rapporti

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Le persone che conosciamo potrebbero essere in mille modi diversi da come sono. I nostri cari, i colleghi al lavoro, certi amici e persino la gente con cui ci capita di condividere brevi sentieri della nostra vita. Il discorso vale anche per me e voi, certo, ma noi siamo fuori concorso perché qualche certezza occorre sempre mantenerla. Quindi visto che l’idea l’abbiamo avuta noi, è giusto che a cambiare ci pensino gli altri. Se sapete di qualcuno che vuole fare altrettanto, liberissimo di provarci. Questo pomeriggio mi sono guardato un po’ in giro per capire come vanno le cose. Ho preso la bici e ho pensato che un po’ di svago all’aria aperta era proprio quello che ci voleva. Andare in bici con il vento in faccia è una sorta di rimedio a tutto, una panacea. Ci sono siti e app con le mappe per i ciclisti dove puoi prepararti un percorso da seguire, con le distanze e le piste al riparo dal traffico. Sulla carta, anzi sul web, virtualmente ho già percorso centinaia di km qui intorno. La realtà però è differente. Basta qualche minuto che sento già la nostalgia di casa, del libro che sto leggendo, dello stereo e dei dischi. Poi non ho l’attrezzatura adeguata, specialmente per alleviare il fastidio del sellino, avete presente? Anche il casco, ci vorrebbe, non mi trovo a mio agio in strada, con tutte quelle macchine. Basta qualche incomprensione con la gente per capire se non è giornata per girare in bicicletta. Prendete il kebabbaro in centro, quello che ha appena cambiato gestione. Dall’ingresso è uscito un addetto alle consegne a domicilio sul monopattino elettrico a tutta velocità proprio mentre passavo lungo il tratto di pista ciclabile lì davanti. Ci siamo fermati entrambi in tempo e non è successo nulla. Poco dopo ho attirato le ire di un’automobilista che non era certa di avere spazio sufficiente per superarmi, e quando lo ha fatto l’ho sentita gridare qualcosa a sottolineare il mio incedere. Ha parcheggiato appena svoltato l’angolo successivo, l’ho guardata per capire quale fosse il problema ma, ancora chiusa in auto, ha fatto di tutto per non ricambiare l’attenzione. Così ho pensato fosse meglio rientrare a casa, dedicarmi a ciò che dicevo prima di preferire, il libro e la musica, ma poi mi sono venute in mente queste considerazioni. Ho pensato che sarebbe bello saper scrivere bene ma non necessariamente per scrivere libri, giusto solo per raccontarsi certe cose da poco che si provano quando non ci sono grandi emozioni da condividere.

dal conto arancio al conto in rosso

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Proviamo a immaginare uno scenario in cui tutti i servizi di streaming musicale improvvisamente cessino di esistere. Proprio tutti. Paura, eh? Sono convinto che l’inferno sia così, a parte per chi ha messo da parte un migliaio di dischi in vinile, qualche centinaio di cd e svariati tera di mp3 scaricati illegalmente nel corso degli ultimi venti e passa anni, sempre che poi ci sia concesso di portare tutta la nostra collezione nel posto in cui saremo destinati dopo la morte. Non sto parlando necessariamente di me, sia chiaro. Ma il rischio di contare esclusivamente sulla disponibilità della rete è questo: un blackout termonucleare globale o qualcosa di simile, una guerra, un attacco dei fantomatici pirati informatici russi e addio corsette con Spotify in cuffia. Non riesco a pensare a niente di peggio. Anzi sì: ti svegli un giorno è scopri che dei tuoi risparmi sul conto online non c’è più traccia e, anzi, hai un livello di rosso da capogiro.

