard

Mi sono regalato due visite guidate quest’anno, in occasione dei ventiquattro anni di questo blog, compiuti a fine luglio, l’ennesimo compleanno dimenticato. Sono strasicuro che le guide autorizzate siano tra i soldi spesi meglio insieme ai dischi di certi gruppi che so io e un buon impianto stereo, quindi quando sono in versione turista e voglio visitare un sito a cui tengo non bado a spese. Intanto perché invidio molto gli esperti tout-court di qualcosa, dopo ventiquattro anni di cose spiegate a cazzo senza saperne nulla è il minimo. Poi perché lo trovo un mestiere avvincente, sin da quando chi mi ha accompagnato – quella volta gratuitamente – tra le mura del Castello di Chambord mi ha disegnato la pianta di ciò che stavo per vedere con la punta di un paio di Camper che gli ho invidiato moltissimo sulla terra del cortile. Anche lui, come me, un maschio ampiamente confuso sul genere di appartenenza, non tanto per i gusti sessuali tanto per le affinità con il resto della categoria.

E anche per visitare la Valle dei Templi il mio consiglio è di prenotare una guida in grado di condurvi dal Tempio di Giunone a quello di Castore e Polluce raccontandovi tutto per filo e per segno. La nostra è costata venti euro a persona ed è stata bravissima. L’unica critica che mi permetto è che i gruppi di sessanta visitatori circa, mescolati a migliaia di altri gruppi da sessanta visitatori circa, non sono facilmente gestibili e un microfono con un sistema di ricevitori e auricolari è il minimo sindacale. Vi consiglio anche di prenotare la visita delle diciassette e trenta, questo vi permettere di essere liberi poi di scorrazzare come preferite e di farvi il percorso al ritroso all’ora del tramonto e con il sito illuminato. Non fatevi tentare dalla visita solo notturna perché, se siete un minimo appassionati come me di storia antica, non ci capirete nulla.

La seconda visita guidata che ho acquistato è stata quella nell’ipogeo di un blog che seguo con elevato interesse sin dalla sua fondazione. Si chiama Alcuni aneddoti dal mio futuro. Anche in questo caso ho prenotato un esperto che mi ha accompagnato nel profondo della scrittura degli autori che pubblicano su questo spazio. Non ho capito se è uno solo o se si tratti di un collettivo o se è semplicemente uno multiforme.

Il fatto è che, per me, il mese di agosto costituisce il punto più basso del mio umore sinusoidale, per questo ho pensato che una sorta di perlustrazione letteraria intima e sotterranea potesse assestarsi in linea con quello che mi gira per la testa durante il periodo in cui siete in tantissimi a prendervi ferie da voi stessi e vi scordate di invitarmi.

Ero in spiaggia, ho letto un pezzo (che non riuscirei più a rintracciare), poi mi sono tuffato nell’acqua fredda e, forse per lo sbalzo di temperatura, mi è venuta una specie di attacco di panico. Ho chiesto alla guida di portarmi in superficie, entrambi indossavamo il caschetto con la lampada accesa e altri dispositivi di protezione individuale. La situazione mi ha ricordato un passaggio dell’Inferno di Dante che non sto a raccontarvi, intanto perché non saprei orientarmi su una roba che ho studiato trent’anni fa e poi non mi va di fare quello che se la tira perché ha fatto l’università. La mia guida mi ha suggerito di guardare verso l’alto, nello stesso istante, anzi un paio di secondi dopo, sono emerso da sotto, respiravo forte e non ho capito se piangessi o era solo l’acqua del mare.

simmetrico

Standard

Se pensate che sia ferragosto a dividere l’anno a metà vi sbagliate di grosso. Anche se il 15/8 è il vero giro di boa, siamo molto più sbilanciati verso le vacanze di natale che mai. Dovremmo smetterla di festeggiare sempre negli stessi giorni. Programmare ogni anno la data delle ricorrenze darebbe una bella scossa al logorio della routine ciclica che ci portiamo appresso come un fardello per tutta la vita. A scuola stabiliamo i giorni più utili per allungare i ponti con un collegio docenti alla fine di ogni anno scolastico per quello successivo. Si dovrebbe fare la stessa cosa tutti insieme con un referendum globale. In che mese chiudere le fabbriche, quando celebrare il capodanno e le altre festività religiose e così via. Tanto, che differenza fa?

