poli opposti

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Ve la faccio breve: ho commesso una gaffe imperdonabile. La mia collega ha trascorso la vigilia in coda per un tampone per il figlio, preoccupatissima. “Sento che ce l’ha”, mi ha scritto su Whatsapp. Io le ho risposto che invece bisogna pensare positivo ma nel senso di essere ottimisti anche se positivo, ai tempi del Covid, è un concetto da evitare. E infatti poco dopo mi ha aggiornato, confermando le sue previsioni sul tampone positivo. Non potevo consigliarle certo di pensare negativo perché avrei mandato in frantumi la nostra amicizia. Pensare positivo affinché il tampone sia negativo, o pensare negativo affinché il tampone sia positivo? Il problema è che i poli più e meno, oggi come oggi, sono così opposti da aver fatto il giro.

sentirsi giù

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La percentuale di colleghi provenienti dal sud è molto elevata anche nella mia scuola. Posso intuire il motivo di questo fenomeno ma, se devo dirla tutta, le argomentazioni che sento in giro a supporto della teoria dominante non mi hanno mai convinto completamente. Anche la mia dirigente è di origine meridionale ma, nonostante ciò, ha messo un freno sulla pessima abitudine di anticipare le festività natalizie per prolungare il più possibile il ricongiungimento con i parenti al paese di provenienza. Nessuno può prendere ferie o permessi prima dell’ultima campanella, quella dopo la quale i bambini si precipitano tra le braccia dei genitori per consegnare con orgoglio il lavoretto di natale incellofanato e correre a giocare con gli amichetti, dimenticandosi immediatamente del lavoretto incellofanato.

Noi quest’anno abbiamo proposto un’attività complicatissima che, se non fosse per l’impegno della mia collega di sostegno che si è accollata il gravoso onere di coordinare il lavoro con i bambini, mi avrebbe condannato a una vergognosa débâcle. L’ha proposta una collega di quelle che hanno fatto la gavetta negli oratori estivi e che ostenta un approccio da caserma che le invidio tantissimo in quanto molto più efficace del mio, che invece è da centro sociale occupato.

Il lavoretto – che poi solo il termine lavoretto mi fa accapponare la pelle – consiste in un palloncino intorno al quale i bambini hanno arrotolato un lungo filo di lana imbevuto nel vinavil. Una volta asciugato e scoppiato il palloncino, il risultato sarebbe dovuto consistere in una pallina di natale da abbellire, in ultima fase, con un fiocco e il biglietto realizzato con la collega di religione. Questa l’expectation, anni luce dalla reality. A parte come si sono ridotti i bambini durante la realizzazione, con la colla fin sopra i capelli, e come hanno conciato l’aula, per la gioia delle collaboratrici (del sud in percentuale simile a quella di noi docenti), l’obiettivo è stato parzialmente raggiunto solo grazie alla manualità della mia collega di sostegno. Lei ha tutta la famiglia sparsa tra Italia ed Europa e ha trascorso lo scorso pranzo di natale da sola nella casa in cui abita alla periferia di Milano, in videoconferenza con i genitori e fratelli a causa del Covid.

Ma questo è niente in confronto alla sua omologa – e altrettanto precaria – che era in classe da me lo scorso anno. Accettata la nomina si era trasferita ma, non trovando una sistemazione, aveva vissuto i primi due mesi in un albergo dell’hinterland. Separata e con una figlia a casa coi nonni, ricordo che per le feste non le era stato possibile rientrare in tempo.

Ho pensato a lei e a tutti i casi come il suo vedendo il nuovo spot della Conad. Una bambina intraprendente nota il suo maestro al supermercato che paga in cassa un panettone monoporzione. Subito mobilita il resto della scolaresca per imbandire un pranzo coi fiocchi e poi, il 25, si presentano tutti quanti a casa del docente per festeggiare insieme. Mi piace quando si vuole trasmettere il fatto che, quello dell’insegnante, può essere anche un lavoro maschile.

