etichetta

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La mia collega, terminata l’ora in compresenza, mi ha messo al corrente del fattaccio. Dopo aver accompagnato all’uscita i nostri alunni che rientrano a casa per il pranzo e non mangiano in mensa con gli altri, è tornata in classe apposta per chiamarmi fuori e avvisarmi in segreto che una delle bambine le aveva appena rivelato che avevo fatto lezione con il maglione indossato al contrario. Il maglione in questione è tutto grigio. Già è difficile, la mattina, indovinare il dietro e il davanti. Figuriamoci, nella penombra delle sei e trenta, azzeccare il verso giusto. Non c’è l’etichetta sul collo. Ho l’abitudine di tagliarle, quando acquisto un indumento, perché lì dietro mi causano prurito. È rimasta però quella in basso sul fianco, un’etichetta bella lunga, e qualcuna delle bambine più inclini all’aspetto altrui l’ha notata. Ne parlavo con mia moglie stamattina. Lei sostiene che hanno ragione e che si tratti di un dettaglio rivelatore di sciatteria. «Prova a metterti nei nostri panni», mi ha detto, ma senza specificare se indossati dal verso giusto. «Prova a metterti nei nostri panni: se Elsa ci dicesse che uno dei suoi prof ha fatto lezione con un maglione al contrario, non avremmo criticato al docente l’attenzione all’aspetto non adeguata al posto di lavoro?». Non solo. Probabilmente ci saremmo addirittura infilati in una di quelle polemiche contro il sistema scolastico, i docenti, i presidi e il personale di segreteria che non si sa mai dove vanno a finire. Non ha tutti i torti, mia moglie. Pur non capacitandomi della mancanza di cui mi sono reso responsabile, quando la collega mi ha redarguito mi sono immediatamente sfilato il maglione davanti a lei e l’ho indossato nel verso giusto mentre rientravo in classe. «Bambini, ma perché non mi avete avvisato che avevo messo il maglione al contrario?», ho chiesto. Alissa allora ha confermato che la sua compagna davanti, una di quelle appena uscite per il pranzo, mentre spiegavo alla lavagna si era girata verso di lei per farle notare l’etichetta. Insomma, la cosa non è passata inosservata. E comunque, giuro, non mi era mai successo.

president reserve

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Abbiamo avuto allenatori stranieri delle nostre squadre di calcio, Eike Schmidt è il direttore degli Uffizi e anche nelle aziende, specialmente ai vertici delle filiali locali delle multinazionali, è facile trovare manager non italiani. Per questo la proposta di un Presidente della Repubblica di un’altra nazionalità mi sembra la più efficace, considerando la penuria di candidati a questo giro di elezioni e, soprattutto, la difficoltà di mettere d’accordo i due poli in cui è divisa la nostra politica. L’ipotesi Angela Merkel, oramai prossima alla conferma, sembra la più efficace e ha lo stesso sapore dei grandi campioni della NBA che, vinto tutto quello che c’era da vincere negli Stati Uniti, e destinati alla panchina per motivi di età, si trasferiscono nelle squadre della nostra massima serie per fare ancora la differenza. Angela Merkel soddisferebbe tutti i requisiti: è brava, è qualificata, è donna, piace a tutti. Certo, qualcuno degli altri candidati nostrani potrebbe leggere nella sua elezione un affronto personale, pensate solo a chi in passato ne ha criticato la sua avvenenza. Però, consapevoli del successo ottenuto nella sua nazione di origine, è ovvio che risulta l’unica in grado di guidarci in questa complessa fase di transizione. Provate a immaginare: la Merkel presidente e Draghi nella stanza dei bottoni. Un’Italia un po’ tedesca e più europea è proprio quello che ci vuole.

marlboro

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I genitori dei fratelli Gramigna si sono dati da fare. Hanno sfornato 6 figli tutti maschi e tutti in scala come i Dalton di Lucky Luke, nonostante il cognome da tramandare racchiuda in sé l’essenza etimologica della cattiveria, non preannunci niente di buono, un esplicito invito della natura ad andarci piano con la conservazione della specie. Con questi presupposti meglio non procreare ma sono tempi acerbi, visti da qui. Indigenza e deprivazione sociale lasciano spazio a credenze che il boom economico, esauritosi da un po’, ha reso già ampiamente superate. Una famiglia numerosa sono bocche da sfamare ma anche braccia e gambe da immolare al sostentamento e al bene comune. Più lavoro uguale più opportunità. Oneste, nel migliore dei casi. Altrimenti, si sa, il malaffare ti attende a braccia aperte, soprattutto nel tessuto urbano in cui, al seguito di flussi migratori dal sud, è approdato il capostipite di quel nucleo famigliare scomodo per la comunità, all’inseguimento di un po’ di fortuna e al riparo dai mestieri faticosi e umilianti della terra arida delle radici.

Del miraggio del benessere i genitori dei fratelli Gramigna non ne colgono nemmeno i contorni dalle piccole finestre delle topaie di quella specie di ghetto dei vicoli del centro storico, prima che un ripensamento del tessuto urbanistico trainato dalla gentrificazione non imporrà a quella gente di fare armi e bagagli per trasferirsi nelle case popolari alla periferia, su modello degli standard di convivenza delle grandi città industriali del nord. I fratelli Gramigna, in quel quartiere da cui è meglio stare alla larga, sono venuti fuori tutti problematici e, se i figli sono diventati dei delinquenti, mi domando come possano essere i genitori, anche se nessuno li ha mai visti. La leggenda narra che la cosa sia addirittura promiscua, un marito con due mogli e tutta quella prole con cui condividono la stessa stanza.

Il meno pericoloso dei fratelli Gramigna è il più grande. Sfoggia baffoni da film western e si capisce che non è del tutto normale anche solo dal modo in cui cammina. Gira con un borsello trascinando un piede malandato per la città, vestito in modo molto approssimativo e parlando da solo e, fidatevi, è meglio così perché, penalizzato dal dialetto stretto, non si sa bene che cosa dica. Gli altri cinque invece sono dei teppisti, ciascuno di essi pronto ad andare in soccorso del fratello minore prossimo nella scala, con il risultato che il più piccolo di tutti, paradossalmente, è quello da cui stare di più alla larga perché beneficiario di un’immunità multilivello senza confronti. Ha dodici anni, fa la prima media e ai suoi coetanei e ai più grandi chiede favori poco leciti facendo leva sulla copertura dei fratelli che chiama subito in aiuto nel caso qualcuno si permetta di alzare la testa. A me chiede spesso di comprargli le Marlboro perché lui ha ancora le fattezze di un bambino e i tabaccai della zona oramai lo conoscono. Però almeno mi dà i soldi e non pretende che gliele paghi io a suon di ceffoni. Insomma, potrebbe andarmi peggio. È un’occasione che non mi sono lasciato scappare. Quando lo incrocio lo saluto per primo ma mantenendo un profilo basso in modo che non si accorga che lo faccio per tenerlo buono e non essere uno dei tanti contro cui accanirsi per dimostrare a tutti chi è che comanda.