Ripensare il calendario contribuirebbe inoltre ad allontanare il rischio di overtourism soprattutto per i viaggi nel tempo. Se andiamo in centinaia di migliaia a goderci lo spettacolo dei nobili ghigliottinati in Francia, per fare un esempio, è chiaro che i giacobini a furia di vedere una massa di curiosi vestiti come pirla con gli smartphone in alto e tatuati peggio che i Maori potrebbero indispettirsi, e il rischio che qualche curioso ci lasci le penne, anzi, la testa non è del tutto da escludere. Anzi, la presenza a ridosso dei principali eventi storici alimenterebbe nei presenti il sospetto che qualcosa sta per accadere e, di conseguenza, provocherebbe ripercussioni sul prosieguo delle cose come le conosciamo, anche se non vi nascondo che questa fluidità nel divenire non sarebbe nemmeno poi così male. Voglio dire, partite in 200 per assistere all’invenzione del web, il tizio che sta smanettando con i protocolli vi chiede che c’è da guardare e voi gli mostrate certi tweet dei leghisti, lui cancella tutto e al ritorno vi ritrovate tutto diverso. Niente pc, niente social, niente deprivazione sociale ma un mondo equo e fiorente come ai tempi di Lorenzo il Magnifico. Sarebbe davvero una cosa bellissima. Nel frattempo, mi accontenterei di non dover fare il bagno a San Vito lo Capo nella piscia di migliaia di turisti come me.

in hoc signo vinces

Standard

Per ottenere quella che è la versione più tamarra di tutti i tempi di “Nel blu, dipinto di blu”, i Gipsy Kings hanno raddoppiato il tempo della prima parte del ritornello (dimezzando cioè in 4 battute le 8 di volare oh, oh, cantare oh, oh, oh, oh) mantenendo uguale all’originale la seconda (nel blu dipinto di blu, felice di stare lassù). Una trovata efficace grazie alla quale è stato risolto un problema strutturale che avrebbe potuto mettere a rischio la resa della banalizzazione a flamenco di uno dei pezzi italiani più conosciuti di sempre (ne avevo già parlato qui). Nessuno però si è mai preso la briga di spiegare al resto del pianeta che Modugno è italiano, i Gipsy Kings dio ce ne scampi. Eppure, durante i tempi morti degli incontri di pallavolo che sempre più tendono a una deriva da villaggio turistico, la versione ultra-chitarristica di quei quattro scappati di casa va per la maggiore. A me verrebbe da scendere dagli spalti o rompere la quarta parete sportiva per spiegare al dj animatore commentatore o come diavolo si chiama, con tutta la pazienza propria di un insegnante di scuola primaria, che tra quei rom francesi di origine spagnola, ideatori di uno dei format musicali più deleteri della nostra civiltà, e noi c’è una bella differenza. Un impeto che mi ha fatto riflettere ancora una volta sulla portata campanilistica delle competizioni sportive che, alle olimpiadi, raggiunge il suo apice e fa perdere la bussola anche alle indoli più anti-competitive e internazionaliste come il sottoscritto.

Dovremmo riflettere anche sul fatto che atleti e tifosi abitualmente rimettono la riuscita delle prestazioni sportive loro o della squadra del cuore alle divinità di pertinenza, i primi attraverso la gestualità imposta dalla religione praticata, i secondi in modalità preghiera. Un rito intimo che si ingigantisce a collettivo e che comporta un vero e proprio collo di bottiglia di query simultanee tra client e sistema di gestione della base dati, per usare una metafora informatica. Ipotizzando una entità unica in grado di soddisfare le richieste (indipendentemente dall’interpretazione delle diverse confessioni), nel corso di una gara o di una partita è facile immaginare quante auto-raccomandazioni e quante suppliche debbano essere processate. I dubbi che ne derivano sono molteplici: funziona in base alla tempistica in cui sono state registrate dal server, quindi vince chi si fa il segno della croce o punta il dito verso il cielo per primo? Oppure il creatore o motore immobile che sia ha una rappresentativa nazionale del cuore e fa il tifo per uno stato in particolare? L’Italia per via del papa? L’Arabia per La Mecca? Senza contare che, nel caso ci fossero tante divinità apicali quante sono le religioni al mondo, non dovrebbero fronteggiarsi anche tra di loro affinché il supporto vada a buon fine, proprio come succedeva ai tempi dell’Olimpo? E, nel caso, come viene interpretata la bestemmia di chi sbaglia un colpo?

