mango

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David non mi ha ancora risposto e io vado nel panico. Sono diversi gli elementi che mi trasmettono la gravità della situazione. Ho chiamato l’agenzia in cui lavoravo prima di fare l’insegnante con il telefono fisso perché il mio smartphone, a furia di tentativi di rintracciare il numero di cellulare del mio ex-collega nella rubrica, si è letteralmente squagliato. Quest’estate, tanto per cambiare un po’, avevo comprato un mango all’Esselunga approfittando di un’offerta al trenta per cento. Il problema è che si tratta di un frutto che, per tagliarlo, sbucciarlo e presentarlo a tavola comporta un’abnegazione unica. Devi proprio voler mangiare un mango a fine pasto. In estate abbiamo ottima frutta di stagione a km zero unica e il ricorso ai prodotti esotici è contrario a qualsiasi approccio alla sostenibilità ambientale. Alla fine ci siamo ridotti a mangiare il mango come immagino facciano i selvaggi o, meglio, le popolazioni autoctone che hanno gli alberi di mango in giardino (sempre che il mango cresca sugli alberi, questo ditemelo voi) e possono permettersi di non fare un cazzo dal mattino alla sera grazie alla caccia, alla pesca e ai tesori della natura a portata di mano. Il risultato è stato quello di impiastrarsi la faccia con i residui di polpa rimasti intorno al nocciolo fino a una poltiglia di brandelli di mango tutt’altro che appealing, tanto che non ho più sentito parlare di mango fino al sogno di stanotte: ho cercato il numero personale di David sul mio smartphone con così tanti tentativi fino a quando mi si è ridotto a una poltiglia in mano ma ho pensato che comunque, esponendolo al sole, si sarebbe ricomposto come fanno certi materiali con cui facciamo i lavoretti a scuola e che devi lasciarli asciugare per valutare il risultato. Io e David eravamo colleghi in quell’agenzia. Lui fa il grafico ma se la cava molto bene con le foto e i video. Io per arrotondare prendo qualche incarico dai miei ex datori da lavoro ma devo aver fatto confusione e mi sono accorto che, appena mi sveglierò, dovrò recarmi contemporaneamente a fare delle riprese video in due posti diversi. Mi assale l’angoscia malgrado, come ho scritto prima, si tratti di un sogno e non risolvo la cosa pensando che comunque un impiego fisso ce l’ho – ora sono un insegnante di ruolo – e quindi anche se combino un pasticcio con altri committenti e questi non si rivolgeranno più a me chi se ne importa. Invece prendo la cosa con il solito pallosissimo senso di responsabilità e così mi metto in testa prima di sentire Ivan, il cameraman ufficiale dell’agenzia. Chiamo Caterina con lo smartphone – ancora intatto – per verificare se non sia un problema che io incarichi Ivan al mio posto. Caterina fa la PR e deve riprendere un’intervista a un marketing manager – suo cliente – che poi fornirà a una testata di settore di fiducia congiuntamente a un comunicato stampa. Malgrado siano già le sei del pomeriggio passate, Ivan è ancora in ufficio ma, memore del disprezzo che provavo nei suoi confronti, si rifiuta di aiutarmi. Per farvi capire, Ivan è quello che all’uscita dalla Cappella Sistina mi aveva rivelato di non averla gradita perché troppo “pacchiana e sfarzosa”. Ed è a quel punto che mi viene l’illuminazione di giocarmi la carta David e, a complicare il tutto, la pessima qualità della rete 4G a casa mia manda in pappa – nel vero senso della parola – il mio Motorola. Caterina dall’altra parte della linea non risponde più. Negli ultimi momenti di vita del mio cellulare riesco a farmi passare David, che lavora nella postazione di fronte a lei, ma di quello che dice riesco a cogliere ben poco. Sembra addirittura che si lamenti della scarsa considerazione che provavo nei suoi confronti – cosa che non è assolutamente vera, anzi – e che quindi si meraviglia del fatto che ora mi rivolga a lui per trarmi da una situazione di impiccio. Poi il silenzio. Lo smartphone si decompone definitivamente, fino ai singoli circuiti. Ma ecco il lampo di genio: posso usare il telefono fisso, anche se è un dispositivo che non è più di moda se non per chiamare e ricevere telefonate dalle persone anziane di famiglia, con tutta la gravità che ne comporta. Nel sogno ricordo ancora perfettamente la sequenza delle cifre che, dette due a due, compongono il numero dell’agenzia. La centralinista non è più la stessa ed è una fortuna perché ho fretta – chissà se, a differenza di Ivan, David è ancora in ufficio – e quando dico che sono io non collega la cosa al fatto che prima lavorassi lì – deve pur avermi sentito nominare, o aver letto il mio nome su qualche cartella in giro nell’Intranet aziendale – e non si perde in conversazioni time-consuming, come si dice in quell’ambiente. Mentre mette la chiamata in attesa per passarmi il collega però mi rendo conto che la cosa non ha assolutamente senso. Io non sono un operatore video, innanzitutto, quindi com’è possibile che abbia accettato incarichi che esulano dalla mia competenza? O, meglio, me la cavo a fare riprese ma non sono un professionista e, soprattutto, non possiedo l’attrezzatura adeguata. Forse volevo spacciare delle riprese fatte con lo smartphone di mango per un video in 4K? Comunque è tutto inutile perché David, a questo punto della storia, non mi risponde più. Il segnale che si percepisce nella linea è eloquente. Abbasso la cornetta, mi sveglio, e penso che potrei provare a giocare il numero fisso di telefono dell’agenzia in coppie di cifre al lotto, se solo sapessi come si fa.

