smascherati

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Mi sono bastate un paio di settimane in FFP2 per procurarmi un vistoso arrossamento nella parte posteriore dell’orecchio, in corrispondenza del solco che fa da giunzione con la nuca in cui alloggiano gli elastici della mascherina. Oltre a dettagli come questi, i saldi di fine stagione pandemica si colgono nello scarso entusiasmo per un nuovo corso che chissà se comincerà davvero, a considerare le volte in cui le speranze di ritorno alla normalità sono state disattese. I ragazzi continuano a studiare sotto il piumone, una tecnica che hanno imparato negli ultimi due anni e che metteranno a frutto nel secondo scritto dell’esame di maturità a cui nessuno sembra voler rinunciare. A scuola da me si ventila addirittura che un incontro di formazione previsto per metà aprile potrà svolgersi in aula magna. Un’eventualità che spaventa non poco. Tra qualche giorno la mascherina non sarà più obbligatoria negli spazi comuni all’esterno, una disposizione che a ridosso del carnevale fa sorridere ma, senza le labbra coperte, a differenza di prima gli altri potranno accorgersene. Dovremo anche disabituarci a cantare per strada, a parlare da soli, a fare le smorfie, a leggere con gli occhiali appannati. Ci siamo adattati senza nemmeno accorgercene. Tutto sommato siamo esseri viventi in gamba.

cosa cambia

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Devo rallentare il ritmo di battute sulla tastiera quando scrivo, gli errori sono sempre più frequenti. Non riesco a fare una cosa mentre ne penso un’altra, può essere pericoloso. Impiego più tempo per coprire 10km di corsa, le caviglie si fanno sentire. Elargisco raccomandazioni superflue, questa è una deformazione professionale. La mia gatta vuole mangiare sempre più spesso, meglio tenerla sotto controllo. Mia figlia da oggi è maggiorenne, ci dev’essere un errore.

un altro Sanremo senza new wave

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L’edizione del Festival di quest’anno va annoverata tra quelle in cui è stato facile individuare la canzone vincitrice al primissimo ascolto. Era già successo la volta in cui al primo posto si è classificato “L’essenziale” di Marco Mengoni e quella di “Occidentali’s Karma” di Gabbani, i primi due che mi vengono in mente. Brani la cui capacità di rimanerti attaccati immediatamente è superiore, proposti in una scaletta di motivi magari anche belli, ma non all’altezza. Era chiaro fin dall’inizio che “Brividi” si sarebbe confermata sul gradino più alto del podio. Solo Elisa avrebbe potuto tenergli il fiato sul collo, mentre la canzone di Morandi, oggettivamente, si è piazzata lì dove si è piazzata grazie all’endorsement di Jovanotti durante la penultima serata, quella delle cover. A proposito, la scelta generale dei brani da reinterpretare ha definitivamente fatto virare il Festival di Sanremo verso il format dei talent, quello di X Factor su tutti. Che ci azzeccano “Baby One More Time” o “Be My Baby”, pur eseguite in modo ineccepibile la prima e con un arrangiamento molto interessante la seconda, con le nostre canzonette? Pur essendo una trovata interessante, quella di cantare brani famosi, spesso molto più del resto della manifestazione, corre il rischio di banalizzare la gara. Mi pare che, anni fa, la scelta fosse circoscritta al repertorio di brani presentati nel corso delle edizioni precedenti di Sanremo. Tornerei a questa formula, la trovo più in linea e in grado di differenziare il Festival dal resto dei programmi canori che accompagnano il palinsesto sociale della modernità. Ecco quindi qualche appunto sui pezzi che si sono succeduti nel corso della serata conclusiva.

Matteo Romano: a vederlo così striminzito sul palco a cantare, prima, e a parlare, poi trasmette un’umiltà rara. Ha anche una faccia simpatica e sarebbe bello sapere chi sia. La sua canzone è carina e si merita un 7 anche se, di tutta la kermesse, forse è la meno virale, a dispetto del titolo.

Giusy Ferreri: una scelta strana, la sua, quella di presentare un brano di quelli che non decollano mai. Come altre interpreti della nostra canzonetta pop, ha una voce pazzesca ma la affibbiano sempre canzoni facilmente dimenticabili, al netto del reggaeton estivo. Una di quelle canzoni che aspetti tutto il tempo che si apra e invece resta imbrigliata in un’andatura da chitarra sulla spiaggia, un po’ come “La descrizione di un attimo” dei Tiromancino, per capirci, ma molto meno bella, con l’aggravante di un vestito che le sta malissimo. E poi mi spiegate il senso di quel cazzo di megafono? Voto 6.