analisi logiche

Standard

Ci sono cose che non invecchiano mai. Nello spot dell’acqua Uliveto si vede una versione di Paola Egonu di così tante extension fa da avere i riccioli ma, data la massima sovraesposizione delle pubblicità contestuali al palinsesto iper-sportivo, nessuno ci fa più caso. E poi, si sa, il telecomando ci permette di eludere i consigli commerciali anche se le interruzioni pubblicitarie sono sincronizzate tra tutti i canali, come certi tuffi di coppia alle olimpiadi, quindi finisce che rinunci ai consigli sull’acqua da bere ma ti ritrovi due emittenti più avanti a fare lo slalom tra merendine industriali che, con la bella stagione, assumono le sembianze di gelati. E non è per nulla di-ver-ten-THE. Lo sport mantiene giovani ma è l’eccezione che conferma la regola. Il resto è soggetto allo scorrere del tempo e non ci si può sottrarre.

Se vi può consolare, anche quando non sembra, le differenze di età restano comunque immutate. Se vi separano otto anni da qualcuno, faccio un esempio, sarà sempre così. Questo per dire che, a differenza della corsa, nessuno può raggiungervi e superarvi e, al momento del traguardo, potete stare tranquilli che non ci sarà nessun ex aequo. O, meglio, esistono i casi di gemellanza di questo tipo (pensate a una coppia che salta in aria in auto nel corso dello stesso attentato) proprio come persone che nascono lo stesso giorno dello stesso anno alla stessa ora, ma in fase di buonuscita non interessa più a nessuno. Chi se ne va, se ne va per sempre. Stesso criterio anche nel caso stiate inseguendo qualcuno. Potrete controllare sull’app che usate per tenere il tempo e tracciare il percorso se avete battuto qualche record in totale solitudine, ma saranno gli ultimi istanti di vita e dovrete fare in fretta se vorrete condividere l’esperienza sui social.

Potremo però dire di essere stati tutti a Parigi, quest’estate. Trovo interessante questo modo di viaggiare restando immobili, come dicevano i Jamiroquai, allo stesso modo in cui possiamo dire la nostra su qualunque tema anche se siamo dei ciarlatani a riguardo. D’altronde è il primo agosto e le periferie sono legittimamente deserte. Siamo tutti al Trocadero a seguire l’atletica, a Les Invalides a schivare le frecce, a sudare seguendo il Beach Volley sotto la torre più famosa del mondo. Ma chi dice che lo sport sia sopravvalutato è tutta una scusa, in realtà non ha i soldi per le tv a pagamento che coprono la manifestazione, tanto meno per andare in vacanza. Così finisce per andare avanti con il suo tran tran, tanto parlare di sport è come nuotare di architettura.

l’ultima scena

Standard

Se è vero che ogni olimpiade ha una sua peculiarità, l’edizione di quest’anno non ha precedenti, a partire da chi la segue in pantofole. I giochi numero XXXIII hanno coinciso con la mia resa incondizionata all’installazione del condizionatore in casa, e in questo torrido scampolo di estate che precede l’agognata partenza per le vacanze posso fruire di uno spettacolo di cui normalmente non me ne fregherebbe una mazza ma che, spiaggiato sul divano al fresco sorseggiando una birretta, tutto sommato ha un suo perché e offre un’alternativa senza confronti ai vari techetecheté e alle serie tv. Il paradosso è che la sovraesposizione allo sport dei giochi olimpici comporta un binge watching altrettanto scrupoloso e compulsivo ma richiede meno della metà in concentrazione. Ne consegue che gente come me, che piegandosi non riesce nemmeno a toccarsi le dita dei piedi, può dedicarsi alle scorrerie sui social commentando a destra e a manca, con la dovuta cialtronaggine provocatoria, certi gesti atletici che non riuscirei a riproporre nemmeno fossi privo del corpo.