dietrologia per una merendina

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C’era una volta una mamma single in carriera che lavorava in una multinazionale, una di quelle aziende in cui il sole non tramonta mai e se ti occupi di certe cose come il marketing capita che di giorno hai a che fare con colleghi europei, di sera si svegliano gli americani e a notte fonda ti tocca rispondere alle e-mail degli asiatici. Uno scenario in cui non è così raro mettersi la sveglia alle quattro del mattino per partecipare a una call con sconosciuti che parlano comunque un inglese più fluente del tuo dall’altra parte del mondo. Cose già viste e stra-viste e, vi dirò di più, provate sulla nostra pelle. Un andazzo, o trend come si dice ora, che con lo smart working si è ulteriormente esacerbato e se prima eravamo già schiavi del lavoro in rete oggi siamo tutt’uno con il cloud, così digitalizzati da essere digitali, effimeri, diafani, facili prede di hacker russi e di ransomware che ci chiederanno soldi per avere in cambio noi stessi. Fino a quando si sveglia il figlioletto della mamma single che è in piedi da un pezzo per mettere insieme uno stipendio decente e, al posto di una fetta di pane con la marmellata, per colazione se la cava con una merendina confezionata, una di quelle che i genitori bioblu non offrirebbero nemmeno al figlio del loro peggior nemico. La mamma fetta al latte ha ancora le cuffie ma si capisce lontano un miglio che la call sta per terminare. A breve inizierà la seconda parte della giornata che la vedrà, ancora sveglia, portare il bambino a scuola e rimettersi al lavoro con le call con i colleghi italiani. C’è ancora tutto un mondo davanti, e le ore sembrano infinite. Togliti le cuffie, mamma. Tuo figlio ha bisogno di te.

sette

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La scuola a funziona a due velocità. Non sono più uno studente da un pezzo ma sono certo che la settimana di chi va a scuola duri circa un mese. Avete letto bene. Per tirare al venerdì pomeriggio, o per chi fa la settimana piena arrivare al sabato, trascorrono stagioni, addirittura anni e in alcuni casi lustri fino a quando, finalmente, si può uscire, fare tardi nei club e la domenica mattina dormire. La settimana degli insegnanti dura invece a malapena un paio di giorni e nessuno ha ancora compreso quale sia il motivo di questa percezione ai confini della realtà.

Il mio orario settimanale quest’anno comprende sei ore a lunedì e sei ore al martedì. Questo vuol dire praticamente che mi brucio in due giornate la metà del monte ore dedicato alla didattica.

Alla primaria non c’è bisogno di quei software complessissimi pensati per incastrare l’orario dei professori. In due maestri per classe ci si distribuisce le ore a seconda della rispettiva disponibilità. La mia collega di team si è organizzata la sua presenza pensando al figlio che quest’anno va alle medie e deve seguirlo nello studio. Per questo è risultata una distribuzione dei turni così sbilanciata. Per alcuni colleghi questa equità è oggetto di battaglie sindacali e sfide in presidenza, ma a me va bene tutto. Non ho grossi problemi. Vengo da una realtà professionale in cui non c’erano giornate lavorative. Ci si metteva davanti al computer e non si sapeva quando sarebbe terminato il lavoro. A volte la mattina ci trovava già con il pc acceso dalla notte prima.