Ieri è andata più o meno così. Sono uscito a ritirare tre pizze d’asporto, tra cui una delle mie preferite con patate lesse, fagioli e cipolla. Ho appoggiato il mio bancomat al dispositivo SumUp e mi sono visto negare la transazione. Non mi sono preoccupato più di tanto. Quest’estate è stato un continuo gioco delle carte tra quelle di debito e di credito di mia moglie e le mie, per riuscire ogni volta ad adempiere all’obbligo di chiudere l’esperienza d’acquisto con quanto più o meno giustamente dovuto all’esercente coinvolto. In pizzeria ho risolto con la carta di credito. Poi, per curiosità, ho avviato l’app del mio conto Ing Direct per verificare se ci fosse qualche problema. E qualche problema in effetti c’era: il saldo del mio conto dava la cifra di meno 234 miliardi di euro. Giuro. Ci credo che, anche di fronte ai venti euro delle tre pizze, il sistema di pagamento si è così indignato.

La cifra era talmente assurda che non si poteva non pensare a un problema tecnico. Nel dubbio, rientrato a casa (con le pizze regolarmente pagate) mi sono messo al telefono e, dopo svariati passaggi da un menu al successivo, finalmente ho conquistato un posto in coda al contact center della banca. La sensazione di non essere l’unico autore di una spesa così sconsiderata a sporgere reclami altrettanto urgenti ha avuto la sua conferma grazie all’attesa folle che ho sostenuto per parlare con qualcuno.

Dopo più di trenta minuti la musichetta si è interrotta per lasciare posto alla voce di un operatore. Con accento napoletano mi ha chiesto conferma del mio nome e cognome e se chiamassi per avere informazioni sul debito contratto che, a meno di non aver acquistato uno stato intero, risultava estremamente improbabile. Il tutto condito con qualche battutina che, considerata la situazione, ha stemperato ogni ansia da parte mia. La conversazione mi ha fornito la certezza che fosse tutto sotto controllo e, dopo qualche ora, i 234 miliardi di euro mi sono stati per fortuna condonati.

Posso però capire il disagio provocato ai clienti che, poco dopo, ho letto sui profili social di Ing Direct: per me c’era in ballo solo una pizza (anzi tre) ma posso immaginare qualcun altro alle prese con spese più impegnative. Credo anche che un istituto di credito di quel rango non possa assolutamente permettersi un disservizio di quel tipo, con l’aggravante che si sta parlando di risparmi e, si sa, la gente sui soldi ha poca voglia di scherzare. E con tutti i marchingegni di Business Continuity e Disaster Recovery dei sistemi informatici a cui sono costrette le organizzazioni che operano nel settore credo che, malgrado il bug (o l’attacco hacker) reo della notifica di cifre così astronomiche ai risparmiatori, ci sarà voluto veramente poco per tornare alla normalità. Qualche ctrl+z e tutto passa. E la prontezza di spirito di chi mi ha fornito assistenza telefonica è stata davvero encomiabile. Ing Direct è perdonata.

Il fatto è che, in un contesto di soldi ormai quasi esclusivamente virtuali, è normale che ci prenda un colpo se vediamo svanire in un enter di troppo gli stipendi appena accreditati sui nostri conti correnti. Però, ecco, è sempre informatica e, per quanto infallibile e di ultimissima generazione, qualcosa che va storto purtroppo è da mettere in conto. Anzi, sul conto.

edizione straordinaria

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Lucia ha il cognome più corto che abbia mai sentito, una sillaba con l’accento che, quando risponde a chi le chiede come si chiama, sembra uno scherzo, più che un’abbreviazione. Ho immaginato per lei il finale di un film in cui la protagonista riesce in qualche modo a inserire, nella prima pagina di un quotidiano a larghissima diffusione, un articolo scritto di suo pugno al posto di quello principale, pochi istanti prima che la matrice vada in stampa. La denuncia del mobbing che la donna di cui è innamorata subisce proprio nella redazione di quel giornale in cui svolge le mansioni di segretaria di produzione, con tanto di foto del colpevole e della vittima. Lucia sa che la sua passione è ricambiata ma è consapevole che una relazione tra loro è fuori discussione. Ama una donna sposata, una giovane madre di famiglia, una donna per la quale una trasformazione radicale della vita non è mai stata contemplata in nessun piano, a nessuna età. Lucia ha premuto enter o quel tasto che serve per salvare il file che verrà riprodotto in centinaia di migliaia di copie cartacee. E come quelle storie che si concludono senza dare risposte ai lettori, o agli spettatori al cinema, nessuno saprà mai cosa succederà dopo. Si vede Lucia lasciare di corsa la sede del quotidiano mentre fuori è buio e la città si arrende a essere inghiottita da una nuova notte. Lucia si allontana di spalle fino a nascondersi tra la folla, il rumore dei tacchi che si confonde con quello del traffico, la scena che sfuma a nero, la colonna sonora, i titoli di coda.

chi fermerà la musica?