La regola numero uno della retorica dell’agonismo è che lo sport ci insegna tantissimo. Io ho imparato, per esempio, che nella scherma quando i due sfidanti si toccano con la punta dell’arma esultano entrambi perché la percezione di chi ha ottenuto effettivamente il punto è altamente soggettiva. Ci sono cioè alcuni istanti, che si ripropongono spesso, in cui tutti sono convinti di avere vinto ed è una cosa bellissima. A me piacerebbe che non ci fosse tutta questa urgenza di dimostrare di essere più forti, più bravi, più veloci o più agili. Ci si vede ogni quattro anni, si fa un po’ di allenamento insieme, ci si confronta per individuare oggettivamente chi è più in forma e si assegnano le medaglie. Senza partite, senza semifinali, senza rigori e, soprattutto, senza litigare.

Un approccio che manderebbe in bestia gli elettori dei fratellisti d’Italia e dei fascio-melo-casapoundisti che puntano tutto sulla prevaricazione fisica e sul maschioalfismo. Ma come? Non serve più dimostrare il nostro primato di italiani? si chiederebbero sbigottiti. Ma, purtroppo, la narrazione va in senso opposto. In questi primi giorni di giochi, nei casi in cui siamo stati giustamente battuti persino le autorità istituzionali dello sport italiano e non solo gli allenatori stessi ci hanno tenuto a dimostrare che il concetto di vittoria morale esiste, che si possono puntare i piedi e fare i capricci in caso di sconfitta, e che le regole dipendono da chi le deve osservare. È tutto (a partire dagli inviati RAI) un tutti “c’è lanno” con noi, dov’è la fiamma tricolore, dobbiamo vincere e vinceremo e se arriviamo quarti a 19 anni non è lecito essere felici.

L’edizione 2024 ci ha anche confermato la superiorità della Francia sul resto del mondo e, soprattutto, su noi italiani invidiosi, bigotti e rancorosi. La cerimonia di inaugurazione è stata una suggestiva e istruttiva passerella di civiltà, uno sfoggio della meritatissima grandeur transalpina che, al netto dei gusti, ci ha dimostrato che il patriottismo passa dai valori dell’inclusione, dell’accoglienza e della solidarietà, mica dai tatuaggi, dai saluti romani, dalle frecce tricolori e dalle canzoni de Il Volo. Per non parlare della padronanza della propria cultura, anni luce dalla pochezza e dall’incompetenza di chi ci rappresenta, sotto questo punto di vista. E il modo in cui abbiamo gridato allo scandalo è in perfetta linea con il nostro poraccismo. Ripartiamo piuttosto dal nostro inno nazionale, che sembra sempre di più una marcetta fascista colonna sonora di un trenino verso il nulla guidato da Alberto Sordi. Ho difeso tesi di questo registro sui social. Apriti cielo. Ho sostenuto che dai francesi abbiamo solo da imparare e sono stato sommerso di improperi. Però è così. Noi, al massimo, possiamo dare ripetizioni su come ci si lava a modino dopo aver fatto la cacca.

Tornando alle gare dei primi giorni, alcuni sport si confermano inutili al cazzo, a partire dal tiro a segno, altri altamente spettacolari, su tutti il basket quando in campo ci sono gli statunitensi. Ecco una cosa che ho imparato da questi primi incontri: guai a tentare di interrompere una corsa di Lebron James con il pallone in mano.

i nobiluomini

Standard

Parigi, 2054. In un futuro distopico, dopo decenni di video e foto postati a vagonate sui social a opera degli esseri umani, i gatti hanno preso il potere su tutte le altre specie viventi e, come prima cosa, hanno abolito le distopie per ovvie ragioni di naming (qualcuno ha proposto il neologismo disfelinia ma, al momento della stesura di questa sinossi, l’opzione non risulta ancora avallata). Nella magione di Duchessa, una miciona di razza Maine Coon in pensione, vive Adelaide, ragazze madre, con i suoi tre figli Bowie, Bansky e Bausch, insieme a Romeo, uno scaltro cinerino assunto con il compito di maggiordomo.