I fratelli più grandi girano con armi bianche, coltelli, catene, tirapugni e la cosa non sarebbe un problema se non avessero dai 14 ai 19 anni e se, come il minore, non frequentassero tutti ancora la scuola dell’obbligo. Siamo alla fine degli anni settanta e nessuno, in quella che più tardi verrà identificata come secondaria di primo grado, si fa tanti problemi a bocciare i più asini, con la paradossale conseguenza di trasformare le medie in piccoli carceri minorili o riformatori senza vitto e alloggio, in cui i ragazzi come i rampolli dei Gramigna fanno il bello e il cattivo tempo alla guida di vere e proprie gang che, al confronto, bulli e cyberbulli degli anni duemila sono seminaristi. La scuola dei Gramigna, che purtroppo è anche la mia, è un edificio già fatiscente malgrado risalga ad appena trent’anni prima, quando era stato costruito sui ruderi di un antico quartiere a ridosso del porto, bombardato durante la seconda guerra mondiale. A guardia della scuola c’è un custode che vive con moglie e figli in un appartamento ricavato nella struttura, provvisto di balcone che dà sul giardino dove la moglie del custode stende montagne di bucato.

L’ingresso della scuola dà su una piazzetta che ospita un’impresa di pompe funebri, una chiesa e la farmacia a cui uno dei Gramigna, non ricordo quale nella scala, ha sfondato con la sua catena la vetrina mentre eravamo tutti in attesa che suonasse la prima campanella. Una bravata, più che un’azione criminale, pensata con l’intento di mettere le mani su una confezione maxi di preservativi e lanciarli sulla folla dei ragazzi in attesa di iniziare le lezioni, allibiti da tanta sfrontatezza sfoggiata in barba al rischio di conseguenze penali. Alcuni miei compagni di classe ne hanno raccolti un po’, attirati dalle buste color arancio, e abbiamo iniziato a giocarci come se si trattasse di palloncini. I bidelli, accorsi con il vicepreside nel tentativo di mettere ordine a quella specie di sommossa situazionista, impediscono con ogni mezzo che qualcuno introduca i profilattici in classe, costringendo i docenti a dare delle risposte in tema di sessualità. Io mi sono limitato a nasconderne uno nel portafoglio. Ricordo di averlo aperto dopo, a casa, e di averlo testato da solo con la calma necessaria.

Un altro dei fratelli Gramigna invece è un seguace di Bruce Lee, il che lo rende doppiamente pericoloso. Lui gira direttamente con un nunchaku infilato dietro, nella cintura dei jeans e, quando lo estrae, lo fa fischiare intorno alla testa come nei film d’azione del suo eroe. La sua specialità, a parte darlo in faccia a chi non gli va a genio, è quello di impiegarlo secondo il suo corretto uso di antico strumento di caccia scagliandolo verso assembramenti di piccioni accorsi per abbeverarsi alla fontana sul sagrato della chiesa, con il risultato che almeno due o tre uccelli ogni volta ci lasciano letteralmente le penne.

Ma il resto dei fratelli non è da meno e, singolarmente o insieme, fanno il bello e il cattivo tempo. Un paio girano sempre con Gabriella che è l’insegnante laica di religione che se li porta appresso per evitare che diano in escandescenze con i colleghi più refrattari all’inclusione, fedele alla sua missione di salvare gli ultimi. Gabriella è la stessa che poi io ritroverò alle superiori e alla quale con Massimo prenderemo in prestito la A112 parcheggiata sulla rampa di accesso alla scuola per farci un giro durante la sua ora di lezione, roba che in caso di incidente – e lo dico da uomo prudente in piena terza età nel nuovo secolo – potrebbe costituire un problema per noi, per lei, per la scuola e per i nostri genitori, almeno i miei perché io sarò protagonista di quella bravata da minorenne mentre Massimo, mio compagno di classe, da adulto fatto e finito. Nella società a ridosso degli anni ottanta essere ripetenti non è un grosso problema, come si evince per i fratelli Gramigna. Hanno tutti frequentato ogni classe almeno due o tre volte e in terza media, quasi diciottenni, li vedi con i baffi e la barba, i vestiti da adulti (poveri) e le ragazze che, affascinate da tutte quelle dimostrazioni di prepotenza, almeno le più scaltre ci fanno un pensierino.

Nulla di cui stupirsi. Maria Antonietta, che è una che la vita l’ha resa precoce e sveglia a nemmeno quattordici anni, la noto spesso accompagnarsi alle reclute della gigantesca caserma che è la ciliegina sulla torta della nostra città, che, anche ora al netto della leva obbligatoria, resta una delle più brutte d’Italia. La domenica, al luna park o a spasso per le vie dai negozi chiusi, si incontrano solo militari provenienti dal sud o dai paesi al confine con il patto di Varsavia. Si ingegnano a rimorchiare le ragazze e poi cercano un po’ di intimità in uno dei numerosi cinema del centro, pagando biglietti ridotti per scadenti film comici con Pozzetto o Montesano. Poi, fuori al buio dopo i titoli di coda, con l’obiettivo di aumentare il potenziale di squallore di quello scenario di provincia della domenica sera, vanno a disporsi in torno ai tavoli delle pizzerie.

Anni dopo, sulle pareti del piccolo cinema d’essai della città – un posto che per un periodo importante per la mia formazione mi vedrà presente quasi tutte le sere, orgoglioso della mia unicità nell’assistere a spettacoli di elevato valore culturale – si leggerà incorniciata un’intervista a un noto intellettuale del posto, oggi leader dei Novax, che brutta fine che ha fatto. Nell’articolo si sosterrà proprio quello che ribadisco qui, e cioè che non ci sia niente di più triste al mondo di una pizzeria, in quella città, la domenica sera, una perfetta ambientazione per una scena deprimente di un film. E malgrado sia da tanto tempo che non abito laggiù, sono passati 40 anni, non ho dubbi sul fatto che le sue parole siano ancora di urgente attualità.

trasferta

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Non so se si possa davvero parlare di una vera e propria scuola genovese di comici anni novanta. Nel caso, io potrei contribuire alla redazione di uno speciale dedicato a quella generazione di cabarettisti con qualche aneddoto perché, per esempio, so che quello che potrebbe essere il caposcuola del movimento, anche solo onorario perché purtroppo è mancato molto giovane, viveva due piani sopra l’ufficio in cui lavoravo. I tre soci dell’agenzia mi avevano concesso le chiavi e una domenica sera, rischiando il posto, ci avevo portato Claudia perché passeggiavamo nei pressi e ci era sopraggiunta una urgenza di intimità così forte da impedirci di raggiungere casa mia. Meglio consumare sul posto e, affrettandoci a girare la chiave nella serratura per spalancare il pesante portone, avevamo incrociato l’attore all’ingresso, mentre usciva a braccetto con la sua compagna.

