superbonus

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Non è il caso di preoccuparsi se, in occasione della Giornata Nazionale delle Riunioni Condominiali, vi capita di sbagliare portone e di intrufolarvi un’assemblea in cui non c’entrate nulla ma con l’unico scopo di sbirciare l’efficienza dell’amministratrice o dell’amministratore e fare un utile paragone con lo studio che avete assoldato e di cui non vi sentite entusiasti. Di questi tempi non sono pochi gli operatori del settore che impazziscono con le richieste del superbonus del 110% dei loro clienti e succede che anche i più rodati professionisti fanno finta di soccombere alle stringenti tempistiche imposte dal governo perché non sanno che pesci pigliare. Per seguire tutte le pratiche legate all’operazione dovrebbero raddoppiare l’organico e i conseguenti costi di buste paghe ma, in tempi di post-pandemia, se ne guardano bene. Alex è il mio dirimpettaio e ha marcato visita proprio nell’occasione più importante, quella della delibera definitiva, per essersi attardato in un edificio del centro nemmeno fosse stata una delle giornate del FAI. Mi ha confessato di non aver resistito al cancello in ferro battuto e all’atrio degno di un museo d’altri tempi, ma soprattutto di aver indugiato perché, seduti sui gradini della prima rampa di scale, ha trovato Jacopo e la sua nuova compagna Lorena in attesa del numero legale per avviare la riunione del condominio in cui abitano. Li conosco pure io perché, compreso Alex, frequentavamo tutti un social network di nicchia che ha chiuso qualche tempo fa. Jacopo me lo ricordo cantare “Perdere l’amore” di Massimo Ranieri al karaoke e, a dir la verità, nel sogno aveva molti più capelli. Alex ci teneva, comunque, a rientrare a casa in tempo per la nostra assemblea ma poi, seduti ai tavolini esterni della birreria all’angolo, ha incontrato un’altra coppia che si è formata proprio grazie a quella piattaforma, Alessandro e Oriella, insieme ad altri due membri di quel social network, due dei tanti che sfoggiavano nella foto profilo la loro barba da nerd e che confesso di aver confuso in numerose occasioni. A fianco c’era invece il nostro tavolo. Alex così si è seduto di fronte a me che ero dalla parte di Chiara ma con un’altra tipa in mezzo a noi di cui non ricordo il nome ma che, con la scusa di vedere meglio da vicino il menu scritto piccolissimo e in corsivo sulla lavagna come fanno i ristoranti francesi, mi si sdraiava letteralmente addosso. Malgrado questa sceneggiata, Chiara cercava in ogni modo di continuare a tenermi la mano e ricordo di essermi preoccupato non tanto del fatto che, nella realtà, fossi sposato ma perché non ero sicuro che, da un punto di vista politico, la pensassimo allo stesso modo. Non ho mai avuto una relazione con una persona di destra, anzi a dire la verità una volta è successo ma è finita male. Comunque quando la tizia ha finalmente deciso che cosa prendere prima si è rimessa composta sulla sua sedia, così ho chiesto ad Alex quale fosse la birra migliore secondo lui. Chiara così si è avvicinata tantissimo alla mia faccia ma, anziché baciarmi come mi aspettavo, mi ha detto di aver votato PD.

vendo appartamento al 221B di Baker Street

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C’è una teoria secondo cui la pubblicità in tv costa molto di meno da quando ci sono canali più seguiti come la tv in streaming e, soprattutto, l’Internet. Si sono abbassati i prezzi e anche piccole aziende desiderose di mandare i loro spot in prime time sono riuscite in un obiettivo fino agli anni novanta impensabile. Il fatto è che i prezzi di realizzazione delle campagne pubblicitarie, invece, sono rimasti gli stessi. O, almeno, non è cambiato il costo delle agenzie di un certo livello. Per questo i programmi televisivi sono interrotti da pubblicità sempre più cheap, spesso con attori sempre più cheap ma lo sapete, nel marketing è meglio non lesinare altrimenti ti si ritorce contro.