Duchessa è una gatta aristocratica (filantropica ma tutt’altro che filantopica) che si preoccupa molto del benessere dei suoi umani, non a caso considera Adelaide e i suoi tre figli come parte integrante della sua famiglia. Adelaide, una donna gentile e premurosa, si prende cura della casa e fa del suo meglio per crescere i suoi talentuosi figli: Bowie, che è un appassionato di musica; Bansky, un promettente artista; e Bausch, una giovane e raffinata ballerina di danza contemporanea.

Un giorno, Duchessa decide di aggiornare il suo testamento per garantire che Adelaide e i suoi figli ereditino la sua fortuna felina. Tuttavia, Romeo, il maggiordomo cinerino, scopre le intenzioni della padrona. Romeo, invidioso e avido, sogna di impossessarsi della ricchezza di Duchessa. Così, elabora un piano per sbarazzarsi degli umani.

Una notte, Romeo versa una boccetta intera di tranquillanti nel latte di Adelaide e dei suoi figli, li carica su un carro trainato da umani collaborazionisti e doppiogiochisti (elettori di Fratelli d’Italia) e li abbandona in una remota periferia della città, al sicuro da un possibile rientro. Quando Adelaide e i bambini si svegliano si trovano disorientati e spaventati, ma determinati a tornare a casa dalla loro amata Duchessa.

Durante il loro viaggio, incontrano un gruppo di sfollati randagi punkabbestia guidati da Sball’O Rey, un affascinante studente del DAMS con i dreadlocks d’ordinanza che si offre di aiutarli. Sball’O Rey, colpito dalla determinazione di Adelaide e dal talento dei suoi figli, guida il gruppo attraverso varie peripezie e avventure per tornare a Parigi. Incontrano anche una band di squattrinati e falliti musicisti post-punk guidati da Curtis, un giovane depresso che si unisce a loro nell’impresa con lo scopo di aiutarli.

Nel frattempo Duchessa, disperata per la scomparsa della sua famiglia umana, inizia una ricerca frenetica per rintracciarli, ignorando il coinvolgimento di Romeo nel loro rapimento.

Grazie all’astuzia di Sball’O Rey e all’aiuto dei loro nuovi amici, Adelaide e i suoi figli riescono finalmente a rientrare nella magione di Duchessa. Sball’O Rey tenta di convincere Adelaide della sua integrità e di essere una persona in grado di garantirle un futuro, nonostante il look, ma Adelaide, che cerca solo la sicurezza per i suoi figli, giustamente non si fida del suo aspetto poco ordinario. Sball’O Rey quindi si congeda tristemente ma è costretto a intervenire pochi istanti più tardi, quando Romeo cerca per l’ultima volta di annientare gli umani parassiti. Grazie al suo aiuto e a quello di Curtis e dei suoi musicisti depressi riescono ad immobilizzare Romeo, lo rinchiudono in un baule e lo spediscono in un campo profughi a Lampedusa. Duchessa, riconoscente e felice di rivedere i suoi adorati umani, accoglie Sball’O Rey come parte della loro nuova famiglia allargata.

Il testamento di Duchessa viene rettificato per escludere Romeo ed includere Sball’O Rey, che rimane a vivere in famiglia con gli altri umani, riscuote una parte del lascito e allestisce un centro sociale con annessa sala prove e scuola di bonghi in cantina. La gatta Duchessa dà vita infine a una fondazione di beneficenza che fornirà una casa a tutti i musicisti post punk depressi di Parigi. La storia si conclude proprio con un grande concerto di Curtis e del suo complesso nella villa di Duchessa, dove umani e gatti celebrano insieme senza pagare la SIAE (nella storia disfelinica l’ente per la tutela del copyright italiano è diventato nel frattempo una potente e influente multinazionale), suggellando un legame di amicizia e amore che va oltre le barriere di specie e di classe sociale.

tempi moderni

Standard

Il meme di Pablo Escobar che aspetta calza a pennello per le partite IVA che, inviata la fattura, si mettono in paziente attesa del bonifico. Avere una partita IVA non coincide con l’essere imprenditori, nel senso che lavorano in proprio sia quelli che hanno velleità imprenditoriali e stalkerano il mondo su LinkedIn, sia quelli che è solo per caso (o in quanto vittime della cialtronaggine dell’imprenditoria italiana) che non riportano a un responsabile che assegna loro delle mansioni. Gente come me, che nasce lavoratore dipendente ma, fino a un certo punto della propria vita, è impossibilitata a farlo.