Accadeva spesso che qualcuno si trattenesse in agenzia durante il fine settimana, se c’erano consegne o scadenze da rispettare. Così, nel caso in ufficio avessi trovato qualcuno, avrei potuto giocarmi qualsiasi scusa per giustificare la mia presenza in un giorno festivo. Il fatto è che con Claudia le cose erano davvero complicate. Avevamo trascorso insieme la parte conclusiva delle vacanze di Natale a casa di suoi amici, a Roma. Io l’avevo raggiunta il primo gennaio, perché la notte di capodanno ero impegnato a lavorare. Arrotondavo suonando in una di quelle orchestre che si ingaggiavano negli alberghi e nei ristoranti prima che la musica dal vivo smettesse di essere un aggregatore di persone, un fattore comune per il divertimento condiviso. Avevamo intrattenuto i clienti di un hotel fino alle due di notte in una località sciistica. Terminato il veglione ero rientrato a casa alle cinque del mattino e, poco dopo le sei, ero salito sul primo treno per raggiungerla. C’eravamo dati appuntamento nel primo pomeriggio ai piedi di Trinità dei Monti. Avevo già un cellulare ma si scaricava in poche ore e mi era stato possibile solo accordarmi con uno degli amici con cui si trovava, uno dei pochi dotati di telefono (era gente troppo snob per avvalersi di tecnologia consumer), caricandolo nell’unica presa elettrica disponibile ubicata nel bagno del vagone, a disposizione dei passeggeri desiderosi di farsi la barba durante il viaggio.

In quei giorni a Roma io e Claudia dividevamo un letto singolo ma la promiscuità non ci dava fastidio. L’ultima notte però se l’era presa per qualcosa che avevo detto. Avevamo cenato tutti insieme nell’appartamento del nipote di un uomo politico allora sulla breccia dell’onda, una casa con una terrazza pazzesca sui fori imperiali. Rincasati nell’appartamento in cui eravamo ospiti, una volta coricati, avevo commentato gli occhi della sorella della padrona di casa seduta al tavolo con noi e, si sa, son cose che è meglio evitare, ma il buon senso si impara più avanti, nella vita. La crisi era così tangibile e ingombrante da indurmi a soluzioni estreme, a partire dalla mortificazione del corpo per attribuirmi tutte le colpe e salvare, attraverso una primitiva forma di redenzione, quello che potevo. Trascorsi così il resto della notte come un fachiro, sdraiato sullo scendiletto posto sul pavimento. Ancora oggi penso all’impressione che devo averle dato con quella auto-penitenza d’altri tempi, peraltro superflua. Il viaggio in treno di ritorno insieme, poi, non ne parliamo. Un vero disastro.

Rientrati a Genova, io sarei dovuto partire la settimana successiva per una trasferta di lavoro. Erano in auge contratti professionali dalle definizioni bizzarre, ricavate dalle sillabe iniziali dei nomi con cui venivano descritti, cose come cococo e cocopro. L’agenzia mi rivendeva ad alcuni clienti come formatore per il software che utilizzavamo per sviluppare applicazioni multimediali interattive. Il prossimo corso che avrei dovuto tenere sarebbe partito il lunedì seguente nella sede di una casa editrice di Firenze specializzata nella pubblicazione di guide turistiche su cd rom. La prassi imponeva che io mi portassi a casa dall’ufficio il cd originale del software, da installare sulle macchine dei partecipanti alle lezioni, il venerdì pomeriggio prima della partenza del lunedì mattina, ma la situazione con Claudia, i continui battibecchi a cui il suo carattere mi aveva destinato, e la conseguente full immersion nell’ennesima riflessione sull’opportunità di interrompere il nostro rapporto o no, mi avevano distratto dalle operazioni più urgenti, quelle in cui occorre mettere la testa quando invece la testa è altrove.

Mi ero reso conto di aver dimenticato il software in ufficio la sera di quel venerdì (che Claudia ed io avevamo trascorso senza incontrarci) una volta coricato. Troppo tardi. Avevo comunque tutto il fine settimana davanti e le chiavi. Cercando di non combinare pasticci con il codice dell’antifurto, sarei potuto passare nel weekend in agenzia proprio come avevo fatto per usare l’ufficio come un pied a terre qualche settimana prima, questa volta però da solo e per una causa decisamente meno appagante. Decisi comunque di chiudere la questione il più presto possibile, e lo feci la mattina successiva.

Il fatto era che del cd con il software, in ufficio, non c’era traccia, a parte la custodia vuota. Provai ad avviare tutte le postazioni – si usavano costosissimi e monumentali Mac – nel caso qualcuno l’avesse dimenticato nel lettore del computer, senza successo. Non avevo scelta: avrei dovuto chiamare l’ingegnere, uno dei soci dell’agenzia. Le cose non andavano benissimo tra di noi e quel contrattempo non ci voleva. Facevo il programmatore ma, a differenza dei colleghi con un’estrazione informatica, non ero certo un genio del codice. Lavoravo lì contando nel fatto che, prima o poi, mi avrebbero spostato nel reparto progettazione per mettere la mia laurea in lettere al servizio della creazione di contenuti. Se avessi controllato il giorno precedente, un venerdì lavorativo con l’ufficio al completo, non ci sarebbe stato problema. Avremmo risolto l’assenza del cd di persona e la mia responsabilità nella faccenda sarebbe stata marginale agli occhi di tutti. Cerchi una cosa e, se non la trovi, è colpa di chi l’ha usata prima di te e non l’ha rimessa a posto. Chiamare il mio capo invece in un giorno di chiusura avrebbe significato innanzitutto ammettere la mia mancanza del giorno precedente – un bravo ingegnere pianifica al meglio ogni cosa, anche una trasferta di lavoro – e poi disturbarlo nel tempo libero. La sua fidanzata, socia quanto lui, ci provava sfacciatamente con me e, per farla breve, le dinamiche al lavoro non erano delle migliori.

La mia estrazione umanistica, a differenza di quelle teste quadrate tutte matematica e zero passione, mi consentiva però maggiore spregiudicatezza nel muovere le giuste leve per raggiungere i punti più sensibili dell’animo dell’interlocutore a seconda dell’occorrenza. Non a caso la psicologia, in certi frangenti, è più efficace di qualsiasi algoritmo. Trovai così sui due piedi una scusa plausibile per minimizzare il mio grado di responsabilità nell’accaduto: dissi al mio capo che avevo portato il cd a casa come ero tenuto a fare il giorno precedente. Non avevo controllato però che, dentro alla custodia, il cd non c’era. Tutto sommato ci poteva stare, una distrazione di entità inferiore che poteva capitare a tutti. Chiamai l’ingegnere dai telefoni dell’ufficio e mi lamentai del fatto che, certo potevo controllare meglio, ma chi l’aveva utilizzato la volta precedente avrebbe dovuto rimetterlo a posto. La cosa era andata molto più fluida di quanto temessi. Fece un veloce giro di telefonate con gli altri due soci, nel caso qualcuno di loro lo avesse preso per qualche motivo. Nel frattempo io avrei provato con i colleghi. Quando ci risentimmo per fare il punto, nessuno dei due era venuto a capo del mistero. Per fortuna c’era qualche copia del cd master da portare a Firenze, per il momento la situazione era salva ma la questione comunque bisognava prenderla in mano e risolverla.