Me ne vengono in mente un paio così, sui due piedi: gli allarmi Verisure – mai visti attori così imbarazzanti – e uno spot dell’Amplifon in cui ci sono attori incapaci che fingono di fare le persone normali che raccontano la loro esperienza leggendo il loro testo facendo di tutto però perché sembri che non lo stanno leggendo, con un risultato che fa davvero girare così la testa per la bruttezza.

In questo campionato dilettantistico è facile salire di categoria, e quando ci sono spot belli, pensati bene, con trovate intelligenti e attori capaci è giusto dare loro lo spazio che si meritano. Immobiliare.it si è sempre distinta, da questo punto di vista. L’ultima pubblicità è superlativa, e mi riferisco al soggetto con Sherlock Holmes. Tempi giusti, battute azzeccate e copy perfetto, con la ciliegina sulla torta della chiusura “immobiliare, Watson!” che mi ha lasciato letteralmente a bocca aperta. Idea formidabile, bravi tutti.

non è mai fuori

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Nessuna delle mie alunne gioca a calcio, guarda il calcio, parla di calcio o si interessa al calcio. Mi piacerebbe che tra loro ci fosse una che sogna Beckham – o qualunque sia il suo omologo italiano nell’immaginario infantile collettivo del 2021 – tra i bambini della mia classe. Una che, da grande, diventi come quelle ragazze che vedo uscire in pantaloncini e maglietta mentre sono fermo al semaforo prima di svoltare per il capolinea della metro a cui vado a recuperare mia figlia quando torna tardi dal centro. C’è un campetto, lì, e quando sopraggiungo in auto è sempre rosso. Le calciatrici non passano inosservate perché escono dagli spogliatoi con il borsone da calcio sulle spalle dopo l’allenamento. Si riversano a recuperare le loro auto nel parcheggio antistante il campo, uno di quei parcheggi di periferia in cui, dopo una certa ora, si piazza il furgoncino di un venditore di panini con la porchetta e altre schifezze da street food di bassa qualità.

Nessuna delle mie alunne gioca a calcio. La spiegazione che mi sono dato è che forse sia uno sport non ancora così diffuso tra le bambine, o forse sono ancora troppo piccole perché non c’è nemmeno nessuna che pratica il volley o il basket. Alcune di loro fanno equitazione, hip hop e nuoto. Comunque nemmeno i miei maschietti mostrano particolare interesse. Sono tutti presi dai videogiochi, e non so cosa sia peggio. Ieri mattina Marco però ha portato in giardino un dado in spugna grande come un pallone ma, appunto, cubico. Ogni tanto li vedo accennare un cross e una conclusione al volo o tentare un tackle con le castagne e con i ricci, a dimostrazione che di norma basta avere qualcosa di vagamente sferico per occupare dei maschi per tutto il tempo necessario. Nel giardino della scuola persiste il divieto di utilizzare i palloni, così chi non riesce a rinunciare si arrangia come può. Il dado sull’asfalto del campetto da basket tutto sommato rotolava, e in quattro e quattr’otto hanno formato due squadre ed è stato subito fischio d’inizio.

Vederli tirare calci a un cubo di spugna è stato divertente. Le direzioni che prendeva quel surrogato di pallone rendevano i loro tentativi di emulare i campioni della domenica ancora più comici. Qualcuno poi lo ha colpito troppo forte e il dado è schizzato oltre i limiti del campo. Uno della squadra avversaria ha gridato “è fuori!”. Marco, il proprietario del cubo di spugna, ha risposto “non è mai fuori”. Tutti allora si sono lanciati alla rincorsa del dado e la partita è proseguita oltre il perimetro di gioco. Io ero un po’ giù, non vi sto a spiegare il perché, ma quel colpo di scena mi ha restituito il buonumore. Ho pensato a come andrebbe il mondo in generale se le cose le gestissero i bambini, con quel modo imprevedibile di cambiare le regole a seconda di come è meglio procedere o per i capricci di qualcuno. Proprio come in una partita infinita, senza campo di gioco e senza tempi regolamentari, senza nessuno che ti chiami per rientrare perché è pronto, perché l’intervallo è finito, perché dobbiamo riprendere la lezione.