Essere una partita IVA è da sempre allo stesso tempo un level pro del gioco della vita e un entry level del gioco dello stare in società, nel senso che io dipendente pubblico non sgarro di un centesimo nel pagare le tasse, se sei una partita IVA puoi aderire al movimento del commercialismo creativo e, a fronte delle attese alla Pablo Escobar, trovarti clienti stranieri, o italiani ma con domicilio fiscale oltre il San Bernardo, che dell’IVA e dell’Italia se ne fanno un baffo. Questo ve lo dice una cintura nera di sopravvivenza nel lavoro autonomo, una specie di isola degli sfigati con quel pelo sullo stomaco che poi però dobbiamo pettinarcelo se siamo costretti ad avvalerci della sanità pubblica, delle scuole pubbliche e di tutto il resto che, da quando sono dipendente pubblico, pago anch’io per tutti voi imprenditori e non dotati di partite IVA.

Ma ai tempi d’oro della partita IVA ho provato esperienze che noi umani dipendenti pubblici non possiamo nemmeno immaginare. Il rammarico più grosso va alle aziende e alle organizzazioni con cui, nonostante i numerosi brief e preventivi, alla fine è successo qualcosa per cui non abbiamo finalizzato. Non fraintendetemi. Non sono un vittimista, ma vi giuro che ci penso e ci ripenso e in nessun caso riesco a ricondurre la causa della collaborazione sfumata al mio modo di tenere (avevo scritto temere, pensate un po’) i contatti.

Il rimorso più grande per l’occasione perduta riguarda una realtà di Roma operante nel settore cinematografico e televisivo che mi aveva contattato per sviluppare una serie di cd rom multimediali – era il 97 o giù di lì – dedicati alle loro produzioni. Se non ricordo male, si chiamava proprio Tempi Moderni e, sul sito, campeggiavano i fotogrammi più iconici della celebre pellicola dell’intramontabile Charlie Chaplin. Io lavoravo a tempo pieno ma inquadrato (anzi es-quadrato) come consulente, ça va sans dire, per una software house locale, e ricordo di interminabili call (ai tempi telefoniche, il voip non era stato ancora inventato o comunque non era alla portata delle aziende con cui collaboravo io) a scrocco negli uffici in cui ero costretto a recarmi tutti i giorni, con il nuovo potenziale cliente, per definire tutti i dettagli della collaborazione.

Poi, improvvisamente, l’impeto e la forza che ci attiravano reciprocamente, la loro di azienda giovane e dinamica alla ricerca di rapporti professionali innovativi, la mia di partita IVA morto di fame in cerca di qualunque modo per sbarcare il lunario, dicevo l’impeto e la forza che ci attiravano reciprocamente improvvisamente sono evaporati. Un soffio. Puff e il potenziale lavoro era svanito. Da allora il significato del film di Charlot per me ha un doppio e triplo e quadruplo significato. Tempi moderni, chissà se comunque meglio dei tempi contemporanei. Ma ora è una cosa che non mi riguarda più. Sono anziano e sono un dipendente pubblico.

niente di tutto questo

Standard

Certe entità immateriali e metafisiche sono il top per chi si è stufato delle cose che si rompono o delle persone che eludono le aspettative. Bella scoperta, mi direte. Superstizioni, credenze e religioni sono lì proprio per questo e da un bel pezzo, da sempre customizzabili a costo zero, al massimo la stima di qualche simpatizzante dei competitor di ciò che abbiamo scelto per il nostro benessere. Ma, lo sapete meglio di me, si tratta di pratiche per le quali alcuni non si sentono all’altezza, o che altri ritengono totalmente inadeguate. Ci sono però efficaci vie di mezzo. Dispositivi consolatori intangibili ma dotati di quella concretezza percepibile da almeno uno dei nostri cinque sensi a partire dal fumo di una sigaretta, la cui fisicità è facilmente calcolabile sottraendo al peso della sigaretta intonsa e appena estratta dal pacchetto quello della cenere prodotta e dal mozzicone con il filtro una volta terminata, vi riporto qui la formula f = [s – (c + m)] per vostra comodità e per rintracciare meglio la storia da cui è tratta questa citazione. Ricordate solo che fumare, un vezzo che richiama pose altamente idealizzate e fin troppo spesso emulate, purtroppo fa malissimo ed è meglio piantarla subito.