L’agenzia, forte del contratto con cui eravamo legati, aveva un modo flessibile per gestire le mie trasferte per i corsi di formazione. Mi corrispondeva una cifra forfait che io ero libero di utilizzare, a mio piacimento, nella scelta del viaggio e dell’alloggio. Volendo avrei potuto farmi Genova – Firenze in autostop e, una volta arrivato, dormire da un amico o sotto un ponte per azzerare le spese e trarre il massimo dall’importo. Valutazioni di quel tipo, però, si fanno solo da adulti ed io, malgrado avessi quasi trent’anni, vivevo ancora nell’orbita della post-adolescenza. Acquistai un biglietto andata-ritorno per quella che, a metà anni novanta, rientrava nei primi timidi tentativi di alta velocità ferroviaria. Per la prima volta viaggiavo in un contesto business, ma la spregiudicatezza con cui avevo affrontato quell’esperienza mi si ritorse contro amaramente, a poco di tre ore dalla partenza. Non sapevo che il Pendolino, si chiamava così il convoglio, fermasse in una stazione secondaria di Firenze e non nella principale. Chiuse le porte a Rifredi, mi appropinquai all’uscita per scendere a Santa Maria Novella ma, vedendo sfrecciare la Valdarno a tutta velocità fuori dal finestrino, una decina di minuti dopo, iniziai a temere il peggio. Chiesi conferma al mio vicino di posto che, sorpreso quanto me, mi sbatté in faccia la tragicità della situazione in cui mi trovavo.

Avrei dovuto presentarmi alle 10 del mattino presso la casa editrice ma non c’era altra soluzione se non quella di arrivare a Roma, successiva e unica fermata, e prendere il primo treno per tornare indietro. Avrei iniziato le lezioni solo nel primo pomeriggio e questo comportava una giornata in più a Firenze – il cliente aveva pagato tre giorni pieni di corso, quindi sarei dovuto rimanere una mattina extra per recuperare il tempo che avevo perso – e una notte in più a mie spese in albergo. Ma quello era niente rispetto all’umiliazione di dover chiamare i miei principali e spiegargli l’accaduto e, come è facile immaginare, a differenza della questione del cd con il software, non avevo scuse a disposizione. Quella fu la prima volta in cui accusai una reazione fisica che, a quanto ho letto in giro, è riconducibile a un attacco di panico e che, da allora, mi è successa solo altre tre volte, in tutti questi anni. E questa è l’unica volta in cui sono disposto a confessarlo a qualcuno, perché si tratta di una cosa molto personale. Ero talmente sconvolto da quanto mi era successo che provai, dal nulla, un vero e proprio orgasmo con tanto di eiaculazione, senza nessun tipo di aiuto che la pratica onanistica mette a disposizione per portare a termine questo genere di operazioni.

Devo ammettere però che, grazie alla risposta che diede il mio corpo e al conseguente piacere – decisamente anomalo – ridimensionai immediatamente la situazione e la riportai a un’entità accettabile e, di conseguenza, affrontabile. Ero stato un perfetto idiota, certo. Il capotreno, leggendo la destinazione sul biglietto, non mi aveva avvisato. Ancora una volta ero riuscito a ideare, e a raccontare a me stesso, una responsabilità di fantasia (e parziale) per ciò che avevo combinato.

Anzi, svuotato da tutto, mi ritrovai la mente sufficientemente lucida da riflettere sulla curiosa vicenda del cd software che non era al suo posto. Individuare un colpevole e fornire una spiegazione ai soci dell’agenzia, inoltre, avrebbe sicuramente migliorato la mia posizione, dopo la figuraccia della mattina buttata via in treno. Poco prima delle vacanze di Natale, quelle che mi sarei ricordato per tutto il resto della vita tanto da scriverle qui a venticinque anni di distanza, era passato in ufficio Antonio, un tardo pomeriggio. Non ricordo il suo cognome, e anche se lo avessi presente di certo non lo pubblicherei qui, alla mercé di tutti e a rischio querela. Perché Antonio, secondo me, si era reso autore di un furto bello e buono. Antonio si occupava ufficialmente di montaggi video ma, con l’esplosione della multimedialità resa possibile dall’informatica, smanettava con un po’ di tutto quello che si poteva fare con un computer. Antonio collaborava con noi ma non ricordo perché fosse piombato in agenzia a quell’ora, forse a consegnare qualcosa. Ero l’ultimo rimasto a chiudere una delle tante scadenze, come sempre, ma stavo per rincasare. Su quel Pendolino mi ricordai così di essermi allontanato per andare in bagno mentre Antonio era lì e, rientrato alla mia postazione, di averlo sorpreso mentre sbirciava nella mia borsa. Non avevo assolutamente pensato al fatto che volesse rubare qualcosa. Piuttosto, nella mia ingenuità – la stessa che mi faceva pensare che un capotreno dovesse avvisare tutti i passeggeri del fatto che il Pendolino non fermasse a Santa Maria Novella ma che occorreva cambiare a Rifredi – mi ero convinto che avesse confuso la mia borsa con la sua. «Quella è la mia», avevo esclamato, ma non voleva essere un rimprovero, piuttosto un consiglio, uno di quelli che si danno per aiutare qualcuno a portare a termine quello che sta facendo, senza sospettare che Antonio aveva capito di trovarsi nella situazione perfetta per commettere un furto.

Così, tralasciando la lettura del romanzo che mi ero portato appresso per affrontare il viaggio senza sapere che sarebbe durato il doppio del previsto, ebbi l’illuminazione. Antonio aveva rubato il cd di installazione del software quella sera, mentre facevo pipì. Poi, già che c’era, ha dato un’occhiata nella mia borsa per controllare se non ci fosse qualcos’altro di redditizio. Decisi però di non chiamare ancora la socia fidanzata dell’ingegnere, con cui avevo ammesso la mia debacle professionale di quella mattina. Dall’ufficio avevano gestito il mio ritardo con il cliente e un’ulteriore telefonata in quel frangente avrebbe messo in secondo piano un’intuizione così sensazionale. Era molto meglio lasciare che le acque si calmassero e rimandare la soluzione del caso al mio rientro.

