il dubbio

Standard

Non ho mai capito perché la canzone “Jesahel” dei Delirium, la band che ha messo in luce le straordinarie doti di Ivano Fossati, pur essendo un brano dalla melodia smaccatamente soul con sconfinamenti addirittura nel gospel (vedi i botta e risposta tra voce solista e coro parodiati persino negli inni degli ultras da stadio), aspetti che fanno del pezzo più famoso del gruppo genovese un brano di black music potenziale a tutti gli effetti, sia stata composta con una ritmica così moscia e inadeguata. I battiti forti sull’uno e sul tre ne irrigidiscono la fluidità e ne ammazzano il groove. Lo ascolti, vorresti muoverti e partecipare a ritmo ma tutto è fermo, impacciato, quasi surreale. Una successione regolare di colpi inesistente in natura, che inibisce il trasporto – tipico della musica, soprattutto del sound di quei tempi – e allontana l’emozione di pancia, relegando la bellezza della composizione come prerogativa della componente melodico-armonica che, pur straordinaria, lascia il desiderio inappagato.

Prova ne è che, poco dopo, “Jesahel” fu oggetto di un revamping da parte di Shirley Bassey, una che di rhythm and blues e di soul se ne intende. Chiaro che la sua cover, agli antipodi in quanto a carnalità, esaspera i timbri della black music com’è giusto che sia. A me piacerebbe ascoltare una sana via di mezzo, con Fossati e tutta la sua ghenga sul palco di Sanremo che battono le mani sul due e sul quattro, come dovrebbe essere per tutta la musica.

ti prego non mettere in copia Cinzia

Standard

Una cosa su cui mi trovate pienamente d’accordo riguardo il lavoro da casa che ho letto tempo fa e che ho anche riportato qui da qualche parte – solo che non in questo momento ritrovo il link – è che il passo dal lavoro da casa all’isolamento è assai breve. Si faceva l’esempio dell’Overlook Hotel e di come vivere con i contatti con il prossimo ridotti all’osso possa mandarti seriamente in tilt. Lo smart working evita il bagno di folla e tiene al riparo dalla gente, siamo d’accordo. Ai tempi del Covid chiunque può risultare un appestato e starsene alla larga dai rischi è una tentazione irresistibile. Il fatto è che io e voi siamo animali sociali, quante volte ce lo siamo detti, e dagli altri c’è sempre da imparare.

Ieri ho preso un treno in Cadorna in quello che, ai tempi pre-pandemia, era l’orario di rientro degli impiegati e in pochi minuti ho avuto la fortuna di ritrovarmi circondato da dialoghi estremamente interessanti. Le persone conversano tra di loro. Le persone conversano con altri al telefono. La cosa più bella di cui sono stato testimone è stata una chiamata di lavoro in cui una delle due interlocutrici, quella che si trovava a pochi passi da me, ha detto a chi si trovava all’altro capo della linea una delle affermazioni più avvincenti che mi sia capitato di sentire al di fuori della mia confort zone da quando giriamo con la mascherina e ci dobbiamo spalmare il gel antisettico sulle mani. “Ti prego non mettere in copia Cinzia”, ho sentito esclamare. Un monito a cui non occorre aggiungere altro. Una richiesta d’aiuto. Almeno, io la ho interpretata così.

Vi chiederete cosa ci sia di così speciale. So che qualcuno di voi è stato insignito dell’onere di pensare al titolo di un romanzo ed è da settimane che seguo dibattiti a proposito. Qualcosa che, stampato su una copertina, accompagnato da un disegno realizzato in uno di quegli stili che vanno tanto di moda e che attirano i lettori che si fanno attirare dalle copertine che strizzano l’occhio alla grafica di tendenza, attiri i potenziali lettori che si fanno attirare dalle copertine che strizzano l’occhio alla grafica di tendenza e li induca a metter mano al portafogli.