rke

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RKE è l’acronimo che sta per “Notizie Poco Piacevoli Che Arrivano Simultaneamente E Senza Preavviso Come Uno Scherzo Del Destino”, dove la K sta probabilmente per Karma. A uno gli scappa di vantarsi per cosucce di poco conto come “faccio una torta salata con la scarola che spacca” o anche “poche cose mi riescono bene come pulire la piastra del ferro da stiro” che subito si rompe la bilancia digitale da cucina, il forno a microonde sembra aver diminuito la propria potenza di scongelamento e una comunicazione di irregolarità dell’Agenzia delle Entrate ti chiede di restituire una fetta del rimborso del 730 che già avevi pensato di investire in un giradischi come si deve. Comunque la ricetta della torta salata con la scarola l’ho letta in giro ed è semplicissima. Fai saltare la scarola con un filo d’olio, aglio e acciughe. Quando è pronta la metti sulla pasta sfoglia comprata al supermercato, aggiungi olive (oppure provola ma con il formaggio è molto più pesante), la copri con un’altra pasta sfoglia comprata al supermercato della stessa forma della prima e poi inforni il tutto in forno preriscaldato e ventilato per una ventina di minuti. Invece per pulire la piastra del ferro da stiro annerita dalle schifezze dei tessuti dei capi di abbigliamento che acquistate come me a due lire nei negozi più cheap dei centri commerciali dell’hinterland basta mezzo limone spremuto con un po’ di bicarbonato. Pucciate una spugnetta per piatti – la parte ruvida verde, per intenderci – e poi sgrattugnate la superficie sbrucciacchiata finché non riuscite a specchiarvi nell’acciaio. Poi date una sciacquata e ricordatevi, allo stiraggio successivo, che ci possono essere residui dell’intingolo utilizzato. Per compensare l’irregolarità con l’Agenzia delle Entrate niente, bisogna pagare e basta.

menu

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I pranzi e le cene del lavoro cambiano molto a seconda del lavoro che fai. Io ne ho sperimentati fondamentalmente di tre tipi. Ho partecipato a business lunch – formali e casual – con manager e dirigenti di vario ranking nella catena di potere a corollario di eventi in cui occorre stare attenti un po’ a tutto. Se non fosse che si mangia e si gustano alcolici da intenditori è difficile dire che ci si diverte. Anzi, molto spesso alla prima occasione si cerca di levare le tende. Sono stato invitato quindi a pranzi di lavoro con gente del mio stesso rango in cui ci si può prendere qualche libertà – come bere birra a mezzogiorno – ma nell’insieme è sempre meglio trasmettere affidabilità perché non si sa mai cosa ci riserva il futuro. C’è anche la versione serale di questi momenti che però è molto pericolosa, può capitare che qualcuno alzi un po’ il gomito, venga voglia di limonare con la tua vicina di scrivania e il giorno dopo entrare in ufficio dà un effetto che è meglio evitare.

Agli antipodi di tutto ciò, da quando lavoro nella scuola mi è capitato di mangiare con colleghi insegnanti al netto delle volte in cui siamo di servizio in mensa, che comunque lo si può annoverare a un pranzo di lavoro a tutti gli effetti ma di tipo diverso. Anzi, per la mensa sarebbe bello che Alessandro Borghese ideasse un programma come “4 ristoranti” in cui mette a confronto 4 mense scolastiche per stabilire qual è quella in cui i piatti sono di migliore qualità. Da me non è male, ma ogni tanto sembra che il cuoco si impegni a fare i risotti o la pasta che non sanno di niente, e comunque Borghese potrebbe, anche in questa occasione, confermare o ribaltare la classifica con il suo voto. Mensa a parte, io intendevo il consumare pasti tra colleghi quando capita che hai lezione anche al pomeriggio o devi fermarti per finire di correggere qualcosa. L’atmosfera è molto più rilassata rispetto a chi lavora nel privato perché manca la competizione e nessuno ha il profilo LinkedIn da aggiornare.