Però, se fosse per me, questa volta avrei sottolineato la solitudine dei docenti solitari e lontani da casa con una maestra, anziché un maestro. Perché agli uomini, tutto sommato, arrangiarsi da soli è utile e fa anche bene. Per le donne invece è un po’ un peccato, non certo perché non sono in grado di essere indipendenti (anzi, sicuramente una maestra si sarebbe inventata qualcosa di più creativo dei tortellini in brodo, premesso che adoro i tortellini in brodo) ma perché da sempre, in questa diaspora dovuta al peccato originale dei mestieri della scuola che va così e nessuno si impegna a cambiare, sono loro ad aver sempre pagato di più. Sarebbe giusto cominciare a restituire loro qualcosa.

la terza volta ti fa pensare

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Esci di casa indossando una mascherina, percorri un paio di km in auto per raggiungere un presidio sanitario, cerchi parcheggio, ti avvicini all’ingresso del padiglione attraversando il gazebo in cui si provvede al check del green pass per gli accompagnatori. Un volontario bardato dalla testa ai piedi ti consegna il modulo dell’anamnesi, segui il percorso indicato dalle frecce sul pavimento sino all’accettazione, presenti il documento di identità e la tessera sanitaria, confermi la volontà di sottoporti – già che sei lì – anche alla somministrazione del vaccino anti-influenzale. Ti metti in coda lungo il corridoio che conduce all’ambulatorio – coda variabile a seconda dell’ora in cui hai prenotato – fino a quando un secondo volontario conciato da astronauta come il precedente ti autorizza a procedere verso la sala d’attesa dove un’infermiera raccoglie i moduli e ti indirizza alla scrivania che nel frattempo si è liberata, dove un medico prende ulteriori dati su di te e ti fornisce tutte le informazioni del caso. Quindi il passaggio successivo dentro il salone in cui sono state ricavate diverse postazioni delimitate da separé. L’addetto alla somministrazione ti fa accomodare, registra sul suo pc le informazioni sul lotto e il codice identificativo della dose che sta per iniettarti, ti scosti il maglione e tiri su le maniche della maglietta della salute. L’iniezione di Moderna sul braccio sinistro, quella di Fluarix Tetra sul destro, dopo di che ricevi la stampa con i dettagli di tutto ciò a cui ti sei sottoposto, ti risistemi gli indumenti, saluti augurando buon lavoro – chissà quante punture fanno al giorno – e ti accomodi nella sala di osservazione contigua, per sostare i quindici minuti necessari a verificare che, al momento, tutto procede bene. Passato il quarto d’ora esci, raggiungi una farmacia nei pressi per fare scorta di Tachipirina 1000, ritorni alla macchina e rientri a casa con il solito traffico del tardo pomeriggio. Alla terza volta sembra la normalità. Chissà se alla quarta potrò davvero stare a guardare.

rodary club

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Durante l’Open Day di ieri, rigorosamente online, una mamma ha ripetutamente nominato la scuola primaria intitolata a Gianni Rodari – parte dell’istituto comprensivo in cui insegno – facendo slittare l’accento a una sillaba prima rispetto alla sua posizione corretta, retrocedendo il nome allo status di sdrucciolo e privandolo così di quella piana autorevolezza che merita. Il genitore in questione ha confuso uno dei più geniali intellettuali del Novecento con quel club esclusivo che si prende a esempio negativo quando si tirano in ballo le lobby, le raccomandazioni, gli ascensori sociali fermi al piano, se non in manutenzione, e tutti gli altri effetti nefasti del capitalismo. Mi ha fatto sorridere pensare a una scuola primaria che si ispira a Ròdari con l’accento sulla O. Credo che il buon Rodàri, quello con l’accento sulla A, riderebbe di questa storpiatura concettuale ancor prima che morfologica. Trasformiamo la scuola italiana in un gigantesco Rodary Club che applichi la grammatica della fantasia allo sviluppo dei rapporti interpersonali intesi come opportunità di servizio tra gli studenti.