Tu che hai proposto “Un libro da leggere” mi hai convinto all’istante. Io lo comprerei immediatamente. Peccato che ora ci siano ben altre priorità. Quell’altro che esternava discorsi inconcludenti e che pensava che strizzare l’occhio alla letteratura americana avrebbe spalancato le porte delle classifiche dei best seller ha toppato in pieno ed è stato – giustamente – mandato a quel paese. Per questo vi propongo, come titolo, “Ti prego non mettere in copia Cinzia”. A me è piaciuto talmente tanto che non solo penso sia una figata, ma ho anche pensato di cambiare il nome a questo blog. Basta con alcuni aneddoti e sa il cazzo che cosa voglia dire. Immergiamoci nella folla. Mettiamoci la mascherina e prendiamo i mezzi pubblici. Ascoltiamo di che cosa parla la gente. Ti prego non mettere in copia Cinzia. Ripartiamo da qui.

ritorno al futuro

Standard

Non è facile conciliare un’ammirazione smodata per il Futurismo con una profonda, estrema e radicatissima coscienza antifascista. Per giustificare questa dicotomia possiamo raccontarci la favola di Mario Sironi e Gianni Rodari.

Il primo, nazifascista dichiarato anche se per opportunismo, come tutti quelli che si sono cagati sotto e non hanno aderito alla Resistenza, scappava a gambe levate dalla Liberazione.

Il secondo, comandante partigiano e, in quanto tale, giustamente pronto a far passare per le armi i seguaci del mascellone traditore del popolo e saggiamente capovolto in Loreto, amante dell’arte, dell’intelligenza e, quindi, a differenza dei seguaci del mascellone traditore del popolo e saggiamente capovolto in Loreto che massacravano donne, vecchi e bambini in quanto incapaci di tener testa ai propri biechi istinti (gli stessi che oggi ci inducono a massacrare immigrati come barbaro allenamento per i nostri sport estremi) e al tedesco invasore, pronto a interporre il proprio buon senso all’istinto ferale, riconosceva in extremis uno dei massimi interpreti del Futurismo, lo salvava al confine con la Svizzera dalla fucilazione a cui sarebbe stato destinato, e gli firmava un lasciapassare per consentirgli di perseverare a onorare con la bellezza la nostra tradizione artistica.

Grazie a Gianni Rodari e alla grazia concessa a Mario Sironi (e grazie un po’ anche al cazzo) possiamo così mettere in salvo intere generazioni di studenti da Tik Tok ma possiamo anche ammirare la produzione di Mario Sironi alla mostra allestita presso il Museo del 900 di Milano.

Io l’ho visitata sabato scorso e l’ho trovata straordinaria. Se avete già visto il Museo vi consiglio di svoltare subito a sinistra dopo il controllo green pass e biglietti (tra l’altro sabato scorso l’ingresso era gratuito) e poi ancora a sinistra, appena entrati nel bookshop, dove comincia la mostra. Altrimenti – giustamente – gli operatori vi confondono le idee indirizzandovi verso i piani superiori, che comunque sono strapieni di vestigia del novecento, a partire dal Quarto Stato (che trovate invece a destra dopo l’ingresso, salendo il corridoio elicoidale che ricorda quello del Guggenheim di New York) per continuare con Casorati, De Chirico, Balla, Carrà e via dicendo.

Il caso vuole che proprio oggi il sindaco di Milano uscente e, come speriamo tutti, rientrante dopo il primo turno, annunci che

Il Museo del Novecento di Milano ospiterà la collezione Mattioli. È una splendida notizia per la città, perché significa che la più importante collezione d’arte privata su Futurismo e Metafisica, con capolavori di Boccioni, Balla, Morandi e Sironi – solo per ricordarne alcuni – potrà finalmente essere ammirata.


Insomma, la monografia su Mario Sironi dura fino al 27 marzo. Prenotate e andateci e innamoratevi come me del Futurismo, che come il Bauhaus o l’arte sovietica si è sviluppato in un momento sbagliato. E continuate a lasciarvi prendere ancora dai rigurgiti antifascisti, mi sa che ce ne sarà bisogno ancora per un bel po’.

guarda un po’

Standard

Parlare di fronte a una moltitudine di persone comporta l’annoso problema di chi guardare mentre si parla. Non solo: quando l’uditorio è composto da gente con la mascherina chirurgica, e in tempi di Covid è la normalità, si distinguono solo occhi sgranati (e in alcuni casi attenti) di tutti i colori, mentre i particolari del campo visivo scoperto a disposizione si riducono vistosamente. A scuola funziona così. L’insegnante, quando è assorto nella sua esposizione, facilmente si scorda del numero di studenti davanti e si smarrisce nella sua confort zone di quei due o tre alunni che sa per certo che lo stanno ascoltando, anche se in realtà i due o tre alunni che l’insegnante sa per certo che lo stanno ascoltando ricambiano lo sguardo dell’insegnante perché non possono fare altrimenti. Anzi, probabilmente hanno già sviluppato una strategia che gli permette di scindere ciò che osservano da ciò che pensano, come se avessero un salvaschermo di cortesia con la migliore espressione attenta mentre, dentro, il sistema operativo è un modalità stand-by.