Rkomi: boh, l’unica cosa che ho capito è che il suo vero nome è Mirko, basta fare quel gioco che si fa da bambini con ionico ripetuto senza soluzione di continuità. Mi era piaciuto la prima sera. In quella finale si è un po’ perso per poi ritrovarsi al termine dell’esibizione, con i ringraziamenti e i saluti. Mi dicono comunque che sia un discreto manzo. Voto 7

Iva Zanicchi: se ho fatto bene i calcoli ha 82 anni e se non si fosse candidata per Berlusconi ne potrei anche scrivere bene. Il pezzo è molto meglio di altri, un classicone che cantato da qualcuno uscito da Amici, magari con un arrangiamento moderno, prenderebbe di più di un 6.

Aka7even: questo, come quello del suo amico Sangiovanni, sarà uno di quei pezzi che spaccherà tra gli under 10 e che i miei alunni mi chiederanno durante l’ora di musica. Per compensare gli do un 6 stiracchiato. E poi è troppo alto per la sua voce. E lui assomiglia a Nicholas, il mio ex parrucchiere. Sarà un segno.

Massimo Ranieri: da anziano sembra Vecchioni da anziano. Un brano che non resta in testa nemmeno con il vinavil. Le città non bruciano più. Voto 6 ma per la carriera.

Noemi: la sua voce si è assottigliata come la sua figura e lei, conciata così, sul palco sembra la tipa di Roger Rabbit. Il pezzo ha buon ritmo. Si merita un 7, si sente che c’è di mezzo Re Mida Mahmood.

Fabrizio Moro: È grillista e si merita 2 anche per il plagio dell’Inno alla gioia di Beethoven che emerge da sotto. Bella la citazione di “Bella” di Jovanotti con la chitarra steel.

Dargen D’Amico o come si chiama: due anni di Covid e ci piace anche questa. Voto 8 ma dimmi che cosa c’entra il governo.

Elisa: nulla da dire sulla canzone. Candidata al podio malgrado il vestito, nell’insieme un paio di tacche sotto i due vincitori. Voto 9.

Irama si presenta vestito da Ponte Milvio con tutti i lucchetti sulla giacca. Raramente si sente un pezzo così brutto, nemmeno nel periodo buio del Festival degli anni settanta con Jo Chiarello e il suo brutto affare. Voto 2

Michele Bravi è invece una specie di Scialpi ma senza “No East No West, we are the best” e con un rampicante sulle dita. Stavo per stroncarlo poi mia moglie mi ha detto che ha una brutta storia personale. Canzone nella media, anzi un po’ di più. Voto 7.5.

Rappresentante di Lista: sembrano usciti da Candy Crush ma il pezzo spacca, un vero brano da 10, il vero tormentone dell’edizione venti ventidue e gli unici con il reprise fuori programma. Non capita tutti i giorni.

Emma: la Ferilli le augura buon lavoro perché la sua resterà, nella storia, la canzone del triangolino che ci esalta e della Michielin che dirige. Io però più di 6 non riesco a darle, lei mi sembra la versione femminile di Claudio Villa.

Mahmood e Blanco. Vincono loro. Il fantasanremo o come cazzo si chiama gli è sfuggito un po’ di mano con le bici sul palco. Il fatto è che in due concentrano l’80% della bellezza sanremese e forse il 99% dell’intuito pop della musica italiana. Sul pezzo nulla da dire, lasciamo parlare i miliardi di streaming che seguiranno. Il voto è un 10 meritato. Bella la doppia citazione nell’arrangiamento, all’inizio e durante il brano, di “Breathe” dei Pink Floyd.

Highsnob e Hu: le facce impiastrate con le scritte (a questo punto sarebbe più redditizio tatuarsi uno sponsor e farsi pagare vita natural durante) hanno rotto il cazzo ma loro sono molto più docili di quello che vogliono mostrare. Comunque nessuno mai aveva messo in un testo “ho perso la testa come Oloferne” e a farlo rimare con verme. Malgrado questo si meritano un 6, lei canta come Madame al netto delle sedute dalla logopedista.

Sangiovanni: il solito giro del pop-trap-rap di Malibu e non riesco a dargli più di 4, tanto ci penserete voi a premiarlo. Quando dice “sei una boccata d’aria” lo pronuncia così biascicato che si capisce “sei una mucca d’addaria” che, oggettivamente, non ha senso. Il tema di synth alla “Leave in silence” dei Depeche Mode è però orecchiabile. Salvo solo questo.