La cosa strana è che l’estrazione di chi lavora nella scuola varia da docente a docente indipendentemente da quello che insegna ed è imprevedibile. Le conversazioni si alimentano di contributi estremamente difficili da intercettare. Anche i cavalli di battaglia come ferie, sindacato e pensioni sono sempre più desueti, segno che l’ambiente sta cambiando proprio come la nostra società. Il lockdown e la DAD hanno messo fortemente in crisi l’identità degli operatori della scuola con una ventata di modernità che ha messo a nudo l’obsolescenza di certe dinamiche su cui si fondavano alcuni presunti privilegi.

Al netto di tutto ciò, il centro del dibattito a un pranzo tra insegnanti è la qualità del cibo. Io ho diversi colleghi del sud che conoscono tutte le tavole calde e le trattorie della zona in cui rivivere, almeno con i sapori, i luoghi che hanno lasciato per uno stipendio da fame. Il Covid ha interrotto alcune di queste consuetudini conviviali, ma sono certo che riprenderemo, prima o poi. Ricordo che, ovunque ci recassimo, trovavamo sempre la tv accesa sui canali Mediaset. A me dava fastidio ma nessuno dei colleghi ha mai avuto da ridire. Forse il Tg5 e il Tg4 sono un’usanza tipica delle loro parti.

chiedo per un amico

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Voi su Internet cercate delle risposte. In questo blog troverete solo delle domande.

polpette di che cosa

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L’aspetto che più sorprende il visitatore è che l’Ikea è una città nella città. Dentro comprende quartieri e caseggiati, ciascuno frammentato in nuclei abitativi a loro volta frazionati in ambienti attraverso finte pareti o separé costituiti da librerie, armadi o pannelli. Una moderna metropoli multiculturale ma priva di spazi di aggregazione dedicati alla comunità, con edifici immaginari pensati senza piazze e cortili perché quello che conta è dentro la casa, il suo interno e chi lo abita.
Questo è l’incipit della prefazione all’edizione 2022 della guida turistica “Ikea” a cura di Ingo Besta, edizioni (Owner of a) Lonely Earth. Ingo Besta è un esploratore professionale di non luoghi e l’idea di pubblicare un supporto dedicato a chi sceglie di trascorrere un weekend in uno dei numerosi templi dell’arredamento prêt-à-porter svedese nasce proprio da un dato di fatto. Chi si addentra nello spazio espositivo viene così rapito dai milioni di mobili, complementi di arredo e suppellettili posizionati nelle soluzioni allestite da non notare i passaggi segreti tra un settore e quello contiguo. I percorsi segnalati sono infatti tracciati per guidare il cliente lungo la totalità dell’esperienza di visita, in una pienezza di prodotti che trova il suo apice nel market sottostante. Solo gli abitanti del luogo sanno come e dove trovare quello che cercano senza visitare tutto il superfluo e la guida di Ingo Besta ci fa sentire accolti nel posto molto di più di un cittadino onorario qualsiasi. Non mancano i consigli per mangiare e trovare ristoro senza spendere un capitale, proprio come i volumi dedicati alle mete del turismo di massa. Ma c’è di più. La guida Lonely Earth “Ikea” 2022 ci mette a disposizione gli strumenti più utili per vincere il mal d’Ikea, ovvero quella sensazione un po’ così che ci prende quando lasciamo la città per inoltrarci nei bassifondi a cercare i prodotti di cui abbiamo preso diligentemente nota tra le stanze di quel popolo immaginario che ci ha ospitato con un trasporto senza precedenti nei suoi ambienti più privati. Il piano terra svela l’arcano e cerca di indurre a una sintesi ma con un limite: dove sono tutte le cose che, viste insieme, fanno innamorare il turista? Gli ambienti destrutturati e la nuova collocazione ricomposta per tipologia di impiego si riduce agli occhi come un sottosopra da film di fantascienza. La sicurezza mossa dall’intimità domestica viene minata dalla disposizione per articolo banalizzando le totalizzanti personalizzazioni dell’esposizione a un catalogo secondo generi ed è lì che il viaggiatore realizza che il suo appartamento decostruito è uguale a tutti gli altri. I suggerimenti di Ingo Besta permettono invece di tornare al parcheggio con il carrello pieno di mobili e di certezze. Persino le polpette, una volta cucinate in padella dopo una lunga sessione di montaggio con manuale, brugole e viti, acquistano un altro sapore, anche se non è ben chiaro quale sia il nuovo e quale fosse l’originale. La guida Lonely Earth “Ikea” 2022 di Ingo Besta si conferma così un compagno di viaggio irrinunciabile per le nostre scelte di arredo e di conseguente vita in casa. 