Ero già stato una prima volta nella redazione della casa editrice. Avevo un ottimo rapporto con i tre partecipanti al corso, tre miei coetanei molto rilassati, per i quali la questione della mattinata persa e recuperabile in un giorno non previsto non aveva costituito assolutamente un problema. Mica eravamo a Milano. Le lezioni erano destinate al figlio del proprietario, a una ragazza decisamente avvenente che svolgeva le mansioni di grafica – ma totalmente fuori target per un eventuale flirt insegnante/allieva – e da un ragazzo dai capelli lunghi chiari, la pelle rossastra e una moltitudine di difficoltà di pronuncia che, unite alla tradizionale parlata fiorentina già privata di alcune fondamentali consonanti, rendeva la comunicazione con il prossimo estremamente problematica. Lui ed io ci eravamo però scambiati pareri sui comuni gusti musicali in occasione della sessione di corso precedente. Avevamo inoltre scoperto una conoscenza in comune, una sua vecchia compagna di università che lavorava con me.

Sulla base di quel superficiale grado di intimità, a metà pomeriggio di quel primo giorno di lezioni mi propose di accompagnarlo la sera stessa al concerto degli Smoke City, un gruppo trip-hop britannico il cui singolo – Underwater Love – passava continuamente alla radio e soprattutto in tv. Avevano una cantante molto graziosa, di origini brasiliane, e fu quell’aspetto, più che la componente strettamente musicale, a convincermi ad accettare l’invito. Mi spiace non ricordare come si chiamasse, quel ragazzo. Mi venne a prendere con una moto scomodissima in albergo, mi prestò un casco e, qualche minuto dopo, mi offrì la possibilità di bearmi di quel fuori programma nella capitale toscana. Faceva freddo, era metà gennaio, ma una serata così dopo le ultime amarezze personali e lavorative era proprio quello che ci voleva. Non ricordo molto del concerto, solo che non fu niente male. Mi sarei fermato anche dopo l’esibizione, ma il biglietto non comprendeva il resto della serata nel locale. Il dj era già partito con “Quelli che benpensano” di Frankie Hi-Nrg, sfumato l’ultimo bis della band sul palco, e gli avventori che erano lì per ballare presero il posto in pista della gente che aveva assistito al concerto. Almeno, questo è ciò che il mio accompagnatore mi spiegò per convincermi a uscire mentre avevo già iniziato a muovermi a tempo con la testa, un segnale esplicito che si dà al prossimo per comunicare quando si apprezza un groove. Ero comunque stanco, era dalle cinque del mattino che ero in piedi, avevo affrontato una dura prova di sopravvivenza, avevo fatto quattro ore di lezione e, tutto sommato, mi sarei messo volentieri a letto. Il mio accompagnatore, prima di riportarmi in albergo, mi propose però di mostrarmi casa sua, un appartamento medievale sulla riva dell’Arno. Non so spiegare perché ma non vidi minimamente un secondo fine in quel gesto, e infatti ad aspettarci, a casa sua, c’era la sua anziana mamma con cui abitava. Bevemmo tutti insieme qualcosa di caldo, forse un the, e poi finalmente mi riaccompagnò con la moto all’albergo.

Il secondo giorno di corso negli uffici della casa editrice filò liscio, al netto della visita del proprietario – come ho scritto prima, era il padre di uno dei destinatari delle lezioni – che non rammentava di aver ingaggiato la mia agenzia (eravamo loro fornitori per varie lavorazioni) per quell’attività di formazione. C’era una questione da risolvere con urgenza e così mi venne chiesto di interrompere giusto il tempo per chiudere la cosa. La sera, però, rientrato in albergo, mi salì una forte febbre. Ero sempre in salute, ma una volta all’anno mi toccava fare i conti con l’influenza o un raffreddore o qualcosa che mi costringeva qualche giorno a letto e che ero abituato a curare con l’aspirina. In piena notte mi diressi alla reception ma il custode non aveva nulla, o forse non voleva prendersi la responsabilità di darmi una medicina. Mi indico però una farmacia notturna a poco più di un km da lì, nei pressi dello stadio. Riuscì a raggiungerla a piedi, malgrado non conoscessi affatto la zona e non prima di trovarmi in mezzo a un preoccupante litigio tra una coppia di innamorati. La donna era scesa in lacrime dalla macchina e l’uomo si era precipitato a rincorrerla. Probabilmente erano ubriachi entrambi, e comunque lui mi aveva lanciato uno sguardo minaccioso per indurmi a non impicciarmi in quella storia. Meglio così. Dal punto di vista delle relazioni interpersonali mi sentivo di aver già dato abbastanza e, in più, non vedevo l’ora di buttare giù due aspirine e tornare sotto le coperte. Rientrai in albergo e il custode, nel frattempo, aveva indossato un pigiama a righe, un modello di quelli che si vedevano nelle pubblicità dei materassi negli anni settanta, e un paio di pantofole in pelle marrone. La mattina dopo la febbre non era scomparsa affatto ma non non recarmi al lavoro era del tutto fuori discussione. Resistetti l’intera giornata senza rivelare le mie condizioni di salute. Era chiaro che avevo preso freddo in moto la sera prima con il tizio. Mentre guidava, poi, continuava a voler fare conversazione, ma tra il casco e il suo modo di parlare non capivo nulla. Mi spiaceva farlo sentire in colpa per essermi raffreddato.

L’aspirina, però, nel giro di quarantott’ore si era confermata fenomenale. Si trattava di un vero e proprio rimedio di famiglia. A casa mia ci si curava così e, anche in quell’occasione, la febbre come era sopraggiunta svanì la mattina in cui, terminata l’ultima lezione, presi il treno del ritorno. Per compensare l’errore e il tragitto extra da Roma a Firenze dell’andata, acquistai il biglietto meno caro per un’interminabile serie di convogli regionali fino a Genova, tanto quella giornata – era giovedì – sarebbe andata comunque persa. Rientrai in ufficio venerdì mattina. Il clima sembrava sereno. Ero già allora una persona piuttosto divertente e autoironica. Scherzai con i miei capi sull’accaduto, non avevo problemi a darmi dello stupido sapendo di non esserlo affatto, e la cosa finì lì. Decisi però di giocarmi immediatamente la carta della soluzione del caso del cd scomparso. Rivelai i miei sospetti ai soci proprietari i quali mi sembrarono convinti della veridicità della mia ipotesi. Il problema era che, comunque, la vicenda non avrebbe avuto alcun seguito se non una messa in discussione del rapporto professionale con Antonio, il presunto autore del furto. Anche in quel caso, però, capì solo dopo il rischio che avevo corso condividendo le mie impressioni. Qualcuno di loro, a mia insaputa, avrebbe potuto essere in rapporti stretti con Antonio e fargli sapere le mie accuse. In quel caso mi sarei messo davvero nei guai ma, almeno fino a oggi, non ne ho più saputo nulla.