Ecco perché per me è indifferente lavorare la mattina oppure nel pomeriggio e non ho ancora capito se cambiando gli orari la cosa potrebbe giovarmi. Non nascondo però che quest’anno faccio un po’ più fatica. L’aver concentrato dodici ore nel giro di trentasei circa mi pesa. Ed è per questo che arrivo al martedì sera come se avessi conquistato mio vero venerdì sera. Stanco, spossato, completamente bollito, con una birra media in mano davanti alla tv.

Mi sono così adattato a questa situazione solo ribaltando completamente tutte le priorità e le aspettative sulla settimana. Finisce che la febbre del sabato sera – il Covid non c’entra – mi assale il mercoledì, mentre dovrei essere nel pieno della mia settimana lavorativa, e già al venerdì pomeriggio accuso già quel malessere che in condizioni normali mi renderebbe inviso il lunedì mattina. Proprio così. Il mio martedì è in realtà un venerdì, quindi la domenica è come se fosse un giovedì e già al venerdì sera mi arriva l’eco della musica della Domenica Sportiva. Se esco, in giro trovo tutto chiuso anche se è tutto aperto, e se fossi ancora fidanzato la porterei tutto azzimato al ristorante cinese e poi andrei al cinema.

Non ci avete capito nulla, vero? Nemmeno io. Ora non so più quando riprenderà quel tourbillon di ore in classe, di materie, di bambini che fanno domande, di quaderni da consegnare e da ritirare, di compiti da correggere, di parole parole parole e forse è questo il motivo per cui, agli studenti, le settimane durano mesi, stagioni intere, anni. Dentro alle loro settimane c’è tutta la confusione che facciamo noi adulti.

idles – crawler

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“Crawler” è pervaso dalla voglia di sperimentare, in alcuni punti riuscita, in altri solo in potenza. Risulta comunque un’evoluzione compositiva, una maggiore varietà di format rispetto al consueto girare al massimo la manopola dei toni forti, urlati, sguaiati e senza ritorno.

“Ultra mono” era una pallonata rosa in faccia. “Crawler” ancora peggio. È un carro armato che ti stira e, ingranata la retro – ammesso che i carri armati ne siano dotati – dà una seconda passata per assicurarsi che, davvero, non sia rimasto nulla.

Ogni riferimento ai trasporti eccezionali potrebbe risultare paradossale in un album che, a quanto sostiene Joe Talbot, nasce da certe riflessioni scaturite dall’essersi trovato a pochi centimetri e pochi istanti da un incidente che probabilmente gli avrebbe precluso la possibilità di fare altri dischi. Un motociclista che, una notte, gli è volato vicino, ai duecento all’ora, mentre si trovava in macchina. La fragilità della vita e la casualità del tutto. Ben altra cosa rispetto a David Bowie, lui che invece si scontrava sempre con la stessa automobile, girando all’infinito nel garage di un hotel in preda a chissà che cosa. Una metafora al servizio di tutto quello che ci spinge a commettere gli stessi errori, di continuo. Come biasimarci, noi esseri umani.

Non che qui, in “Crawler”,  non ci siano tracce di problemi con le dipendenze. È un disco, intanto, ed è stato composto da gente con trascorsi mica da ridere.

Ma è anche un segno che la pandemia, la stessa che ha portato la salute mentale e fisica collettiva del pianeta al punto di rottura, ci offre un modo tutto nuovo di vedere le cose, di osservare noi stessi. Una riflessione indulgente, empatica e comprensiva. Responsabili delle nostre azioni, c’è comunque lo spazio per prendere un respiro e perdonarci. Se la vita è piena di bivi e non è detto che ci sia Google Maps a farci arrivare sani e salvi – non c’è un’app per prevenire gli incidenti, per ora solo riporta quelli già accaduti e che generano code – è lecito riderci su. Umorismo nerissimo, sia chiaro. Tutto questo va a formare il nucleo narrativo del quarto album degli Idles in altrettanti anni, nonché seguito di uno dei dischi più belli del 2020.