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Gli hacker, per esempio. La webzine che pubblica gli scritti musicali miei e di alcuni altri invasati come il sottoscritto è stata presa d’assalto sfruttando uno degli attacchi più efficaci del momento. Sapete come funziona il ransomware, vero? Qualcuno entra in casa tua di nascosto, cambia la serratura e per darti le chiavi ti chiede un riscatto in criptovaluta per non lasciare traccia. Se non paghi cancellano tutto. Il nostro dominio è gestito da una piccola società di amici che dubito abbia le risorse per non cedere all’estorsione, quindi con molta probabilità il sito della webzine andrà in vacca e perderemo tutto. Lo so che cosa vi state chiedendo, ma non sembra esistere una copia del database, che volete che vi dica. Abbiamo però salvato in ordine sparso molto del materiale pubblicato e, comunque, con la cache di Google e tanta tanta pazienza si riuscirebbe a mettere insieme tre anni di lavoro, anzi, di passione. Poi però dovremmo affidarci a WordPress per rifare il sito da zero. Insomma, non è certo una passeggiata. Il punto è che il ransomware è redditizio se lo utilizzi contro un’organizzazione media. Se l’azienda è messa bene sicuramente ha un sistema di Disaster Recovery da un’altra parte e, in quattro e quattr’otto, rimette online tutto. Se attacchi dei morti di fame come lo studio dei miei amici non cavi un ragno da un buco lo stesso, nessuno pagherebbe mai una lira. Se la vittima sta nel mezzo, magari con un po’ di culo ci si può guadagnare qualcosa. Il punto è che non ha senso che a rimetterci sia un gruppo di appassionati di musica. I lettori no, tanto erano quattro gatti. E comunque, se non vi piaceva quello che scrivevamo, bastava parlarne davanti a una birra. Tutto qui.

di seconda mano

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City car è il nuovo modo elegante per dire utilitaria. La mia è meno di una entry level, che è un modo altrettanto elegante per dire morto di fame. L’ho trovata su un sito di annunci di seconda mano e la vendeva un privato con cui ci siamo dati appuntamento in piazza Brescia per un giro di prova. L’auto era davvero senza pretese e io mi sono recato all’incontro con aspettative ancora inferiori, quindi c’è voluto poco per convincermi a chiudere l’affare. Il fatto è che si sono presentati in due dicendo di essere padre e figlio e che la macchina era proprio quella del più giovane, neopatentato, a cui il genitore voleva acquistare una vettura più dignitosa. I due, però, non si assomigliavano per nulla e la esigua differenza di età rendeva il loro rapporto parentale piuttosto improbabile. Ho pensato però che, trattandosi di stranieri, avessero usanze e stili di vita differenti da quelli italiani. Tranquilli, non sono stato truffato perché la macchina in questione funziona benissimo tutt’ora e continua ad essere perfetta per lo scopo per cui l’ho presa, con un rapporto qualità-prezzo davvero vantaggioso. Comunque, prima di chiudere la trattativa, mi sono rivolto a una amica assicuratrice che – da una ricerca sullo storico dei proprietari – ha scoperto che l’auto che stavo per comprare era ferma da mesi mentre, da come l’aveva raccontata il venditore, veniva utilizzata quotidianamente dal sedicente figlio. Non so perché i due avessero messo in pista questa sceneggiata. Forse pensavano di rendersi più credibili, in uno scenario in cui essere stranieri è ancora sinonimo di vivere grazie a espedienti. Addirittura si sono inventati al momento di avere un cane per giustificare la presenza di peli (malgrado l’abitacolo fosse perfettamente pulito) sul pianale del lunotto posteriore. Ho ripensato a questa cosa dopo aver visto l’ultimo spot di segugio.it. Un tizio offre un passaggio a due conoscenti e, al momento di ripartire, uno di questi (spero l’uomo seduto dietro, e non l’avvenente passeggera) molla una scoreggia. Io penso di aver visto di tutto in pubblicità, ma uno storytelling così truce non mi era mai capitato. Il bello è che subito dopo si vede il cane che fiuta l’inequivocabile cambiamento d’aria e introduce il claim con cui la compagnia (sedicente giusta) si distingue. Conosco certi padroni di cani che hanno cani così maleodoranti che, nella loro macchina, è impossibile salire. Quindi non saprei dire a cosa porti questa gara a chi puzza di più e a chi fa lo spot peggiore. Lo spot, però, l’avrei chiuso con una battuta: “Non ho scoreggiato! Te lo assicuro”.