senza nemmeno nominarli

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Ho sentito parlare di loro la prima volta a undici anni. Stavo battendo il record sul flipper nel bar di una trattoria dell’entroterra. Mi sentivo in forma e c’erano le due sorelle figlie del proprietario – a grandi linee mie coetanee – che facevano il tifo e non mi ero mai reso conto che avere una ragazza dipendesse da quanto uno riesce a mettersi in mostra o semplicemente a volerlo ma con determinatezza.

Non si trattava di una vera e propria sala giochi, piuttosto di un angolo del locale ricavato a fianco della stufa a legna. Ho superato il punteggio del campione locale riportato dall’indicatore meccanico – i flipper con display elettronici non erano ancora così diffusi – in tempo prima di provare disagio dall’eccessivo calore. All’epoca erano di moda i dolcevita indossati con camicie di flanella sopra, un abbigliamento impensabile oggi, considerati gli standard di temperatura nei locali pubblici, per non parlare di estetica e di moda. La trattoria ospitava la cena per festeggiare il gruppo di cacciatori della zona e il menu prevedeva piatti basati sulla carne dei numerosi capi abbattuti nelle più recenti e fortunate battute. Il sapore eccessivamente marcato del cibo e le conversazioni non alla mia portata dei commensali mi avevano indotto a cercare un diversivo adatto alla mia età e, con il senno di poi, posso confermare quanto mi abbiano portato fortuna.

Il contatto successivo è avvenuto però solo molti anni dopo. La mia fidanzata di allora abitava in una casa in campagna presidiata da cani fieramente consapevoli del loro ruolo di protezione del contesto. Sebbene legati nelle ore notturne, chissà cosa vedevano sbucare dai boschi circostanti e transitare al loro cospetto. Trascorrevo molto tempo da lei, entrambi vivevamo ancora in famiglia pur già adulti ma la sua villetta consentiva maggiore riservatezza a eventuali ospiti rispetto al mio appartamento in centro e a tutte le sue stanze in qualche modo collegate.

Si doveva percorrere un vialetto in terra battuta per raggiungere in auto il cortile antistante l’ingresso ma quando la famiglia era al completo e non c’era più parcheggio mi toccava lasciare la macchina nella strada sottostante. Camminare per quel centinaio di metri di notte e senza lampioni mi faceva riflettere sull’inadeguatezza delle consuetudini di città, dove si fa di tutto per abbattere qualunque disagio rendendo l’uomo estraneo alle sue radici. Si percepivano versi a cui nessun essere umano civilizzato avrebbe potuto essere uso e che l’immaginazione correva subito ad attribuire alle meno accomodanti specie viventi, loro in primis. Tuttavia ero consapevole del fatto che non si sarebbero mai palesati sul mio cammino. Il padre della mia fidanzata mi diceva poi che avevano un odore fortissimo di selvatico e che, nel caso, li avrei sentiti prima col naso che con gli occhi.

Poi una sera, mentre seguivamo in camera sua i terrificanti exit-poll delle politiche che avrebbero portato al successo per la prima volta i partiti di destra populista nel nostro paese (obiettivo centrato grazie alle emittenti televisive in loro possesso) i cani della mia fidanzata si erano messi a ululare e a fare versi così particolari che non saprei descrivere. Ci siamo precipitati fuori, sembravano in preda a entità soprannaturali. Fino a quando il padre, uscito in pigiama come nei film western americani nelle scene in cui nelle case della prateria si sentono rumori sospetti, ha puntato una torcia in un cespuglio mettendone in fuga un’intera famiglia. Due esemplari enormi con una nidiata di piccoli al seguito. I cani ci hanno messo molto tempo a calmarsi, d’altronde non credo di aver mai visto animali domestici trasformarsi in creature a guardia di un girone dantesco in così pochi istanti.