facciamo prima a dire che cosa non è restato

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Qualcuno si ricorda che cosa stava combinando alle 00.01 del primo gennaio 1990? Io no perché non pensavo fosse una data speciale, altrimenti mi sarei segnato – come l’11 settembre 2001 – qualche particolare utile alle celebrazioni che si sarebbero succedute negli anni a venire. Come potevamo immaginare che, esattamente l’1/1/1990, saremmo stati testimoni oculari della nascita della nostalgia del trentennio appena finito. I sessantasettantaottanta. Tre blocchi temporali diversissimi tra di loro che però, aumentando il tempo e assottigliandosi la memoria, si sono saldati in un tutt’uno che ora non significa altro che musica per vecchi di merda come me. Un’operazione commerciale per raccogliere, in un unico target facilmente individuabile e raggiungibile con lo stesso prodotto, la malinconia per un’era che non esiste più.

E fa sorridere il fatto che gli anni novanta siano ancora considerati una cosa da giovani per via dei Nirvana, dei Prodigy e tutta quella roba che suona ancora terribilmente attuale. Ma “Nevermind”, ricordiamolo, è uscito solo l’anno successivo al primo gennaio 1990, eppure non si spiega la differente percezione del prima o dopo di uno spartiacque che poi in realtà non esiste.

Comunque in una festa sessantasettantaottanta stanno sullo stesso palco i Righeira con Umberto Tozzi e gli Abba e gli Europe e Samantha Fox, per dire. Ed è successo proprio così lo scorso sabato sera su RaiUno nel corso di una serata dedicata ai sessantasettantaottanta, trasmessa dall’Arena di Verona e condotta da una maestro delle cerimonie come Amadeus che, da un podio con tanto di postazione da DJ, lanciava uno dopo l’altro i mitici successi dei sessantasettantaottanta che mandano in estasi i vecchi di merda come me che hanno nostalgia dei sessantasettantaottanta.

In realtà c’era poco sessanta in quel contenitore, immagino perché gli artisti sopravvissuti iniziano a scarseggiare, fino a quando è salito sul palco Edoardo Vianello, classe 1938. Il re dell’estate ha cantato quello che il popolo dei sessantasettantaottanta vuole da lui. “Abbronzatissima”, “Guarda come dondolo” e cose così. Poi è stato il momento dei “Watussi”, un brano sul quale la furia iconoclasta della cancel culture non si è ancora abbattuta nel modo parziale che meriterebbe. Nel 2021, in un programma in onda sulla principale rete pubblica italiana in un sabato sera di fine estate o inizio autunno, si possono ancora cantare in coro i versi di una canzonetta sciocca che comprendono un appellativo ai tempi in uso ma, oggi, dichiaratamente razzista.

Il fatto è che cambiare quel pezzo di testo che dice “Ci sta un popolo di ne**i” mantenendo la metrica è facilissimo. Io, per esempio, lo sostituirei con

c’è quel popolo africano
che ha inventato tanti balli
Il più famoso è l’hully gully

Ci sono problemi ben più gravi? Può darsi. Io vi dico che se la gente assistesse a una rivoluzione epocale come un cambio di parole in una canzone strafamosa come “I Watussi” qualche considerazione se la porrebbe e, magari, penserebbe che se c’è arrivato uno come Edoardo Vianello, classe 1938, sul palco dell’Arena di Verona con le ballerine intorno che ballano l’hully gully (che poi come si balla l’hully gully non l’ho mai capito), a sferrare un gesto di rottura con gli schemi possiamo provarci anche noi.