confermare o ribaltare

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Certi locali pubblici nei centri storici delle città sfruttano la struttura degli edifici al cui piano terra sono ubicati come parte integrante dell’esercizio commerciale, adattando cantine e ripostigli scavati sotto il livello dei vicoli a vani fruibili con tutti i crismi e secondo le norme di sicurezza di settore. A Genova ne potete trovare molti anche se, per chi li ristruttura, scendervi per la prima volta non dev’essere uno scherzo. Ne hanno presentato uno in una puntata di quel programma basato sulle battaglie tra ristoratori per aggiudicarsi il premio di miglior locale del posto. Tutto molto bello e pittoresco ma, a dir la verità, l’ambiente metteva un po’ di claustrofobia.

È piuttosto facile seguire una puntata di quella trasmissione: basta accendere la tele a qualsiasi ora del giorno e della notte su qualunque canale del digitale terrestre perché state certi che, da qualche parte, ne stanno mandando in onda una. È piuttosto facile anche imbattersi sempre nella stessa, se siete fortunati in quella a cui mi riferivo poc’anzi. Il programma tutto sommato funziona ma ha una pecca: i partecipanti sembrano fare a gara a chi risulta più antipatico e a chi architetta i tiri peggiori a scapito dei rivali per accaparrarsi un premio piuttosto misero, se paragonato al fatturato di un ristorante di quel tipo. Non è il mio genere di posto, ma se dovessi scegliere dove andare a mangiare fuori opterei per chi è stato al gioco comportandosi nel modo più onesto.

Mi spiace solo che alla puntata dedicata alla mia città non abbia partecipato un’amica che aveva compiuto un’opera colossale, recuperando una serie di cisterne collegate sottostanti alla sua piccola tavola fredda. Un ritrovamento rocambolesco, una vera e propria storia da film: dietro a una parete postuma aveva rinvenuto una botola di accesso a una rampa di gradini ripidissimi. Le profonde cisterne, al momento della scoperta, erano colme d’acqua perché alimentate da una fonte che ora è stata messa in bella vista sotto al pavimento trasparente. Ricordo di aver provato l’ebbrezza di guardare in basso dalla cima delle antichissime scale che ha rimesso a nuovo ma, voltandomi, ho avuto l’impressione di una visita alle catacombe.

Ho rivisto questo stesso ambiente in sogno stanotte. Dietro di me si ammassavano donne, bambini, uomini e animali in barba alle regole anti-assembramento. Da lassù stavo tenendo una lezione proprio sulla storia che sto scrivendo qui, ma una mamma mi incalzava pregandomi di far leva sul mio ruolo di insegnante per sollecitare quella scolaresca eterogenea a indossare la mascherina. Ho esaudito la sua richiesta, aggiungendo che presto vaccino e green pass sarebbero stati obbligatori per tutti. Per fortuna nessun bidello mi ha preso a pugni in faccia – questo succede solo nella realtà – ma il collega che mi chiama più di tutti gli altri per risolvere i suoi problemi con il pc (compresi anche i casi in cui non funziona il wireless in casa sua) mi ha mostrato sul suo smartphone datato un nuovo meme di “Feudalesimo e Libertà”, in cui si illustrava, in un italiano arcaico, che con le nuove disposizioni la nostra vita sarebbe stata un interminabile rumore di ponti levatoi che si alzano e si chiudono.