Partiamo dalle disavventure su strada, che nel nuovo lavoro del quintetto di Bristol ci sono per davvero. La traccia introduttiva, che rende un tributo irriverente alla superbike “MTT 420 RR” proprio nel titolo, è un nervoso benvenuto pensato con uno di quegli escamotage in cui ci sono fill di batteria che non vanno da nessuna parte e, anzi, lasciano con un pugno di mosche a rimandare l’orgasmo a momenti migliori. C’è poco da dire invece circa la metafora di “Car Crash”, così didascalica da non lasciar dubbi.

“Crawler” è pervaso dalla voglia di sperimentare, in alcuni punti riuscita, in altri solo in potenza. Risulta comunque un’evoluzione compositiva, una maggiore varietà di format rispetto al consueto girare al massimo la manopola dei toni forti, urlati, sguaiati e senza ritorno. Vi sarete accorti dell’approccio soul di “The Beachland Ballroom” e di quello darkwave di “When the Lights Come On”, in cui la voce si trattiene a stento dalla smania di scappare via, di alzare i toni, come in quei disturbi in cui la gente non riesce a trattenersi. Ma, molto più che negli album precedenti, ci sono diversi spunti che fanno degli Idles una sorta di Killing Joke dei nostri tempi – forse l’unico grande mostro sacro del post-punk che ad oggi non è stato ancora emulato. Provate a cercarli in brani come “The Wheel”, “Stockholm Syndrome” e “Crawl”, fino all’esplosione al contrario, quando la tensione arriva al limite oltre il quale non ci può più essere nulla. Ed è qui che si materializza “Progress”, un pezzo che sarebbe da isolare dal resto per fare finta che Joe Talbot canti sempre così e che, da solo, vale tutto il disco.

Gli “Idles” ci assicurano che il disco parla di come affrontare esperienze traumatiche e tornare in vita. Ok, va bene, ma a quali condizioni? Perché sono proprio loro a dimostrarci che, per risultare ancora più pessimisti, ci vuole poco. Un paio di canzoni completamente avulse dal proprio stile e dal contesto, magari con un filo di elettronica – bella la citazione dell’inizio di “Angel” dei Massive Attack proprio nell’incipit del disco – oppure il suono svuotato della violenza che gli ascoltatori più affezionati si aspettano, oppure ancora chiudere tutto con una traccia che si intitola “The End” e che, in quanto tale, fa lo stesso rumore di qualcosa che lasciamo cadere in un abisso buio e senza fondo. Il nulla o, come dicono loro, “In spite of it all, life is beautiful”.

guida turistica di un posto in cui non c’è assolutamente niente da vedere

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“Guida turistica di un posto in cui non c’è assolutamente niente da vedere”, o, come si legge nel sottotitolo, “Il bus davanti”, è un’esauriente raccolta di momenti e di luoghi che generalmente poi non si ricordano, con l’obiettivo invece di costringerci a tenerli a mente. Non ci credete? Se vi succede di stare fermi in coda nel traffico segnatevi data, ora e coordinate geografiche del posto (potete mandare la posizione a qualcuno tramite Whatsapp) e poi appiccicatevi un post-it sul frigo ma uno di quelli con l’adesivo bello resistente perché dovrà restare appeso dieci o vent’anni, in modo che tra dieci o vent’anni vi consenta di ricordarvi persino del lotto di case popolari in cui si è accesa la prima luce del mattino e che ha dato il via al tour di quel luogo in cui non c’è assolutamente niente da vedere.

Oppure, ed è per questo che si parla di un bus davanti, della pubblicità del concessionario che ha utilizzato una mediocre clip-art di Charlot completamente decontestualizzata dal messaggio in cui si parlava, appunto, di auto usate, posizionato sul retro del bus che vi precede a passo d’uomo fermo. Saremo vecchi e queste madeleine di fastidio urbano ci evocheranno le stesse sensazioni. Il fatto è che avere un autobus davanti in coda non lo si augura nemmeno al nostro peggior nemico. Così grande e grosso e farcito di persone in mascherina chirurgica ostruisce la visibilità e impedisce di capire se c’è margine per passare davanti e toglierselo dai coglioni senza fare un frontale con qualcuno che arriva nel senso di marcia opposto.