A me viene da puntare sempre verso gli stessi banchi, quelli in fondo, e credo si tratti di un’esigenza frutto di un calcolo matematico a cui contribuiscono la mia altezza e il fatto che, quando spiego, sto sempre in piedi. L’angolo di incidenza del mio sguardo, privo di controllo, raramente va a intercettare le prime file. Sono troppo vicine e dovrei inclinare la testa verso il basso in modo innaturale, mettendo a rischio la cervicale. Poi però mi rendo conto che guardo negli occhi sempre gli stessi bambini, quelli negli angoli in fondo a destra e a sinistra, così cerco di sforzarmi a variare la messa a fuoco. In quanto uomo e di mezza età, però, fare due cose contemporaneamente – concentrarmi su quello che dico e variare in modo uniforme l’obiettivo – non mi riesce, così alla fine torno sempre lì.

Il rischio è che qualcuno si senta perseguitato, ad avere costantemente i miei occhi addosso. Ci vorrebbe così una lista di comportamenti da osservare, da tenere sempre a disposizione, come quei mini portaritratti dei figli che si appiccicano sul cruscotto dell’auto con il monito “papà non correre”. Nella mia dovrei scrivere a caratteri cubitali di:

  • passare in rassegna tutte le facce che ho davanti dedicando lo stesso tempo a ciascuno
  • parlare lentamente
  • non pulirmi le mani sporche di gesso colorato sui pantaloni
  • controllare se Cecilia si è persa nel frattempo in quel buco nero che la inghiottisce se non le si presta attenzione
  • fare attenzione che resti tempo sufficiente a dettare i compiti e il materiale per il giorno successivo sul diario
  • non abbassare la mascherina.

Tutto il resto viene da sé.

fresco

Standard

Il sistema che regolamenta la scansione delle stagioni è dettato da fattori che talvolta esulano da ciò che impone la natura, al netto del cambiamento climatico che stiamo vivendo. Se chiedi a una scolaresca come la mia quali sono i mesi di cui si compone l’estate è facile che ti rispondano giugno, luglio e agosto, quando invece le cose non sono proprio così. Ne sappiamo qualcosa noi, gente del novecento, che abbiamo provato l’ebbrezza del rientro in classe il primo di ottobre. In quella che sembra un’era geologica fa probabilmente l’organizzazione della scuola funzionava meglio perché c’era più tempo. Il personale amministrativo rientrava come i docenti dalle ferie il primo di settembre e c’era un mese pieno per reclutare gli insegnanti e partire con il piede giusto. Poi si è anticipato l’inizio delle lezioni di tre settimane ma il resto del calendario non è cambiato di molto. I motori della macchina organizzativa che parte dal ministero, passa per gli uffici scolastici regionali e provinciali e si parcellizza nei singoli istituti a scapito dei dirigenti e del loro staff si accende a ridosso del primo collegio docenti e rispettare una tabella di marcia è una sfida persa in partenza.

Lasciate perdere gli annunci a effetto wow della politica: a noi mancano sei docenti di matematica e scienze su sette, per dire, e meno male che c’è appena stato un concorso focalizzato sulle discipline STEM. Il registro elettronico va a regime in media a metà ottobre, stesso discorso per l’orario definitivo, la disponibilità di palestre e laboratori eccetera. Per non parlare degli interventi di manutenzione a carico dell’amministrazione comunale, che difficilmente terminano prima della campanella d’inizio. Ai non addetti ai lavori sfugge il motivo per cui non sia possibile regolare in modo più efficace gli ingranaggi che fanno funzionare il tutto sia a livello locale che nazionale. Se non è possibile far tornare il personale docente e non docente a scuola a metà agosto, in modo da garantire efficienza già dal 13 settembre, perché non si spostano in avanti le date del calendario scolastico facendolo durare dal primo ottobre al 30 giugno?