Sono riuscito comunque a domare la folla e a consentire un’uscita ordinata di tutti da quel pertugio e finalmente mi sono coricato al buio in una specie di chiesa, come se qualcuno avesse adattato una cattedrale a dormitorio comune. Al posto delle coperte e delle lenzuola c’erano però quei drappi e quei pesanti tendaggi che si usano per addobbare le immagini sacre nei templi dedicati al culto. Al tatto coglievo la differenza con la freschezza che provo sdraiato nel mio letto vero e la cosa mi metteva agitazione tanto da urlare per la paura fino a quando qualcuno, sdraiato nel sogno a fianco a me, mi diceva di non preoccuparmi, che anche lui è un essere umano come me e che domani c’è scienze.

a secco

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A ridosso dei diciott’anni ho svuotato il libretto dei risparmi che mi avevano attivato i miei genitori da bambino per pagarmi la patente. Il libretto era un vero e proprio opuscolo protetto da una copertina in plastica di una texture e un colore riconducibili al cuoio. Nelle pagine interne venivano registrate, a penna e con il timbro della banca, tutte le operazioni di deposito e prelievo. Sino ad allora ero stato decisamente meticoloso sull’uso dei soldi che avevo da parte. Il costo della scuola guida era di poco inferiore a quello che ero riuscito ad accumulare, anche se – a onor del vero – da qualche tempo le mie esigenze erano aumentate e, da adolescente, non avevo mai più raggiunto i livelli di risparmiatore che avevo tenuto da piccolo.

Non ricordo perché avessi scelto di procedere in autonomia per il conseguimento della patente. Non credo che i miei genitori si sarebbero opposti. Probabilmente non volevo metterli con le spalle al muro per una uscita economica non pianificata e temevo che la mia urgenza di rendermi indipendente – per modo di dire, perché tra il superamento dell’esame e l’appartarmi con la mia ragazza da qualche parte c’era la necessità di disporre di un mezzo tutto mio, ostacolo non da poco ma a cui avrei pensato in un momento successivo – passasse in secondo piano dopo le priorità dell’intero nucleo famigliare.

E infatti l’intero processo si chiuse più di due anni dopo, quando mio padre mi fece trovare a tavola, in mezzo al tovagliolo, le chiavi di una Fiat Ritmo 60 bianca. Terminai il pranzo in fretta e furia per mettermi subito alla guida della mia prima auto. Ero a digiuno di pratica e, davvero, mi sfugge la spregiudicatezza con cui mi lanciai immediatamente nel traffico.

Ho ripensato a quella sensazione più volte, durante le scorse settimane di vacanza. Ho guidato per quasi 5mila km tra Italia ed Europa e non c’è stato istante in cui mi sia sentito mai completamente rilassato al volante. Si dice che da vecchi aumentano ansie e timori, il fatto è che ho viaggiato per ore e ore assalito costantemente da svariate paure irrazionali. Che mi si guastasse l’automobile all’estero, innanzitutto, e di dover ricorrere a carro attrezzi e officina in un paese straniero. Non ho più la Ritmo da trent’anni ma sono proprietario di un veicolo del 2007 che fa tutt’ora il suo dovere egregiamente, però non sempre ispira fiducia, tantomeno per un’impresa itinerante così impegnativa. Il mercato automobilistico è un continuo cambiare le carte in tavola sempre più frenetico per linee, tecnologia e approccio, e oggi una macchina di quattordici anni non trasmette affatto sicurezza. Scarrozzare la propria famiglia in giro, poi, ti fa sentire doppiamente preoccupato, perché oltre all’incolumità di chi guida c’è anche quella dei propri cari. E portare sulle strade un mezzo del cui controllo sei tu il responsabile è comunque un compito per nulla secondario.