Rimaneva solo una faccenda da sistemare. Da quando eravamo tornati insieme in treno da Roma senza rivolgerci la parola, se non per insultarci, non avevo più sentito Claudia. Sapevo che in quei giorni c’era in ballo una sortita a cui avrei dovuto prender parte anch’io, se non fossimo stati in rotta, e alla quale avrebbe partecipato anche un certo Filippo, un bellimbusto che non avevo mai visto ma che sapevo essere una specie di suo ex, uno con cui ogni tanto c’era stato qualche strascico dopo la loro storiella – precedente alla nostra – e che Claudia ogni tanto evocava nelle nostre conversazioni, con l’unico scopo di mettere alla prova il mio autocontrollo in fatto di gelosia. Avevo però superato ormai il picco dell’esasperazione, come se l’esperienza in treno si fosse portata via tutti i miei guai, e mi sentivo pronto ad affrontare il futuro con maggiore sicurezza di me. Mi ero guardato bene dal chiamarla, lei non si era fatta viva, e mi preparavo a trascorrere quel primo weekend da single facendo la spesa del sabato mattina. Avevo già riposto le chiavi di casa e della macchina in borsa per uscire – usavo uno zaino militare per non prendere il carrello del supermercato, non chiedetemi il perché – quando Claudia mi chiamò sul fisso con un tono sorprendentemente accomodante. Anzi, mi riprese, addirittura, durante la conversazione, perché le sembravo sproporzionatamente imbronciato.

L’errore più grave fu quello di accordarci per un’opportunità di riconciliazione. Se la cosa fosse finita lì, al telefono, mi sarei risparmiato tutto quello che avvenne nei mesi successivi. Ci demmo appuntamento per l’ora dell’aperitivo, davanti a Palazzo Ducale. Mentre l’aspettavo incontrai Raffaele, uno spiantato che cantava in un gruppo in cui avevo militato fino a qualche mese prima, prima che il lavoro mi convincesse che – a parte qualche serata pagata profumatamente, come quella di capodanno – gli orari della musica con quelli di ufficio non erano affatto compatibili. Non so di cosa chiacchierassimo, probabilmente di musica, quando dal nulla apparve Claudia, con un cappotto un po’ retro e una pianta da interni in mano. Congedai Raffaele, forse baciai Claudia prendendole dalle mani il vaso di cui mi stava facendo omaggio, sdrammatizzando il momento con una battuta sul tempo che avrei impiegato a farla appassire. Ci scambiammo delle scuse di circostanza e insieme ci addentrammo nei vicoli, proprio come in uno di quei film in cui i protagonisti, nella scena conclusiva, sono ripresi mentre si allontanano di spalle e non è prevista una vera e propria fine della storia.

ecco cosa mi ha detto Franco Battiato al telefono

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Se avete seguito il commovente tributo realizzato da Pif in occasione del concerto dedicato a Franco Battiato dello scorso settembre all’Arena di Verona, trasmesso su RaiTre ieri sera, sarete rimasti sorpresi da come amici, colleghi e collaboratori del maestro lo abbiano descritto. Non mi sarei mai aspettato che Battiato fosse un giovialone e un amante delle barzellette, per dire. Le sue liriche mi hanno sempre trasmesso austerità, speculazioni filosofiche, a tratti persino supponenza tendente a prendersi gioco dell’ascoltatore medio attraverso i celebri nonsense sui quali la critica, da sempre, si dibatte a spremere significati. Mai avrei pensato che potesse andare d’accordo con gente del calibro di Jovanotti o Morgan o Celentano, per dire. E lo so, sono ignorante e solo ieri ho scoperto che hanno a lungo collaborato insieme ma, come sapete, io con gli ascolti ero fermo a “L’arca di Noè” e poi avevo ripreso, decenni dopo, con i vari “Fleurs” che, comunque, già mi avevano stupito per il fatto che uno come Battiato si mettesse a reinterpretare composizioni altrui.

A parte questo, il programma di Pif mi è piaciuto tantissimo, e se ve lo siete persi potete recuperare su RaiPlay. Anche il disco pubblicato a seguito del concerto non è niente male. Si intitola “Invito al viaggio”, è uscito da qualche settimana e, se non volete comprarlo, è disponibile su Spotify. Nell’album ci sono diverse tracce che non sono state trasmesse durante il programma in tv e che, invece, a parer mio, avrebbero meritato più di altre. Forse è stata data la preferenza all’intensità del rapporto tra chi le ha reinterpretate e Battiato, o forse c’erano dei problemi di diritti. Vai a saperlo. Per esempio “Strani giorni” cantata da Cristina Scabbia e Davide Ferrario, o “Aria di rivoluzione” rifatta da Maroccolo, Aiazzi, Chimenti e Brotto, “Io chi sono” di Alice (peraltro, trattandosi dell’artista forse più vicina a lui, due pezzi suoi ci stavano alla grande), “Oceano di silenzio” cantata di Finardi, e soprattutto “Summer on a solitary beach” di Luca Madonia. Se era un problema di tempo avrei omesso l’inutile Jovanotti, Morgan con tutti i suoi ego o gli stonati Colapesce e Di Martino.

Non solo. Mai avrei pensato che Battiato fosse uno che chiama al telefono una come Emma Marrone, un concorrente di una trasmissione del livello di “Amici”. Ma, in generale, non credevo che Battiato fosse uno che ti chiama al telefono tout court. Eppure in molti, anzi quasi tutti, hanno dichiarato di aver ricevuto chiamate da Battiato la mattina presto o a qualsiasi ora del giorno e della notte, ricevendo inviti a raggiungerlo a pranzo, a cena, in spiaggia, nella sua casa al mare. Mi è venuta persino in mente quella volta in cui bevevo una birra con il mio amico che suona la batteria con Roberto Vecchioni e ha avuto l’idea di telefonare a un nostro comune vecchio amico, fan di Vecchioni, dicendogli che gli avrebbe passato al telefono Roberto, cioè io che mi chiamo Roberto, perché erano diversi anni che non ci sentivamo. Ma il nostro comune amico non pensava che fossi io al telefono ma, appunto, Roberto Vecchioni. Così quando ha capito che invece ero io ci è rimasto male e ci sono rimasto male anch’io, perché comunque erano anni che non ci sentivamo e il fatto che sia rimasto deluso perché ero io e non Roberto Vecchioni vabbè, insomma, ci siamo capiti.