Io me li ricordo bene i mesi di settembre ancora in vacanza. Per certi aspetti erano i migliori. Avevo una casa in campagna, mi dilettavo a cercare funghi nei boschi e la sera, a spasso in bicicletta con gli amici, era bene coprirsi. Oggi ho provato una sensazione di fresco come quelle di allora, forse è stata la prima del nuovo anno scolastico, e il confronto mi ha messo di cattivo umore. Per fortuna che è durata poco, la scuola non è certo un posto per gente che patisce le alte temperature.

E così come ai grandi, anche ai bambini non piace stare in classe quando fa caldo. Forse è per questo che i miei alunni sono convinti che il primo giorno di scuola coincida con il primo giorno di autunno, e quando gli dici che bisogna aspettare l’equinozio del 22 ti stupiscono con la loro espressione meravigliata. Qualcuno si chiede che cosa ci facciamo qui. Qualcun altro si presenta già con la felpa sopra la maglietta, in pieno mood da rientro. Io ho provato stamattina a indossare una camicia leggera di colore azzurro chiaro con le maniche lunghe, ma a metà lezione ero già pezzato nei punti in cui sudo di più. L’esperienza mi ha insegnato a prediligere i capi di abbigliamento scuri per dissimulare il disagio e non suscitare ilarità nel prossimo, soprattutto nei bambini che interpretano le chiazze sui vestiti dei maestri a loro modo come macchie di Rorschach qualsiasi, ma vi assicuro che, dopo una certa età, certe brutte figure sono l’ultimo dei problemi.

morto di fame

Standard

Il mio vicino del piano di sopra è algerino e ha un nome che si pronuncia in modo ma si scrive in un altro. La scorsa mattina, erano le sette, ci siamo trovati nel parcheggio dietro casa. Le nostre figlie frequentano le superiori a Milano ed entrambi le accompagniamo al capolinea della gialla. Non ci siamo mai accordati per ottimizzare questo servizio di trasporto. Si potrebbe fare un giorno a testa, no? Il fatto è che più che un servizio è un vizio senza il ser davanti, e non comporterebbe sufficiente abnegazione se non dipendesse anche dalle tempistiche di risveglio e preparazione all’uscita. Siamo pazzi: nessun genitore mi ha mai fatto da taxista, e mi chiedo quanto resterà delusa mia figlia quando scoprirà che nessuno, al mondo, sarà mai così gentile nei suoi confronti come noi. Comunque a me e ad Assan, che si scrive Achen, capita di incrociarci nel parcheggio. Lui addirittura aspetta la sua principessina con il motore acceso, credo per scaldare l’abitacolo e aumentare il livello di confort. Venerdì scorso ci siamo incontrati lì ma non ci siamo nemmeno salutati. Qualcosa di diverso aveva catturato l’attenzione di entrambi e c’erano ben altri argomenti di conversazione. Nel mezzo del parcheggio qualcuno aveva lasciato un’alta colonna di vaschette in plastica trasparente di cibo cinese. Almeno una dozzina di quei classici contenitori che si usano per il cibo d’asporto, l’alternativa moderna e fighetta ai recipienti in alluminio che, per vedere cosa c’è dentro, devi sollevare il coperchio di cartoncino oppure fidarti di quello che chi l’ha confezionato ha scritto sopra. Una torretta in cui si intravedevano ravioli al vapore, noodles, pezzi di carne di matrice indistinguibile abbinata a verdure di tipo indistinguibile e immersa nella solita salsa dalla composizione indistinguibile. Né io né Assan, o Achem come si scrive, siamo riusciti a spiegarci l’origine di quella curiosa apparizione, che stava a me e a lui – due pessimi educatori della propria prole – come il monolite è stato alle scimmie kubrickiane. Forse, nella notte, un rider non ha trovato l’indirizzo della consegna o qualcuno non si è presentato all’appuntamento del ritiro. Oppure è stato uno scherzo: qualcuno ha ordinato tutto quel ben di Mao, ha dato una via falsa e l’addetto al trasporto ha lasciato i contenitori nel posto più prossimo all’indirizzo concordato. Le scatole erano chiuse, ben sigillate, e non vi nascondo che se non ci fosse stato testimone Achen, o Assan come si pronuncia, sarei andato più a fondo nella vicenda. Certo, non mi sarei mai fatto vedere da mia figlia, che chissà cosa avrebbe mai pensato di suo padre.