Ma il timore che più mi vergogno di aver provato è quello di trovarmi senza carburante, di sbagliare i calcoli sulle distanze da percorrere e consumo di litri per chilometro. Guidavo sbirciando in continuazione l’indicatore del serbatoio tentando previsioni sullo spostamento della lancetta, che comunque sulla mia auto lo si può percepire in tempo reale. Ho invidiato, seduto all’interno dell’abitacolo ampiamente superato in quanto a optional per gli standard delle macchine di nuova generazione, i veicoli che mi sorpassavano e le loro prestazioni pensate per una mobilità moderna e sostenibile. Centinaia e centinaia di km con un pieno a fronte della mia necessità di soste continue per consentire al motore di raffreddarsi e, a me, di riposarmi dalla concentrazione imposta dal viaggio e tutte queste paure.

Naturalmente, come è facile immaginare, poi è filato tutto liscio. Si è accesa la spia dell’olio motore solo una volta, l’auto ha i suoi anni e lunghi percorsi a velocità elevate la costringono a funzionare a ritmi probabilmente fuori dalla sua portata. Il trucco è stare sotto i 110 e portare sempre con sé un paio di confezioni di olio da aggiungere. Quando ho parcheggiato sotto casa, a vacanza finita, ho sfilato la chiave pensando a come la vera ricchezza consista proprio nell’aver la possibilità di comprare risposte efficaci alle proprie paure – anche quelle infondate – e mi sono chiesto se, davvero, circondarsi del meglio sia la chiave per vivere in serenità.

souvenir

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Anche i morti di fame come me, quando sono in viaggio, non resistono alla tentazione di portarsi a casa qualche ricordino della vacanza. Un fenomeno a spiegazione del quale ci dovrà essere per forza una teoria psicologica. L’aggravante delle origini liguri al bagno di realtà indotto dalla ricorrente esiguità del budget a disposizione non possono nulla di fronte all’efficacia del marketing percepito, quello che fa sembrare attraente qualsiasi stronzata imbellettata per chi non è del posto.

In vacanza sono molto più vulnerabili a questo fascino sia gli allocchi che cedono a qualunque tipo di gadget smaccatamente pensato per turisti allocchi, sia i turisti che si credono intelligenti – ma che sono allocchi tanto quanto gli altri – che spendono pensando di fare affari con prodotti che in patria non trovano, ma che sono gadget smaccatamente pensati per turisti allocchi tanto quanto i primi.

Io, per dire, non resisto a:

  • gli scaffali di alimentari e di birre dei supermercati olandesi e tedeschi. Non so a voi, ma l’abitudine alla varietà e all’organizzazione dei prodotti della nostra grande distribuzione fa sembrare anche il più economico discount del nord-Europa il paradiso del benessere enogastronomico. Nomi ed etichette sconosciute e variopinte, in reparti sedicenti bio e sostenibili, ci colpiscono come i pacchi colorati sotto l’albero di Natale. La gamma di prodotti mai sentiti – per non parlare di quelli etnici dei quali, da noi, non c’è nemmeno l’ombra – fa breccia nella nostra predisposizione consumistica e nella nostra accondiscendenza alla produzione locale industriale mascherata da specialità artigianale.
  • gli scaffali di vini e birre dei supermercati francesi. Spero di non offendere nessuno, ma a parità di prezzo il vino francese è nettamente superiore a quello italiano. O almeno a me sembra così. Sono stato in Francia e non ho avuto nessun problema ad assaggiare una varietà diversa al giorno senza svenarmi. Tutto buono e ad alta digeribilità.
  • i banchi di gastronomia e di spezie dei mercati. Avete mai provato l’esperienza di un mercato provenzale? Nel sud della Francia coesistono Europa, Africa e Asia in un miscuglio di lavanda, za’atar e curry che induce alla salivazione anche le più interrotte papille gustative.
  • i negozi di abbigliamento di seconda mano. “Episode” è una catena di negozi second-hand olandesi che ha almeno un paio di presidi in ogni centro urbano. Non credo che sia tra i più economici, di certo sono quelli più forniti e quest’estate sono entrato in tutti quelli che ho incontrato. In genere la qualità degli abiti è ottima e il rischio di lasciarci un rene è concreto. Nessuno, però, supererà i charity shop britannici ma adesso, con la Brexit, sembrano sempre più distanti.
  • le bancarelle e i negozi di dischi. C’è poco da aggiungere. Il boom del vinile sta mettendo i bastoni tra le ruote dei collezionisti come me. Solo dieci anni fa, tra le bancarelle del Mauerpark di Berlino, ho pagato una sciocchezza alcuni 33 giri che oggi valgono dieci volte tanto. Siamo in piena bolla, quindi fare veri affari è sempre più difficile. Scartabellare tra i contenitori di dischi richiede un livello di abnegazione superiore a qualunque altra passione, soprattutto quando non sono ordinati alfabeticamente. Ma io non demordo e qualcosina, ogni volta, riesco sempre ad aggiungere alla mia collezione.
  • le bancarelle di oggettistica varia dei mercati delle pulci. Non c’è sentimento di impotenza più doloroso rispetto a notare una sedia o un tavolino anni 60 che starebbe perfettamente a casa propria nella postazione di un rigattiere a migliaia di km di distanza, con l’impossibilità di caricarsi l’oggetto dei desideri in macchina (soprattutto se sei lì in aereo). Quindi se amate questo genere di cose mettevi nello stato d’animo giusto, prima di girellare tra i banchetti dei mercatini delle pulci, consapevoli del fatto che molti dei componenti di arredo che vedrete dovranno restare lì, pronti per essere acquistati da qualcuno del luogo.