Così nulla supera, in quanto a efficacia, il primato del beneficio della parola scritta e letta. Nel mondo ideale il monopolio sarebbe appannaggio della parola detta e ascoltata, ma noi esseri umani siamo troppo impulsivi, e gli svariati sottosistemi di autoprotezione attivi nella nostra coscienza mettono in quarantena – come un antivirus qualunque, uno di quelli gratuiti che rallentano i sistemi operativi e ci rovinano l’esperienza sull’Internet con call to action a cui nessuno dà seguito – la maggior parte degli stralci delle conversazioni a cui partecipiamo, nemmeno il prossimo fosse sempre lì a consigliarci qualcosa solo per un secondo o terzo fine.

Parole scritte e lette, dicevo. E poi non sottovalutate le potenzialità dei suoni. Le musiche si riproducono sempre uguali, niente è in grado di neutralizzarne il principio attivo, proprio come quella fiaba in cui si sostiene che nulla si crea, nulla si distrugge e tutto si trasforma. Al massimo il nostro stato d’animo, in ogni singolo istante che è quasi sempre diverso da ogni altro, ne hackera la composizione e ne colloca gli elementi fondativi così destrutturati in ricettori e decodificatori differenti rispetto a quelli previsti dalla formula originale, ma la sostanza non cambia. Anzi, no, la sostanza cambia eccome: è proprio l’effetto di questa specie di non materia che agisce per ricostruire e rimarginare ferite fisiche e non rimaste aperte, anche quando nessuno glielo chiede. A metà tra una reazione chimica e un evento miracoloso, la sicurezza della propagazione di onde sonore nell’aria, secondo una conformazione impossibile da modificare, può arrivare a salvarti persino la vita.

farfalle nello stomaco

Standard

Non ho mai capito il senso di ascoltare musica non deprimente. È una cosa senza senso, punto e basta, e non accetto contraddittori. La musica allegra fa schifo e se ne siete fan siete solo dei superficiali e se l’ho scritto è solo perché la musica allegra non esiste, nemmeno la fanfara del circo è una musica allegra, quindi se voi credete di ascoltare musica allegra perché vi fa stare allegri in realtà state ascoltando musica deprimente quanto me e confondete con l’allegria quella sensazione di appagamento che solo la musica deprimente può darvi. Quindi non dovete sentirvi offesi, non vi ho assolutamente dato dei superficiali perché il fatto non sussiste.

Vi dirò di più. In estate ascoltare musica deprimente è ancora più piacevolmente deprimente, e lo sapete perché? Perché con il caldo e l’afa e il soffoco la musica deprimente sublima, dà il meglio di sé, e alla sensazione di depressione sovrappone uno strato di fiera consapevolezza romantica, e cioè che per ogni ascolto chiusi in casa (anche senza aria condizionata) di qualcosa di veramente deprimente (per deludere i soliti detrattori delle persone che amano deprimersi con la musica e che ci accusano di essere fermi a “Dummy” dei Portishead o a “Ok Computer”, per non tirare in ballo sempre i Joy Division, ecco un consiglio di qualcosa di recente: le tracce più introspettive di “Tangk”, l’ultimo disco degli Idles), dicevo che per ogni ascolto chiusi in casa di qualcosa di veramente deprimente c’è qualcuno che ha dovuto interrompere la riproduzione dell’ultimo singolo di Annalisa o del tormentone reggaeton dell’estate – ce lo/la immaginiamo in costume, al tramonto sul bagnasciuga con una tazza di mojito in mano – a causa dell’energia negativa che abbiamo insufflato nel mondo grazie alla nostra determinazione a mantenere vivo il legame tra umore e sottofondo sonoro. Una sorta di rivisitazione della teoria di Edward Lorenz: il battito d’ali di una farfalla qui a Milano è in grado di provocare un uragano in Nuova Zelanda, anche se in realtà è più facile il contrario, se vogliamo dare una spiegazione a certi temporaloni che non si erano mai visti prima, da queste parti.