stare al gioco

Standard

La questione più difficile da dirimere in classe è quando Lucilla mi si avvicina con il broncio per avvisarmi del fatto che Asia non vuole giocare con lei. Ci vorrebbe un corso di gestione delle relazioni interpersonali dedicato alla soluzione di questo tipo di crisi, che sono le più difficili di tutte. Dovrei chiamare Asia per convincerla a giocare con Lucilla, o suggerire a Lucilla di non rompere il cazzo ad Asia perché Asia vuole rimanere da sola, giocare con Rocco, chiacchierare con Flaminia e Virginia, raccogliere i vermi con Penelope o fare tutte le altre mille altre cose che preferisce fare piuttosto che giocare con Lucilla?

Ogni classe ha quei due – tre – cinque – diciotto elementi che, nei rapporti tra i pari, sono un disastro. Il mio buonsenso mi dice che non posso costringere nessuno a stare con chi non ne ha voglia. Io per primo non lo farei mai. Posso provarci nelle attività, formando coppie e gruppi improbabili, ma è altamente rischioso. Nella quinta dello scorso ciclo quando abbinavo i bambini sbagliati scoppiava l’insurrezione. Gente che piangeva, che incrociava le braccia scegliendo di non partecipare alle attività, sabotaggi e rappresaglie.

Così, almeno durante l’intervallo lungo dopo la mensa, mi sembra corretto lasciarli liberi di scegliere nella massima libertà con chi giocare. I miei alunni sono in terza ma, al netto dell’emergenza Covid, sono stati una classe vera (nel senso di come la intendiamo noi), i primi cinque mesi di prima. Lo scorso anno in seconda è filato via tutto in presenza ma con mascherine e distanziamenti. Meglio che un pugno in faccia, eh, però niente a che vedere con un compagno di banco, un circle time, una partita a palla avvelenata o un qualunque altro momento di confronto costruttivo tra bambini dello stesso gruppo.

Il compito degli insegnanti è trovare queste materiali da saldatori di stati d’animo per fondere tra di loro gli animi degli alunni. Io però credo che nessuno ne sia capace e che sia giunto il momento di smetterla con le illusioni. Sistemare le cose tra Lucilla e Asia mi fa sentire un re biblico con uno di quegli approcci alla giustizia che ti fanno passare alla storia. Un esempio per tutti. Ma so che se provo a convincere Lucilla a desistere, si metterà a piangere. E, dall’altra parte, Asia si lascerà persuadere permettendo a Lucilla di accompagnarla al suo club esclusivo di amichette ma poi, insieme alle altre, sarà ancora più spietata.

La mia salvezza si chiama Jolanda e, a differenza di tutti gli altri protagonisti di questo post, non ha un nome inventato. Jolanda è indipendente e forte e, in giardino, sta con tutti e con nessuno. La vedo vagare nella massima serenità e posarsi da un gruppetto all’altro, dai maschi alle bambine. Così mi avvicino a Lucilla, che nel frattempo ha capito l’antifona, e le suggerisco di provare a giocare con Jolanda. Lucilla mi guarda come se le avessi rivelato il finale della sua fiaba preferita, si volta e corre da Jolanda, che la accoglie con sé come farebbe con chiunque, ma questo Lucilla non lo sa. Pensa che è bello aver trovato una nuova migliore amica, almeno fino al suono della campanella. Ci sono ancora tante cose da imparare, almeno un milione di segreti da scoprire. C’è un mondo nascosto, per Lucilla. C’è un universo imperscrutabile, per me.

una volta

Standard

Dalla fiction americana è facile rendersi conto, al netto dei compagni di classe che fanno irruzione con i mitragliatori, quanto sia divertente andare a scuola. Anzi, possiamo delineare per bene gli stereotipi a seconda della nazionalità. Negli USA hanno armadietti, mense e laboratori fighissimi e sviluppano le foto nelle camere oscure. In Francia i prof riescono a dare opportunità ai figli degli immigrati nelle banlieue. Nei paesi del nord-Europa ci facciamo il sangue marcio perché studiano nei boschi e vanno a scuola con gli sci. In UK gli adolescenti rubano i medicinali agli anziani e da noi c’è Veronica Pivetti da sempre.