Quando si pianificano le vacanze è fondamentale considerare nei preventivi la voce relativa alle proprie debolezze. Dovremmo finirla di fare finta di non conoscerci affatto e pensare di esserci trasformati in chissà chi. L’effetto delle ferie, purtroppo, svanisce con il primo estratto conto della carta di credito.

vacci piano con i Depeche Mode

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Non so a voi ma a me la versione rallentata di “Just Can’t Get Enough” di questo spot fa sanguinare le orecchie. Ma poi che bisogno c’era?

modern love

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Le short story o le ami o le odi. C’è anche l’opzione così così ma fa meno effetto e non va bene per un incipit, e a dirla tutta avrei potuto usare il termine racconti, che in italiano suona benissimo. Allora ricominciamo.

Non a tutti piacciono le raccolte di racconti perché le storie sono belle quando sono lunghe e non c’è storia (nel senso del gioco di parole) rispetto a questa sorta di zapping narrativo. Spalanchi la porta in una stanza in cui succede qualcosa senza sapere l’inizio e la fine e poi la richiudi per passare al racconto successivo. Molti di voi sono stati iniziati a questa specie di speed date letterario da Carver, suppongo, e dalla trasposizione cinematografica che ne è stata fatta da Robert Altman.

Ai tempi delle serie tv come principale passatempo intellettuale (senza virgolette) non sono pochi i titoli che si sono avvalsi della tecnica della sveltina intesa come successione di episodi da una botta e via slegati tra di loro. Io adoro questa modalità di fruizione perché – con le dovute eccezioni – la dipendenza dalla trama per arrivare alla conclusione, la stessa che induce al binge watching, mi suscita l’effetto opposto e mi fa disamorare da ciò che sto seguendo. Una serie suddivisa in capitoli indipendenti è sicuramente più facile e alla mia portata.

Ho iniziato ieri sera la seconda stagione di “Modern Love”, la serie che racconta certe storie d’amore pubblicate nell’analoga rubrica settimanale del New York Times. La cosa bella è la varietà delle sceneggiature, multiforme proprio come i miliardi di modi che trova la gente per innamorarsi. “Modern Love” si può approcciare sia che abbiate l’indole romantica oppure che siate freddi e cinici catalogatori di casistiche e compilatori di liste. Siamo alla seconda stagione e le combinazioni tra protagonisti e scenari sono ancora innumerevoli. E la varietà di ciò che succede fa rosicare d’invidia la gente come me che vorrebbe inventarsi le storie d’amore da scrivere ma non vede al di là del proprio naso, seppur poco ordinario. “Modern Love” – si trova su Prime – vi metterà nelle migliori condizioni per svoltare con la vostra vita all’ennesimo settembre che ci osserva dietro l’angolo con tutte le sue incombenze. Il più sicuro paracadute per lanciarvi nel vuoto della nuova stagione – quella della vita – che va a incominciare.