Durante il programma in tv mi sono invece chiesto che effetto possa fare ricevere una telefonata da Battiato. Adesso mi cagherei addosso, come tutti voi, perché sembrerebbe una puntata di “Ai confini della realtà”. Anzi, sapete che vi dico? Quando era in vita doveva essere un’esperienza forse ancora più metafisica di ora che Battiato non c’è più.

tamponi del mondo, tamponi del mondo, tamponi del mondo

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Il mio dottore, il medico di famiglia, per intenderci, ha un sistema di contact center vergognoso per gente che vive nel 2022 sul pianeta Terra. I suoi pazienti possono chiamarlo per prendere un appuntamento in studio o anche solo per un consulto dalle 8:30 alle 11:30 di ogni mattina. Il mio dottore, però, non è provvisto di un banalissimo centralino di gestione delle chiamate in entrata, un sistema cioè che crei una coda delle telefonate e che, quindi, consenta di evadere tutte le richieste del giorno in modo efficace. Uno chiama, una vocina gli dice che le linee sono occupate e di attendere per non perdere la priorità, e magari viene anche avvisato che ha 30 utenti prima di lui così, nel caso non ci sia urgenza, può riattaccare e chiamare un’altra volta. Il tutto con una bella musica di sottofondo, io so già quale sceglierei. Purtroppo, nel mio caso, non funziona così. E non si tratta di fantascienza, come è facile immaginare. Ci sono soluzioni per ogni tasca e di ogni tipo, persino in cloud. Il risultato è che dalle 8:30 alle 11:30 chi ha bisogno del mio dottore deve tentare di prendere la linea digitando il numero in continuazione, riappendere se occupato (nel 99,99% dei casi) quindi ri-formulare il numero e così via. D’altronde, perché sorprendersi: in una civiltà che preferisce la scaramanzia alla scienza è giusto sostituire la tecnologia con il caso. Ma il paradosso è che quando il caso è benigno con te – c’è qualche aruspice in sala a cui invocare una predizione sull’esito del tentativo di mettersi in contatto con lui? – e riesci a chiedergli la prenotazione per un tampone anti Covid ti senti dire che no, non si può, i sistemi sono in tilt e il destino ha previsto per te ore di coda al freddo, fuori dall’ambulatorio dell’ospedale. Stessa sorte per chi, in preda all’ansia, si affida agli analoghi servizi messi a disposizione dalle farmacie. In questi giorni di panico da variante omicron molti di noi si sono trovati in fila per ore, in attesa di un test di verifica della positività o negatività. Tutto questo in un sistema in cui, a dimostrazione che non siamo così arretrati, le varie ondate di vaccinazioni sono state gestite egregiamente. In tutti e tre i casi non ho atteso più mezz’ora a volta. Avevo, però, un appuntamento con tanto di orario. Quindi, come vedete, le cose le sappiamo fare per bene. Esisteno buone pratiche. Ma perché, nella sanità, non sempre sono seguite?

Augias che dice robe

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Premesso che Corrado Augias, per me, dovrebbe essere il prossimo Presidente della Repubblica, il direttore ad libitum della RAI, il motore immobile, l’ospite fisso al pranzo della domenica a casa mia, lo spirito guida di tutti noi, mio padre e forse anche qualcosa in più, mi capita di rimanere parzialmente insoddisfatto al cospetto della sua visione di città segrete e, di conseguenza, della mia visione dell’omonimo programma in tv, su RaiTre. Mi era già successo seguendo l’episodio dedicato a Roma, capitale che conosco solo da turista ossessivo compulsivo, ma per il quale – non essendo iscritto all’anagrafe e non essendo nemmeno cittadino onorario – avevo esitato sulla soglia di un giudizio meramente tecnico da addetto ai lavori, focalizzandomi sull’accostamento, a dir poco inappropriato, di musiche a riprese.

Nutrivo aspettative elevatissime sull’episodio di Genova, alimentate peraltro da un trailer montato da manuale con riprese pazzesche realizzate con il drone che è passato centinaia di volte nel corso delle serate, trascorse sul divano, di queste vacanze di Natale all’insegna dell’isolamento fiduciario. Genova è, di per sé, una città segretissima, tutta da scoprire, la cui bellezza e le cui attrattive turistiche sono meta di coraggiosi e anomali viaggiatori da appena un paio di decenni. Per questo sono convinto che di Genova, a differenza di Roma o Firenze o Venezia che sono su tutti i libri di storia, di arte, di letteratura e di musica, non si sia ancora nemmeno iniziato a parlare ancora prima di dire che c’è ancora molto da dire, non so se con tutte queste ripetizioni mi sono spiegato.

Mentre seguivo l’episodio sulla mia prima città adottiva, nella speranza che ciò che seguisse a quello che stava passando in tv riscattasse la mia perplessità sulle immagini di cui ero spettatore, mi sono segnato un po’ di cose che, in un programma pensato per fornire un identikit di Genova fuori dal mainstream, avrei omesso, e che ora mi permetto di riportare qui di seguito in ordine più o meno di apparizione:

De André. Tutto si può dire tranne che l’argomento De André sia un segreto. Faber è stato il più importante cantautore italiano e uno dei genovesi più illustri di tutti i tempi e probabilmente lo sarà per tutti i secoli dei secoli, ma, dalla sua scomparsa, è stato ampiamente trattato in diverse occasioni molto più appropriate, per non parlare del racconto della sua vita addirittura in una fiction in romanesco. Si tratta di un fondamentale se si vuole parlare di Genova, d’accordo, ma proviamo a dare per scontato la sua popolarità. Se poi vogliamo raccontare Genova attraverso i suoi musicisti, non avete che da chiedere.

Il naufragio della Costa Concordia. Ok, i Costa sono armatori genovesi e la nave è stata poi smantellata a Prà, ma tutto il resto che c’entra con la città? Il pippotto su Schellino si è mangiato una bella fetta di programma. Genova è una città di navigatori e non vedo nulla di più distante dalla Liguria di una goffa e sciagurata manovra nautica.

Mary Shelley e George Byron. OK, ci può stare, anche se boh, alla fine Genova è meno che un di cui. Molto apprezzato, però, lo spottone su Albaro, che malgrado la sua esclusività risulta sempre ai margini degli interessi dei visitatori della città.

Villa Durazzo Pallavicini con il sottofondo musicale di “Hey Bulldog” dei Beatles. Scelta piuttosto azzardata ma sono ignorante e non ne ho colto il nesso. Qualcuno riesce a spiegarmelo? Grazie in anticipo.

Moana Pozzi. La genovesità della pornostar più amata dagli italiani nell’economia della sua vita è, a dir poco, marginale. Ho apprezzato comunque il taglio privo di luoghi comuni che è stato dato nel montaggio degli stralci di interviste, in cui per ben due volte si è sentito proferire, dalla voce stessa dell’attrice, il fattore della follia – e la conseguente consapevolezza – che contraddistingue un mestiere come il suo. Genova è intrisa di sesso, ma è sufficiente addentrarsi in certi vicoli nemmeno troppo segreti a qualsiasi ora del giorno e della notte.