Negli anni successivi sono assurti sempre di più agli onori della cronaca. Gli esperti riconducevano il fenomeno principalmente alle campagne sempre più trasandate e al fatto che, grazie all’abbondanza di cibo a disposizione – a partire dalle castagne – si stavano moltiplicando come mai prima di allora. Altri fattori concorrevano alla loro diffusione, a partire dai deterrenti in materia di caccia. Parlavamo proprio di questo Elisa ed io nel corso di una sosta in uno spiazzo erboso a ridosso di un castagneto durante una gitarella sull’appennino, ormai una vita fa. Il tempo di realizzare che quell’anomala apertura potesse costituire uno spazio confortevole per bestie selvatiche di quella stazza e ci eravamo trovati numerose zecche risalire intrepide le nostre scarpe da trekking. La presenza degli insetti era la prova che lì dove ci apprestavamo a consumare un panino (e probabilmente qualcos’altro) fosse un luogo frequentato da qualche clan di quella specie animale. La sera, rientrati a casa mia, ci eravamo sottoposti a un accurato controllo reciproco – a suo modo coinvolgente – per verificare se fosse il caso di recarci al pronto soccorso. L’esito negativo non mi ha impedito però di notarne una abbarbicata al mio braccio sinistro il giorno dopo, mentre in treno raggiungevo il mio ufficio di Milano. All’accettazione del Fatebenefratelli sembrarono molto allarmati della mia scoperta ma si tranquillizzarono immediatamente dopo aver saputo che la zecca in questione non proveniva da uno dei parchi cittadini.

Comunque, per farla breve, al giorno d’oggi i social sono pieni di video che li mostrano trotterellare in fila indiana nelle vie dei sobborghi, inseguire i clienti dei supermercati di periferia alla ricerca di cibo o sostare ai bordi delle strade nell’attesa del momento più opportuno per attraversare senza farsi investire. Ho condiviso qualche tempo fa un tratto di cammino con una mamma e i suoi piccolini – dicono essere pericolosi ma, per mia fortuna, avevano altro a cui pensare – una domenica mentre mi avvicinavo a quella che poi ho scoperto essere la sede di un provider di energia elettrica, un posto pieno di uffici che negli altri giorni della settimana – almeno prima del Covid-19 – brulica di impiegati e addetti ai call center. Stavo correndo e così mi sono fermato per lasciargli una via di fuga libera. Loro non si sono tirati indietro. Non eravamo così distanti e, se devo dirla tutta, in quel frangente forse l’odore del mio corpo era molto peggio del loro.

consigli per gli acquisti?

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I tre spot del momento sono il cashmere Falconeri, la pubblicità di Natale di Intimissimi e quello del chianti Gallo Nero. Li considero gli spot del momento perché li vedo a ripetizione nella fascia oraria in cui accendo la tele, all’ora del telegiornale. Non solo: li vedo spesso in sequenza, uno dietro l’altro, ma non saprei spiegare la ragione di questa programmazione congiunta. Di certo, considerata la frequenza dei passaggi, gli investimenti in comunicazione delle tre aziende produttrici sembrano essere copiosi. Ma c’è un ulteriore fattore che li unisce: in qualche modo mi urtano, ogni volta che li trasmettono.

Lo spot del cashmere Falconeri ha una musica inutilmente epica, una colonna sonora in puro stile marketing da scalata verso una vetta o impresa portata a termine rischiando la vita. Il tutto su immagini che non c’entrano molto: scampoli di lana colorata cuciti insieme con maestria e modelle che indossano i capi testé ultimati per guardare chissà che cosa fuori dalla finestra:

Dello spot Intimissimi di Natale non c’è nulla di sbagliato se non che non so che gusto ci sia a preparare l’albero in mutande e reggipetto, o comunque in déshabillé, oltre al fatto che porno e tradizione non costituiscono, a mio parere, un connubio azzeccato. Piuttosto meglio il tipo norvegese che si limona Babbo Natale, ecco. Qui manca completamente l’ironia e la seduzione, con gli addobbi, stride un po’.