Da qualche tempo però ho notato che anche le nostre scuole superiori ci danno dentro con lo storytelling dell’identità e dell’appartenenza. Ieri c’era un ragazzo seduto al tavolino del locale in cui stavo consumando una specie di brunch che indossava una t-shirt con la faccia stampata di Alessandro Volta. Il suo ritratto più celebre, quello con il collettone a deltaplano e il fazzoletto ricamato al collo che hanno messo pure su Wikipedia. Mi sono chiesto perché un millennials dovrebbe girare con una maglietta di uno scienziato vissuto più di due secoli fa anziché sfoggiare la t-shirt dei Måneskin e poi ho capito. Ad Alessandro Volta sono intitolati numerosi licei scientifici e tecnici in Italia, e quello di Milano è uno dei più famosi e selettivi. Mi sono ricordato così che anche il classico di mia figlia vende del merchandising e, detto tra noi, se ci fosse in commercio una maglietta con la faccia di Manzoni (Alessandro, quello vero) non esiterei ad acquistarla. Da loro purtroppo fanno solo delle felpe color magenta con un logo molto moderno realizzato dai ragazzi. La differenza è che un cinquantaquattrenne con la felpa e il cappuccio da Eminem farebbe ridere i polli, mentre una maglietta con l’autore del mio libro preferito in assoluto sarebbe molto più autoironica, ve lo dice uno che gira con le magliette sbagliate di Dietnam.

Ho pensato così alle superiori che ho frequentato io, dedicate a Giuliano della Rovere. Proprio lui, papa Giulio II, il cui valore storico è fuori discussione ma, al netto del suo mecenatismo, non lo ricordiamo certo per la sua figura di pontefice come intendiamo un papa ai tempi di papa Francesco. Che tipo di gadget si potrebbero realizzare con l’effigie del papa guerriero? Con quel look e quella faccia mi spiace, ma la maglietta proprio non la indosserei mai.

all’improvviso

Standard

In ufficio, all’improvviso, Internet è andata in tilt. Non avevo nemmeno pranzato. Stavo accelerando la consegna di un lavoro, una delle tante urgenze da chiudere entro sera come al solito (ai tempi della bolla si lavorava così), quando si è bloccato tutto. I siti web, il server di posta, il programma di messagistica istantanea che usavamo al lavoro. Qualcuno mi ha avvisato per sms. “Vai a vedere su Repubblica cosa è successo”. Ma il problema era proprio lì. Nessun sito di news dava segni di vita. Non c’era un televisore in sede – l’eterna lotta tra vecchi e nuovi media, molto prima della definitiva fusione tra le due categorie – e gli smartphone sarebbero entrati in scena solo dieci anni dopo. Non ricordo che cellulare avessi ma preparavo le suonerie per me e per gli amici (si inviavano via sms) con un composer scaricato chissà dove. La prima volta, da quando lavoravo in ambito digital (o, come si diceva allora, multimedia) in cui tutto è piombato in un vuoto cosmico. Lo stesso tipo di blackout che ho ritrovato tra le righe de “Il silenzio” di DeLillo, e non è un caso che si tratti anche dell’autore del romanzo più agghiacciante sull’11 settembre, “L’uomo che cade”.

Poi, dalla stanza dei grafici, ho avvertito delle espressioni di sgomento. Sul mega-schermo del Mac dell’art director, approdato con fatica sull’home page di un quotidiano, c’era una foto e un titolo inequivocabile. Le torri, il fumo, le prime interpretazioni dei fatti. Via via i dettagli, le voci, le certezze, le dichiarazioni, i commenti, le testimonianze, qualcuno è sceso al bar per seguire l’edizione straordinaria di un tg. Mi sono sentito perso, ero stato a New York poco tempo prima e, dovendo scegliere un solo grattacielo su cui salire, io e la mia compagna di viaggio avevamo optato per il più tradizionale Empire State Building. Avrei voluto condividere tutte quelle sensazioni con qualcuno, ma i rapporti umani al lavoro sono quello che sono, converrete con me. Se fossi stato un fumatore mi sarei precipitato fuori per una pausa. Mi ero completamente dimenticato che avrei potuto chiamare Anna, era lei ad avermi avvisato, poco prima. Le avrei chiesto se fosse tutto ok, d’altronde il mondo si era appena ristretto e non sembrava facile delineare i confini reali dell’impatto di ciò che era accaduto.