Non solo. Non so per quale altra legge matematica ma ho la casa infestata di farfalle della pasta. In principio uscivano i vermi bianchi dalle fottute pareti, non vi dico quanti ne ho eliminati. Quindi alle larve sono subentrate le farfalle. Il punto è che non ho ancora identificato la causa, ma ho pulito con l’aceto il pensile della cucina dove conservo pasta e farine. Per mia fortuna, tutti quei battiti d’ali hanno causato solo una sensazione di materia in decomposizione, in perfetta sintonia con certi ellepì che in questa stagione ricca di contraddizioni mi va di ascoltare. La cosa divertente sarebbe trovare il covo delle farfalle della pasta in una confezione di farfalle, nel senso della pasta (ho una scorta di pasta Armando in dispensa, è la migliore pasta che abbia mai provato).

Un corto circuito che mi manda in tilt tanto quanto sembra in tilt mia figlia, che si sveglia con lo stomaco infestato di farfalle per la storia d’amore che sta vivendo. Per sdrammatizzare, vi ricordo che in tedesco farfalla si dice schmetterling, che è una parola che non è romantica per un cazzo, considerando che, pronunciata a pochi millimetri dalle labbra della/o propria/o amata/o, il rischio di sputazzarsi addosso è concretissimo. Anche perché, se la legge di prima è vera, uno sputo qui può causare chissà quale maremoto agli antipodi dei sentimenti.

spingilo

Standard

Il paradosso del monopolio culturale a stelle e strisce che, a partire dallo sbarco delle truppe alleate in Sicilia, si è consolidato dalle nostre parti, è che alcuni registri artistici sono impossibili da localizzare per ovvie barriere linguistiche e, qualora se ne tenti l’appropriazione con l’obiettivo di sdrammatizzarne il tentativo (perfettamente riuscito) di colonizzazione, facilmente i risultati risultano correnti a sé, riconducibili all’archetipo ma tutto sommato permeate da una propria dignità. Pensate al jazz italiano (che poi non è jazz) o al rock italiano (che poi non è rock). Per non parlare del rap italiano e soprattutto della trap, la vera eccezione che conferma la regola. I trappisti locali non ci pensato due volte a troncare le parole mozzando l’ultima sillaba, con il risultato che noi boomer – qualora scendessimo dal nostro piedistallo post-punk per dedicare la giusta attenzione a questa generazione di tamarri tatuati, tossicodipendenti e depilati – non capiremmo nulla ma ci limiteremmo a percepire il feeling del groove allo stesso modo in cui ci approcciamo ai loro omologhi afro-americani, o come accadeva ai tempi in cui ascoltare l’old school faceva figo. In questo contesto, uno degli effetti più imbarazzanti (sia da un punto di vista linguistico sia sotto il profilo meramente musicale) è costituito dalle riduzioni in italiano dei rap nei film e nei telefilm.

Il punto è che, lasciato in lingua originale, lo slang dei ghetti e dei sobborghi, nessuno ci capirebbe un’acca. Mi è capitato di assistere a svariati tentativi fallimentari nel corso della storia del rap, ora mi vengono in mente solo alcune scene di “House Party”, o il tizio che propone orologi di dubbia provenienza a Auggie Wren in “Smoke”. Ma pensate alla sigla di testa di “Willy, il principe di Bel-Air”, che già l’originale, pur essendo ancora il 1990, era già una versione cosplay dell’hip hop, figuratevi la sua resa in italiano.

L’ultimo esempio dello scempio linguistico a cui purtroppo siamo condannati viene dalla campagna di spot televisivi del prodotto Sodastream che ha localizzato – a proposito di old school – “Push it” delle Salt-n-Pepa che di per sé, a parte i balletti altamente cringe, non sarebbe nemmeno un’idea campata in aria. Per farvi capire, ascoltate lo spot per il mercato tedesco:

quello francese:

ci tocca persino prendere lezioni dai polacchi:

fino all’orgoglio italiano:

Push it real good!