Dello spot del chianti Gallo Nero, invece, il tipo che balla e fa le smorfie è irritante e per di più sembra uno che alza il gomito con frequenza. Ma ha un bel vestito.

non guardo la tv

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Nel corso della semifinale di X Factor Manuel Agnelli ha ripercorso le esibizioni dei Bengala Fire snocciolando, autore per autore, le loro cover presentate nel corso delle puntate come se suonare in un talent mainstream canzoni degli Interpol o dei Fontaines D.C. fosse una cosa che succede tutti i giorni. Qualche settimana fa Emma Marrone ha scelto, per il concorrente Gianmaria, “Io sto bene” dei CCCP, resa peraltro in una versione davvero azzeccatissima. Mentre non ho dubbi sul fatto che Agnelli e i Bengala Fire annoverino, tra i loro ascolti, le band che hanno suonato, sono sicuro che Emma e il suo giovane talento – che sarà sicuramente il vincitore della nuova edizione del programma – non avessero idea di chi fossero i CCCP prima che i consulenti artistici della squadra pensassero per Gianmaria il celebre brano di punk filosovietico. Gianmaria stesso li ha chiamati CCP, omettendo una esse cirillica, e non credo che Emma, considerando il background che le ha aperto le porte di Amici e che la collaborazione più alternativa l’ha vista al fianco di gente del calibro dei Modà, li avesse mai ascoltati prima. Avete notato l’artificiosità con cui la giudice leggeva il copione alla sua postazione al momento di presentare il pezzo? Ma comunque il fatto che ora la sua collezione di dischi includa anche “Affinità e divergenze” non può che farmi piacere. Possiamo ringraziare X Factor quindi di aver contribuito a scardinare l’approccio popcentrico della musica in tv e di aver acceso la curiosità del pubblico (e degli addetti ai lavori nazionalpopolari) verso mercati non tanto sommersi – nel senso di underground – ma considerati superflui da una formazione musicale generalista che impone un’accezione della trasgressione e del rock esclusivamente secondo canoni consolidati. Quelli – per dire – che ci fanno gridare al miracolo con i Måneskin.

koda

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Vivo in un borgo alla periferia nord di Milano – casa mia è ubicata a meno di un km dal cartello che sancisce ufficialmente i confini urbani – che i poteri forti hanno deciso di isolare dal resto del mondo. Non so spiegarmi il motivo se non con il fatto che ci abito io che sono un blogger di tendenza che pesta i piedi a chi ordisce complotti e a tutte quelle organizzazioni lì che tramano per cancellare il genere umano dalla faccia della terra e fare tabula rasa per l”ormai programmata sostituzione della razza del milanese con quella delle popolazioni che odiano il presepe.

Non si capisce infatti perché tutte le vie di accesso e di uscita dal borgo in cui vivo (lo chiamo borgo anziché paesello o quartiere dormitorio o hinterland per dami un tono e farmi sentire come uno di Colle Val d’Elsa) simultaneamente siano oggetto di lavori, risultino chiuse o a doppio senso ma a una carreggiata perché l’altra è in fase di ristrutturazione, con il risultato che uscire o entrare da qui è un’impresa per la quale ogni volta occorre prepararsi psicologicamente.

Tutto questo con l’aggravante che, da quando siamo fiaccati dal Covid, la gente preferisce muoversi in auto piuttosto che usare i mezzi pubblici, variabile impazzita che impazzisce ulteriormente – non mi sono mai spiegato il perché – sotto Natale, come se tutti ci fossimo messi d’accordo per muoverci in massa alla ricerca dei regali rigorosamente prendendo la macchina. Il risultato è che occorre programmare ogni spostamento con attenzione, partendo almeno mezz’ora prima per avere un margine sufficiente da dedicare al tempo da trascorrere in coda al semaforo o bloccati nel traffico.