rompere il ghiaccio

Standard

Non c’è modo più efficace di cominciare la scuola rompendo il ghiaccio, soprattutto se fa ancora molto caldo in aula e la metafora della cella frigorifera non è poi così male. Peccato che il ghiaccio, a proposito di relazioni tra le persone, significhi freddezza di rapporti, e non è detto che le schegge che si generano rompendolo siano in grado di migliorare l’ambiente. Meglio lasciare che siano il tempo e il caso a scioglierlo, come accade in natura, e che il riscaldamento locale faccia il suo dovere? No. In questi casi è consigliata una terapia d’urto. Ho chiesto così alla dozzina di bambini che avevo davanti – gli irriducibili iscritti al piano scuola estate 2021 che hanno scelto di frequentare anche l’ultima settimana di vacanza precedente all’inizio ufficiale del nuovo anno scolastico – di rompere il ghiaccio, facendomi spiegare da loro il significato di quel modo di dire. Davanti avevo una classe eterogenea, in una gamma comprensiva di studenti in procinto di andare in alla secondaria di primo grado sino a bambini appena usciti dalla prima primaria, con l’aggravante che non tutti si conoscevano tra di loro.

Per rompere il ghiaccio ho detto allora che l’estate 2021 è stata un’estate straordinaria, di quelle che non ci dimenticheremo mai più nel corso della nostra vita. Un’estate pazzesca, nel bene e nel male. Ho diviso la lavagna in due settori con i rispettivi titoli: “che cosa è successo” da una parte e “che cosa MI è successo” dall’altra, avviando il dibattito su tutto ciò che, privato o pubblico, porteremo con noi per sempre dagli ultimi mesi appena trascorsi.

La sfera personale è filata via liscia. Viaggi, città d’arte, mare, grotte, laghi, montagna, amici e famiglia. Un granchio ha pizzicato la mano alla più piccola del gruppo, ma solo perché lo ha accarezzato (a me i granchi non ispirano tenerezza, e se la devo dire tutta anch’io mi sarei ribellato a una confidenza di questo tipo. Non è così che si rompe il ghiaccio tra specie diverse). Un’altra è stata costretta dai genitori a quaranta ore di viaggio senza sosta per raggiungere una cugina moldava. Un’altra ancora è stata in fila un giorno intero sotto il sole per il biglietto del concerto di Sangiovanni. Ben gli sta. Cose così, come tutte le cose che capitano quando siamo in vacanza.

Quando si è trattato di elencare gli avvenimenti pubblici la questione si è fatta critica, colpa delle tragedie che sono state ricordate nei primi tre o quattro interventi: incendi di boschi e di palazzi, i finestrini mandati in pezzi dalla grandine (è il ghiaccio a rompere le altre cose, ho aggiunto io) e cose così. Ho dovuto insistere per ricordare a tutti che abbiamo vinto gli europei di calcio, che abbiamo portato a casa una valanga di medaglie tra olimpiadi e paralimpiadi, che abbiamo stravinto gli europei di pallavolo. A quel punto Leonardo ha alzato la mano per aggiungere un’altra cosa bella, e cioè che siamo a buon punto con la campagna vaccinale. Non l’ha detto proprio così ma il senso era quello. Così mi sono stupito di non averci pensato prima. Anzi, di non aver messo il vaccino al primo punto di quell’elenco di cose belle. Avrei dovuto dirlo io. Il fatto è che il vaccino a scuola potrebbe risultare un argomento divisivo. Ci sono insegnanti (quattro gatti, per fortuna) che mettono i bastoni tra le ruote, ma tra i genitori di quei bambini e di quei ragazzini i recalcitranti potrebbero essere molti di più. Ho risistemato l’elenco alla lavagna con il vaccino al primo posto e ho osservato quella classe di studenti così vari. Solo gli occhi, naturalmente, l’unica parte del viso che si vedeva. Ho pensato a un altro anno con la mascherina e chissà se magari il prossimo non ci sarà bisogno di stilare una classifica perché la vera notizia, quella più bella, sarà una sola.