Peggio di un bus ci sono solo gli ufo la mattina, quei camion con le luci lampeggianti nel buio che procedono con la stazza di un pachiderma e la flemma di una lumaca e che quando si approssimano all’incrocio e, per forza di cose, devi dar loro la precedenza perché hanno tutti i requisiti per prendersela, realizzi amaramente che vanno nella tua stessa direzione con una lentezza che in natura si trova solo negli animali morti. Ma sopra il lampeggiante continua a lanciare il suo segnale che induce a prestare attenzione, quello è un mezzo più pesante e ingombrante di una bisarca che trasporta bisarche.

Mi vedete? Fermo con l’ufo a pochi metri dal parabrezza. A destra ci sono studenti e stranieri in attesa dell’autobus. A sinistra un quartiere sovietico con una Mercedes d’annata parcheggiata sotto, il logo sulla punta piegato da qualcuno che non ha fatto in tempo a rubarlo, come si faceva da ragazzi con quello della Volkswagen e non chiedetemi il perché. Il conducente dietro si sfoga sul clacson come se il suono emesso dal suo autoveicolo fosse in grado di spazzare via gli ostacoli che ha di fronte e che, vuoi per il bus o per l’ufo che va ancora più lento del bus, nessuno riesce a capire quanti sono o anche solo se c’è un anziano sulla sua Ford grigia che accompagna la moglie a fare le analisi del sangue. Mi verrebbe voglia di scendere – tanto siamo poco più che fermi – e ricordargli che il problema è tutto suo, che avrebbe dovuto partire da casa un’ora prima di quel momento in cui attraversare la città diventa la parte più difficile di tutto il viaggio di lavoro. Io di trasferte non ne faccio più, se sono qui è perché accompagno mia figlia al capolinea della gialla e attraverso un pezzo di Quarto Oggiaro per dirigermi verso ovest. E comunque, quando mi toccavano, mi trovavo nella solitudine di farmi la barba alle quattro e mezza per raggiungere prima delle sei del mattino la barriera di Milano Sud. Ora passo in una brughiera in cui le cose peggiori sono il limite dei 70 in superstrada, le cavallette in volo che scontrano sonoramente il parabrezza, certe macchine da ottantamila euro con le targhe straniere e il benzinaio extralarge che ha l’unghia del mignolo lunga, solo quella, e non ho ancora capito perché. Forse suona la chitarra classica, glielo chiederò, prima o poi.

generazioni connesse

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Da quando è ripresa la didattica in presenza i prof di mia figlia permettono alla classe di usare il pc per prendere appunti durante le lezioni. Non so dirvi da cosa derivi questa scelta anche se non credo si tratti di una scelta, piuttosto di un comportamento in origine ammesso che poi è diventato prassi. Al rientro dalla DAD i docenti si sono dimostrati più permissivi. Non tutti, anzi qualcuno è più stronzo di prima. Comunque la novità derivava dal fatto che alcune attività svolte a distanza i ragazzi le avevano su Teams o salvate sul pc. Quindi, all’inizio, c’era la necessità di avere in classe quanto svolto a casa. Mia figlia e alcuni dei suoi compagni hanno però provato l’ebbrezza di scrivere su Word e, comunque, digitalizzare direttamente i contenuti delle lezioni. Gli insegnanti hanno acconsentito alla nuova pratica e ora i ragazzi portano con sé i dispositivi quotidianamente. Qualche prof addirittura assegna prove e verifiche computer based da svolgere in presenza, il che mi sembra un bel salto in avanti soprattutto per un liceo classico. Il problema è che le prove da svolgere in digitale devono essere pensate per essere svolte in digitale, e capirete perfettamente il motivo. La prof di italiano e latino, che avrà la metà dei miei anni, non sa che gli alunni possono usare l’hotspot sullo smartphone e, di conseguenza, usare Internet durante i temi (che poi che senso ha non dare ai ragazzi la connettività wireless a scuola, ma questo è un altro discorso).

Quella di fisica pure e ha assegnato un test su Google Moduli le cui risposte sono passate velocissimamente dalla postazione della più brava nella materia ai compagni. Poi, quando parli con i prof, ti dicono che se i ragazzi copiano sono problemi loro perché non imparano, ma in un contesto didattico basato sulla valutazione risulta evidente che l’obiettivo non sono certo le competenze ma il voto. Quello che lascia perplesso, però, è ancora la scarsa dimestichezza degli insegnanti – anche quelli più giovani – con la tecnologia. Il bello di tutto questo però è che mia figlia tiene acceso Whatsapp web sul suo pc e, nei tempi morti, mentre è in classe ci scambiamo qualche messaggio. Non so se sia sbagliato, anzi credo di sì, ma dopo i mesi passati in casa per la pandemia le cose sono cambiate per tutti e tutti dobbiamo adattarci alla nuova normalità.