spiegare le ali, anzi la loro mancanza

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Nel passaggio da Alitalia a Ita mi chiedo che problema ci fosse a mantenere inalterato il nome e il logo, facendone cioè solo una questione di ristrutturazione aziendale. Come se cambiare questi aspetti di marketing facesse dimenticare ai clienti cosa c’è dietro alla nuova società, e chi c’era prima. “I passeggeri non avrebbero compreso il nuovo corso vedendo sempre la stessa sigla al momento dell’acquisto del biglietto”, sento già gli esperti di comunicazione difendere l’operazione così. Ditemi voi allora quanto può costare un rebranding di questo tipo, soprattutto quando c’è da riverniciare un’intera flotta aerea.

cicatrici

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Poco prima che, a fine febbraio 2020, chiudesse tutto per l’emergenza Covid, io e mia moglie ci siamo buscati una bella bronchite. Abbiamo prenotato una romantica visita di coppia dal nostro medico di famiglia che ci ha prescritto lo stesso antibiotico. L’idea che potesse trattarsi del virus che stava dilagando senza che nulla gli opponesse resistenza non ci è passata nemmeno per l’anticamera del cervello e abbiamo considerato la possibilità soltanto mesi dopo. Ovviamente la diagnosi del dottore era giusta e mi è stata confermata quando, dopo l’estate, mi sono sottoposto al test sierologico per il coronavirus previsto per gli insegnanti. L’ultimo venerdì precedente al lockdown, era il 6 di marzo, abbiamo addirittura partecipato a una cena di compleanno di un’amica in un ristorante sui navigli. In giro cominciava ad esserci poca gente e nemmeno noi eravamo così entusiasti di partecipare. Ci siamo seduti per mangiare in mezzo a persone per la maggior parte mai viste prima, senza mascherina ma con il desiderio che tutto finisse il prima possibile. La cosa più strana di quel festeggiamento è stata l’aver avuto, come vicino di posto a tavola, il cantante di una band underground italiana emergente ai tempi in cui, con il mio gruppo, eravamo in tour a promuovere il nostro CD. Noi e loro avevamo persino calcato il palco del Primo Maggio di Roma, quell’anno, a poche ore di distanza. Ci siamo messi a scambiarci aneddoti tutta la sera, a pochi centimetri l’uno dall’altro, d’altronde nessuno ancora era consapevole della portata di ciò che stava accadendo e il distanziamento sociale era ancora da venire. La settimana prima ero anche andato a fare un po’ di shopping, approfittando dei saldi. Avevo comprato tre paia dei miei pantaloni preferiti, quelli con i tasconi che gli addetti ai lavori chiamano cargo. Un modello perfetto da indossare in classe. Nelle tasche ci metto il telefono, la chiavetta del distributore automatico, il portafogli, per non parlare di cacciavite, metro e forbici quando devo sistemare qualcosa in laboratorio di informatica o nelle aule delle colleghe. Quei pantaloni, però, non li ho messi molto, considerando quanto siamo stati a casa con la scuola chiusa. Sarebbero praticamente nuovi se non avessi scelto di metterli anche durante la DAD, che per chi non lo sapesse è stato lo smart working dei docenti. Come molti di voi, anch’io ho deciso di darmi un contegno per non deprimermi restando in pigiama tutto il giorno. Il problema è stata la mia gatta e le sue abitudini. Ha preso il vizio di starmi in grembo tutto il tempo che ho trascorso al computer durante le lezioni a distanza. Avrei preferito che mi dimostrasse un po’ meno il suo affetto, evitando di rovinarmi con le unghie tutti i tre nuovi acquisti, negli stessi punti sulle cosce e sulle tasche. E nonostante questi piccoli difetti continuo a indossarli, per me la cosa non costituisce un problema. Chi lavora in centro veste abiti griffati, chi lavora nelle scuole di provincia quelli graffiati.