Paolo Villaggio. Come ho scritto sopra per De André, si tratta di un tema sviscerato in ogni sua componente da quando il ragioniere ci ha lasciato. A Genova c’è molta comicità contemporanea il che risulta sorprendente per una città di musoni che ha un dialetto che sembra “pensato apposta per dare cattive notizie” (cit.) ed è curioso, aggiungo io, che, a differenza di altri ambiti, non si parli di una scuola genovese. Agli autori del programma chiedo invece che cosa ci azzecca “Che cos’è l’amor” di Capossela sulle immagini di repertorio di Fantozzi.

La liberazione e i partigiani, Guido Rossa, Mameli e Mazzini, il G8, le manifestazioni ai tempi di Tambroni. Verso la fine, prima di Paganini, la trasmissione prende una svolta decisamente più interessante e mette in luce l’anima politica di una città che ha saputo combattere, ribellarsi e manifestare dissenso. Nulla da dire, assolutamente. Anzi, mettere insieme temi scottanti ad altri più da entertainment è sicuramente una tecnica efficace, ma abbinare le immagini del G8 ad “Azzurro” di Celentano mi ha lasciato a bocca aperta.

Tante cose, qualcosa di appropriato, qualcosa di superfluo, e qualcosa che è mancato. Tutto sommato una trasmissione piacevole ma, ripeto, avrei scelto temi differenti. Come ha detto mia figlia, dall’alto della sua capacità di sintesi adolescenziale, il programma si sarebbe dovuto intitolare “Augias che dice robe”.

domani compriamo la macchina nuova

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Avrete sicuramente sentito dire che uno dei pochi motivi per cui è bello trascorrere tempo guardando la tv è per via della tv della Feltrinelli. Il problema è che laEffe si vede solo su SkyTv. Non rientra cioè nella gamma delle emittenti presenti sul digitale terrestre. Ed è per questo che la moglie di Nino, mentre rientravamo in auto dal pranzo di Santo Stefano, ha imbracciato il suo smartphone dichiarando «Ora compriamo Sky!». Io ho capito subito che intendeva un abbonamento, mica tutta la rete. La moglie di Nino ha avvicinato il telefono alle labbra come fa sempre quando vuole interpellare l’oracolo di Google e ha scandito in perfetto linguaggio macchina «Quale – Offerta – Sky – Attivare – Per – Vedere – La – Effe». Ma lo sapete come vanno le cose: i motori di ricerca trovano tutto quello che non serve e alla fine ha composto un numero verde per parlare con qualcuno. Da quel poco che abbiamo capito – abbiamo attraversato svariate gallerie in autostrada e la conversazione in viva voce con l’operatrice del contact center non è stata certo delle migliori – sembra che il canale 135 si prenda solo tramite parabola. Insomma, per farla breve, trascorsi nemmeno trenta minuti la curva di dedizione all’acquisto di un abbonamento Sky era rientrata ai valori da cui era improvvisamente schizzata in alto.

È successo così anche per la friggitrice ad aria, per la nuova cintura da regalare al figlio adolescente, per l’impianto di aria condizionata per la casa, per il camper, per la radiosveglia, per l’albero di Natale nuovo, per la sostituzione della vasca da bagno con la doccia. Ma il mancato acquisto più ricorrente è quello dell’auto nuova. La differenza intanto è che la curva di dedizione per l’acquisto dell’auto nuova dura molto più di mezz’ora. La curva di dedizione per l’acquisto dell’auto nuova dura tocca il punto più elevato al ritorno dai viaggi più lunghi, quando risulta palese che la vecchia berlina di famiglia non è in grado di assicurare gli standard di comfort e di sicurezza garantiti dalla tecnologia automotive più recente. Adriana e Nino così rientrano a casa e passano in rassegna i più noti portali dedicati alla compravendita di veicoli. In alcuni casi prendono persino appuntamento con un paio di concessionarie ma poi, compreso il reale impegno economico dilazionato nel tempo che comporta una macchina nuova o usata acquistata a rate, si accommiatano dal venditore con la promessa di pensarci su. Li sentirete dire spesso «domani compriamo la macchina nuova». L’hanno detto anche ieri sera. «Domani compriamo la macchina nuova», ha detto Adriana, la moglie di Nino, ma state certi che non è vero nemmeno questa volta.

credenziali

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La cosa più vicina all’anima probabilmente è un account su una piattaforma Cloud al quale è possibile accedere da qualunque dispositivo e ovunque inserendo username e password. Una volta rottamata la postazione da cui abbiamo creato l’account e alla quale sono riconducibili tutti gli accessi, l’anima resta immortale ed eterna nel Cloud a conservare tutte le nostre cose sino a quando qualcosa o qualcuno non le controllerà. No, niente SPID. Al massimo un’autenticazione a due fattori, quindi ricordate di tenere sempre il telefono carico.

appassionati

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Il mercato offre beni per dare valore alle nostre passioni, cose fisiche e materiali senza le quali le nostre passioni rimarrebbero confinate nel loro slancio intellettuale. La musica, per fare un esempio, in sé non ha alcun valore economico fino a quando non compro i componenti costosissimi per assemblare un impianto hi fi che mi permetta di ascoltarla al meglio, oppure dischi rari a costi esorbitanti. Ho fatto l’esempio della musica perché è la mia passione da quando sono nato. Trascorrerei tutto il tempo ad ascoltare musica e, fino a qualche anno fa, componevo e suonavo pure. Io potrei benissimo stare così, godermi la mia passione alimentata da pochissimi rudimentali mezzi molto spesso gratuiti o a costi bassissimi. La radio o la tv accesa, o se volessi ancora meno. Potrei infatti canticchiare le mie canzoni preferite, ripassarle a memoria con la mente. Non è difficile. L’economia però intercetta questa relazione intima con la propria passione. Ci sono edizioni rimasterizzate deluxe dei miei dischi preferiti a decine di euro, per non parlare dei cofanetti come l’ultimo uscito di David Bowie che sfiora i 400. Poi, se proprio uno vuole circondarsi del meglio per compiacere la propria passione, in commercio si trovano giradischi e amplificatori per procurarsi i quali uno dovrebbe vendersi un rene. Ma che esista un sistema intero che lucra sulle passioni non è certo una prerogativa della musica. Vi piace leggere? Prenotate i libri in biblioteca. Non potete attendere il vostro turno? Ecco che la passione induce al possesso del bene che ne consente l’esercizio, la messa in pratica, altrimenti che passione sarebbe? E, superando i confini della cultura, lo stesso discorso può essere applicato allo sport. Adoro correre, e se volessi potrei dotarmi di equipaggiamento di marca pagandolo un occhio della testa. Scarpe da due o trecento euro e abbigliamento tecnico a prezzi da capogiro. Se si diffonde la voce che ci piace qualcosa c’è qualcuno che interpreta la passione come una domanda a cui creare un’offerta e diversificare la produzione per fingere una risposta a un’esigenza che, in realtà, probabilmente non esisterebbe nemmeno.