C’è una specie di tangenziale, per noi una vera e propria arteria grazie alla quale raggiungiamo facilmente ogni destinazione verso ogni punto cardinale, per la quale è stato previsto un sacrosanto interramento in previsione di Expo 2015. Siamo nel 2021 e, manco a dirlo, non è per nulla finita e anzi più passa il tempo e più ci privano di un pezzetto tanto che, ogni volta, è possibile imbattersi in un ingresso chiuso o un’uscita indisponibile e, magari, spostata più avanti, così da aggiungere oltre alla coda in un senso anche quella in senso opposto, per tornare indietro.

A me piace che il sistema, quello sano, per intenderci, quello che si oppone ai poteri forti, faccia di tutto per scoraggiarmi a usare l’auto e muovermi con i mezzi o in bici. Nonostante ciò le volte in cui sono obbligato a usare la macchina mi trovo sempre più spesso fermo con il motore acceso, con un’auto prima e una dietro, a osservare il discutibile panorama ai lati in attesa che finalmente sia il mio turno e possa proseguire con successo l’esperienza di spostamento da un punto all’altro che cerco di portare a termine.

La gente, quella che invece non vuol essere disincentivata a spostarsi con il proprio suv, sta uscendo di testa e posta sui social le foto delle code. Code in entrata e in uscita dal paese. Code con il tramonto rosso o con la brina ghiacciata del mattino. Code con uomini che pisciano nelle aree di emergenza e code con manifesti pubblicitari di organizzazioni anti-abortiste. Code con scoiattoli che si arrampicano sugli alberi e persino con le volpi e le lepri che fanno capolino dai loro nascondigli per vedere che cosa sta succedendo, perché ci sono così tanti esseri umani fermi con i loro mezzi di trasporto.

Forse un giorno tutti i lavori termineranno e si potrà riprendere a sfrecciare sulle strade con i nostri bolidi noleggiati a lungo termine – così è come avere sempre la macchina nuova –  e tornare a far valere il principio della velocità come fattore discriminante della società. Ora, tutti fermi in coda, sembriamo davvero tutti uguali. Il piano dei poteri forti è molto più democratico di quando potessi immaginare.

top secret

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I compiti in classe e le prove di verifica sono atti amministrativi della scuola, in base ai quali i docenti documentano e formulano le loro valutazioni sugli apprendimenti degli alunni. Ai sensi della normativa sulla sicurezza dei dati (cosiddetta ‘privacy’, D.Lgs. n. 196/2003 e Regolamento UE 27 aprile 2016, n. 679), il titolare ultimo di tutti gli atti e dei documenti della scuola è il Dirigente Scolastico: nessun atto può quindi essere dato in originale senza la sua autorizzazione e nessuno è autorizzato a fornire copia di verifiche, compiti in classe, relazioni, registri o qualunque altro atto della scuola senza la specifica autorizzazione del Dirigente Scolastico.

La normativa riguardante la trasparenza e il conseguente diritto di accesso agli atti da parte di cittadini verso la Pubblica Amministrazione (L. 241/1990, D.P.R. 184/2006 e successive modifiche) sancisce la legittimità della richiesta dei genitori di poter “visionare” compiti e verifiche dei loro figli e di richiederne copia.

Nella normativa citata, si distinguono un accesso “informale” agli atti, mediante motivata richiesta anche verbale di visione degli stessi, e un accesso “formale”, mediante presentazione di istanza documentata.