l’ora di rugby

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Non faccio a tempo a completare l’operazione quotidiana, oramai routine, in cui mi specchio nel tablet all’ingresso per misurare la temperatura – non c’è più bisogno di provare posizioni e distanze empiricamente, sono diventato espertissimo e ho capito dove e come mettermi per far lampeggiare la lucina verde che mi dà l’ok alla nuova giornata lavorativa a scuola – quando vedo Francesca volare lungo l’ultima rampa di scale per placcare il bambino per il quale è impiegata come insegnante di sostegno e, sfruttando la forza della sua fuga, lasciare che si abbandoni in terra, offrendo il suo corpo come riparo alla durezza del pavimento. Non so quanti punti valga un’azione difensiva del genere e se, dopo, occorra organizzare una mischia, si possa andare in meta oppure l’arbitro consenta a Francesca un calcio piazzato.

Il fatto è che con certi bambini il mestiere dell’insegnante non è certo un lavoro per persone delicate e sedentarie o per vecchi come me. Occorre stare sempre all’erta, pronti a scattare per rincorrere qualcuno in caso di fughe pericolose, a schivare il lancio di oggetti o – l’ho visto con i miei occhi – sedie, che anche se da bambini di 6 anni sono comunque sedie di legno e metallo come tutte le altre. Insomma in generale a impedire che qualcuno si faccia del male. Non ci si può distrarre nemmeno un minuto. Anzi, basta un secondo che hai smarrito chi hai in affidamento e le conseguenze possono essere serie o, nel migliore dei casi, anche divertenti.

Ieri eravamo tutti in auditorium per uno spettacolo teatrale. Il nostro Ettore, affetto da una forma seria di autismo, l’abbiamo messo in prima fila sotto il palco in modo consentire alle maestre di gestire i suoi incessanti tentativi di comunicare in modo scomposto attraverso il corpo. Se vedi Ettore sembra un cieco, corre muovendo la testa come Stevie Wonder quando canta, eppure dentro a quella testa c’è qualcuno prigioniero ma qualcun altro deve aver buttato la chiave e, ora, ce lo teniamo così. Un mix tra Stevie Wonder e Ian Curtis quando faceva i suoi ipnotici balletti davanti al microfono.

A Ettore piace correre. La sua classe trascorre l’intervallo vicino ai miei alunni. Le sue maestre delimitano con i cinesini colorati lo spazio in cui gli è consentito muoversi, una linea che confina con il nostro settore. Da quando ha scoperto che non sono in grado di resistergli supera il confine, mi prende entrambe le mani e mi fa capire che vuole correre insieme a me. Io non sono preparato – e non so davvero come ci si potrebbe preparare a gestire un caso come il suo in una struttura inadeguata che però deve risultare inclusiva a tutti i costi – e quel suo modo di guardare-non guardare mi spiazza ogni volta. Facciamo così una corsa affiancati che termina nelle braccia della sua insegnante di sostegno. Alla fine, me la cavo sempre dignitosamente e torno tra i miei.

Comunque ieri, allo spettacolo, Ettore era in prima fila. Qualcuno potrebbe chiedersi il senso di portarlo a teatro con tutti gli altri, io non so rispondere ma il senso c’è. Più di una volta, nel corso della rappresentazione, è sfuggito al controllo delle maestre e si è lanciato sul palco. Le maestre si sono però dimostrate sempre pronte a placcarlo in tempo, come fa la collega Francesca con il suo. Una seguendola sulle scalette, l’altra saltando direttamente sul palco, bloccandogli ogni via di fuga e trascinandolo al suo posto. Gli attori, abituati a recitare al cospetto di bambini di quell’età e sicuramente consapevoli che di Ettore ce n’è sempre qualcuno, tra il pubblico delle scuole, hanno gestito in modo professionale le interruzioni e proseguito impeccabili fino agli applausi finali.

Mi sono chiesto però che cosa sarebbe potuto succedere se Ettore fosse riuscito a impadronirsi della scena, piombare nel mezzo della recitazione, magari facendo crollare la scenografia e mandando tutto in vacca. Una sorta di stage diving, ma al contrario. Il pubblico che si lancia sulla star. Il deus ex machina. La quarta parete. Il vero colpo di teatro.

invidia gratinata, al forno e mille altre ricette veloci

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L’invidia non dovrebbe avere una connotazione negativa, a meno che uno non si metta a denigrare con altri l’oggetto del suo astio con l’obiettivo di screditarne la reputazione e, magari, il secondo fine di scalzarlo nella posizione che ricopre. Questo è da stronzi.

L’invidia, quando la tieni tutta per te, è un sentimento comunque meschino ma del tutto personale e non genera conseguenze. In questo caso, quando non lo diciamo a nessuno, la persona che invidiamo continua a vivere la sua vita e a fare le sue cose – che ci piacerebbe fare noi – senza problemi. Certo, a volte vorremmo che ne avesse, di problemi, ma tutte quelle teorie secondo cui se pensi una cosa poi si avvera succedono solo nei film per ragazzi. E l’invidia, a meno che non siate pazzi criminali, non è che vi porta a ordire trame volte a fare male all’oggetto della vostra invidia. Se lo fate è perché vi dà di volta il cervello a prescindere dall’invidia. Per questo mi eleggo portavoce di un movimento per l’emancipazione di un salutare sentimento di invidia per fare, dei rosiconi come me, delle persone normali che nutrono sentimenti invece ammessi dalle convenzioni sociali. Un ruolo di rilievo, che magari susciti la vostra, di invidia. D’altronde l’invidia è un’ammirazione un po’ amarognola ma che, a osservarla da vicino, condivide lo stesso substrato della stima e del riconoscimento dell’autorevolezza di qualcuno.

trent’anni di garanzia

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Io vado in ansia con i prodotti surgelati acquistati nei supermercati dei centri commerciali. Per questo ho elaborato una strategia che consiste, sostanzialmente, nel metterli nel carrello solo alla fine dell’esperienza di spesa. Non sempre i congelatori sono ubicati in prossimità delle casse e, in quel caso, ripercorro a ritroso la naturale disposizione degli scaffali facendomi largo tra gli altri clienti che, invece, seguono il tracciato pensato dagli esperti di marketing della GDO.

Non so quanto tempo possano sopravvivere fuori dal freezer e osservo code di gambero, pizze, barattoli di gelato, minestroni e merluzzo impanato come un pesce rosso qualunque abbandonato all’esterno dalla sua boccia piena d’acqua. Ai surgelati manca il respiro, soffocano a contatto con l’aria e bisogna mangiarli subito. Se fosse davvero così lo spesone bisettimanale mostrerebbe tutti i suoi limiti. Le scorte che perdono la loro funzione primaria, quello di poter essere conservate dentro la confort zone della data di scadenza e soprattutto un pranzo e una cena contigui all’insegna del junk food.

Ma se oltre al supermercato avete pianificato un passaggio da Sephora, da Intersport o da Cotton&Silk meglio farlo prima della spesa. Per i vostri surgelati, esposti in eccesso alle luci impossibili dei negozi della fast fashion, sarebbe il colpo di grazia. C’è poi il concetto di sotto-Natale, che per i centri commerciali significa un lasso di tempo che va da fine ottobre a carnevale. Sotto-Natale nei centri commerciali ci sono persino le bancarelle come ai mercatini di Bolzano. Lo so perché mi sono fermato da un sedicente artigiano del cuoio che vendeva portafogli, borse e cinture come se le facesse solo lui e nessuno avesse mai contrattato il prezzo con i milioni di commercianti di uno dei generi di articoli al mondo che hanno subito maggiormente l’industrializzazione della taroccatura.

Mia moglie si ostina a valutare acquisti per nostra figlia malgrado non abbia ancora imparato che comprare un capo di abbigliamento al buio per una diciottenne è buttare via i soldi. Comunque, mettiamo lo stesso una manciata di cinture di colore, texture, tipo di pellame e fibbia diverse uno vicino all’altra e al proprietario della bancarella, che dice di farle lui e che addirittura setaccia i mercatini dei rigattieri alla ricerca di modelli vintage da ricopiare, già gli viene l’acquolina in bocca. Nessuno, a parte noi, comprerebbe mai qualcosa in una bancarella ubicata in uno spazio di passaggio di un centro commerciale perché l’artigianato perde tutta la sua portata di genuinità. Chi gestisce i centri commerciali organizza questi mercatini come opera di redenzione per aver affossato il commercio al dettaglio ma è ancora peggio.