Sulla base di quanto sopra, si dispongono le seguenti modalità per le richieste in merito da parte dei genitori:

  1. accesso informale: i genitori possono chiedere ai docenti di “visionare” compiti e verifiche svolti in classe dai propri figli; i docenti daranno visione agli interessati della documentazione richiesta, chiarendone gli aspetti pedagogico-didattici e valutativi; questo può avvenire durante il ricevimento settimanale con le famiglie;
  2. accesso formale: i genitori che necessitano di una copia di tali documenti debbono presentare richiesta indirizzata al Dirigente Scolastico, in cui dovranno indicare tutti gli estremi del documento oggetto della richiesta, specificare l’interesse (diretto, concreto e attuale) connesso all’oggetto della richiesta ed esplicitare la propria identità. Previa autorizzazione del Dirigente Scolastico, i docenti provvederanno quindi a fotocopiare o a far fotocopiare il documento richiesto e a consegnarlo alla Segreteria didattica. I genitori, durante gli orari di segreteria, a seguito di una comunicazione via mail da parte dell’Istituto, a fronte di una firma per ricevuta e del corrispettivo economico dovuto, ritireranno presso la segreteria didattica la copia della verifica richiesta.

Il sonno di una scuola unicamente basata sulla valutazione non può che generare mostri come quelli che leggete qui sopra. Si tratta di una circolare circolata tra dirigenti e pubblicata più o meno as is su diversi siti di istituti di ogni ordine e grado.

Quando la scuola è unicamente basata sulla valutazione succede che i genitori intendono i voti come unità di misura ufficiale per pesare il cervello, la personalità e il futuro dei loro figli. I figli, cioè gli studenti, provano ogni mezzo e trovano i sistemi più raffinati per adulterare il punteggio con valori i più alti possibili – allo stesso modo in cui alle medie immergevamo il termometro al mercurio nel the bollente per darci malati e evitare l’interrogazione di matematica – con l’obiettivo di non tradire le altissime aspettative dei genitori. I docenti applicano metriche da mercato rionale mandando in vacca ogni criterio di raggiungimento degli obiettivi e, allo stesso tempo, cercano con i corsi di formazione più sofisticati di intercettare i metodi di contraffazione delle prove dei loro studenti che, grazie ad acronimi del calibro di BYOD e DAD, oramai vivono su un altro pianeta, altro che cloud.

Come potete leggere su questa circolare – provate a cercarla sul sito della scuola dei vostri figli o di quella in cui insegnate, sono sicuro che salterà fuori – le verifiche scritte sono dunque intese atti amministrativi, una cosa che fa sembrare la scuola un tribunale. Un posto dove si rischia una denuncia e non un luogo invece dove ci si diverte con la cultura, con lo stare insieme ai compagni, con l’imparare e tutte quelle cose belle che si leggono nella documentazione ufficiale, nei piani di offerta formativa e nei libri degli specialisti dell’educazione.

Nessuno vuole prendersi la responsabilità di ammettere che un sistema scolastico così è oramai superato. Anziché cambiarne i paradigmi gli sforzi sono tutti volti a definire i confini in modo da non incorrere nel rischio di un ricorso. Genitori contro insegnanti. Insegnanti contro studenti. Studenti contro dirigenti. Dirigenti contro il personale di segreteria. Tutti gli stakeholder della scuola, anziché perseguire un obiettivo comune, mirano alla sopravvivenza del proprio clan senza incorrere in grattacapi. Per farvi un esempio, la prof di matematica di mia figlia fa strappare agli studenti le brutte delle verifiche. Non sia mai che qualcuno le porti a casa e possa ravvisare incongruenze con la valutazione effettuata sulla copia consegnata. D’altronde gli insegnanti non vogliono essere valutati, i genitori sono ingerenti, i dirigenti sono manager senza budget, in segreteria lavorano spesso persone che nessuna azienda privata assumerebbe. Si dice che la scuola dev’essere inclusiva, ma è bene che inizi a non esser più divisiva.

linea verde

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Ma che ci fa Luca Sardella nello spot dell’Amaro del Capo? Ah, il jingle è suo.