Il sedicente artigiano mi dice che la cintura di cui sto valutando l’acquisto è coperta da una garanzia di trent’anni. Io subito non mi rendo conto del significato di questa sparata. Poi però quando cerca di contenere la richiesta di sconto di un altro acquirente interessato come me alle cinture, considerando che a quel punto se concede lo sconto a lui dovrà concederlo anche a me, e gli conferma i trent’anni di garanzia, e l’altro acquirente scoppia a ridere facendogli notare che tra trent’anni magari saremo tutti morti da un pezzo o, comunque, chissà che fine avremo fatto, penso anch’io che proporre una garanzia trentennale come extra compreso in un prodotto di quel valore è controproducente, per non dire una fanfaronata. Che ce ne facciamo di una cintura in cuoio con la riproduzione di una fibbia vintage coperta da trent’anni di garanzia?

Ho la pazienza agli sgoccioli ma mia moglie si perde via a fare le foto alle cinque o sei cinture frutto della selezione e a spedirle via Whatsapp a nostra figlia che però è a scuola e, di certo, non può mica rispondere e indicarci quale preferisce. Così propongo una soluzione equa per tutti: le bancarelle resteranno per qualche settimana? Bene, abbiamo tutto il tempo per ripassare con lei, così potrà scegliere la cintura più adatta e, addirittura, permettere all’artigiano di tagliarla della misura giusta senza costringerci a doverci rivolgere al ciabattino in paese, in settimana. L’artigiano capisce che l’affare sta andando in fumo perché nessuno torna lì mai due volte. Ma il rischio d’impresa è così, non a caso faccio il dipendente pubblico.

La soluzione equa per tutti di cui sopra si rivela per niente equa per l’artigiano, ma il fatto è che le confezioni dei prodotti surgelati sembra che si stiano inumidendo in eccesso e non è certo un buon segno. Si sta per avverare uno dei miei peggiori incubi. Sarò costretto a divorare code di gambero, pizze, barattoli di gelato, minestroni e merluzzo impanato per l’intera durata del weekend, pagando molto salato il prezzo di questa eccessiva disinvoltura nella vita. Del resto, quali cose avete mai comprato con trent’anni di garanzia?

poco convinted

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Gli spot delle ennemila app per vendere la propria roba usata la fanno facile. Fai la foto alle scarpe che non metti più, ai jeans che ti vanno più bene perché la pandemia ti ha inquartato, al vaso che ti ha regalato il tuo ex e che ingelosisce il nuovo moroso. Poi decidi il prezzo e la metti su queste specie di Tinder del commercio di seconda mano e nemmeno il tempo che finisce lo spot te ne sei già sbarazzato. Ci sono però dei fattori intermedi che la pubblicità, che giustamente deve comunicare un modello e un mondo delle idee in cui tutti riescono a fare tutto, non prende in considerazione.

Intanto vendi una cosa se c’è domanda e non se c’è offerta, il mercato – anche se è delle pulci – funziona così, perché a regalare o a gettare nei contenitori della solidarietà sono capaci tutti.

Poi c’è il problema della spedizione. Se fossi uno startupper ossessivo compulsivo aprirei un’impresa che si occupa di spedizioni chiavi in mano per le app come Vinted e compagnia bella. Il venditore non deve fare nulla, nemmeno preparare il pacco. Prenota il ritiro, arriva questo corriere liquido, un po’ rider e un po’ due punto zero, che si prende in carico la spedizione, la incarta, la porta alle Poste, si spara la coda al posto tuo e spedisce il tutto per te che hai pagato un forfait. Ma non ho mai avuto il senso degli affari e questa parte del processo è una rottura di maroni senza precedenti.

Per dire, io una collezione intera di Dylan Dog e di quell’altro indagatore del futuro di cui mi sfugge il nome, centinaia di CD, due giradischi, capi di abbigliamento di due taglie fa e un sacco di altra roba di cui vorrei disfarmi ma l’idea di dover calcolare il costo comprensivo di spedizione, quindi di fare ogni casistica per ogni cosa, mi fa desistere ogni volta. Per questo quando vedo gli spot di questo tipo che la fanno facile mi chiedo chi ci caschi. Non lo metti più? Mettilo su Vinted. Certo, poi bisogna vedere se qualcuno te lo compra e, ancora prima, se ho voglia di portarlo all’ufficio postale.