Gianni Morandi: se non ci fosse Jovanotti di mezzo non sarei così prevenuto. Lui per fortuna è un tipo alla mano, finché non se le compromette. La sua canzone subito sembra “Stasera mi butto”, anzi no, mi ricorda “Shake A Tail Feather” di Ray Charles con un inserto scopiazzato dagli archi di “Eloise” di Barry Ryan, a cui si aggiunge un crescendo che ammicca a “Il triangolo” di Renato Zero. Mai visti così tanti tributi concentrati in una manciata di minuti. Voto 6.

Ditonellapiaga e Rettore: l’ennesimo caso di artiste penalizzate nel naming. Una modesta rivisitazione di “Physical” di Olivia Newton-John nel ritornello. 6 politico per via di Donatella che, ancora, non vuol farsi chiamare così.

Orietta Berti: non è in gara ma forse avrebbe dovuta cantare “Finché la barca va”, a bordo della Costa Crociere.

Yuman: chiede un pugnetto alla Ferilli e canta la canzone peggiore se non ci fossero altre canzoni peggiori. Non so che voto dargli. Anche questa, nell’inizio, cita “The Great Gig In The Sky”.

Achille Lauro: ecco un nuovo cantore della domenica, una tradizione che va da Valentino, come Lauro in quota Vasco Rossi, ai Subsonica passando per Venditti. Per la terza volta porta lo stesso pezzo, gli do comunque 6 perché mi è simpatico. Caro Achille, il prossimo anno mantieni il look ma cambia format per piacere. Dai che ne mancano solo quattro e poi posso andare a dormire.

Ana Mena: c’è un po’ di Nina Zilli, almeno nel titolo, e un po’ di “Amandoti” dei Cccp e io ci sento anche un po’ di Ghali quando canta di voler bene all’Italia. Il target è il terzo mondo culturale dell’Eurofestival, con un ritmo tutto in levare d’altri tempi. Il voto è un 4 ed è un peccato perché la ragazza, esteticamente, ha un suo perché.

Tananai: è un incrocio tra Rkomi, Irama e Fabrizio Moro che canta come Achille Lauro ma stonato e con la giacca da camera. Il ritornello ricorda “Suburbia” dei Pet Shop Boys e gli archi nella strofa “Speedy Gonzales”. Ma io ho sonno e gli do 5.

Giovanni Truppi. L’unico intellettuale di quest’anno anche se si presenta in canottiera. Il titolo gonfia le aspettative, il brano è superlativo ma è pretenzioso e fuori contesto. La pelata è indubbiamente espressiva e le facce mentre suona e canta sono le stesse di Saturnino. Probabilmente esibirsi senza capelli porta a quel tipo di mimica. Il voto è un 9 anche solo perché non ricorda nessun’altra canzone.

Le Vibrazioni: volevano essere i Maneskine ma restano sempre immensamente loro, con quel pennellone che suona il basso, il batterista che sembra un cartone animato e il cantante che come se la tira lui nessuno mai. Il pezzo, però, è imbarazzante: 2, e ha solo il valore di essere l’ultimo. Anche quest’anno è finita.

stem

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L’ora di scienze è un vero incubo. Trovo insegnare scienze superfluo e inutile e, paradossalmente, non solo è la cosa più importante che c’è al mondo e grazie alla quale, per dire, studiandola si possono fare cosucce come debellare una pandemia, ma è anche quella tra tutte che interessa di più i bambini. Molto di più della matematica e delle sue astrazioni che poi, voglio dire, che ce ne facciamo nella vita delle proprietà delle quattro operazioni? Molto più di inglese e di questo sistema per cui si scrive in un modo e si legge in un altro, senza contare che i bambini non sono nemmeno più interessati alla lingua delle canzonette, al massimo a scovare le parolacce nei testi. Più di arte che, a dirla tutta, non è facile trovare qualcosa che le mamme più organizzate, con gli svariati siti dedicati all’educazione parentale, non abbiano ancora proposto ai loro figli per trascorrere un pomeriggio in santa pace. Più di musica e del gap che passa tra quello che si fa ascoltare a scuola e quello che ascoltano i ragazzi d’oggi. A ogni lezione di scienze, non importa l’argomento, i bambini mi assillano di domande su esseri viventi e non viventi, materia e antimateria, terra e sistema solare, chimica fisica astronomia biologia zoologia e tutti quanto fa stem. Anche il ciclo dell’acqua genera una serie di questioni e aneddoti famigliari che non vi sto a raccontare: chicchi di grandine grossi come patate, stagni con i più disparati animali, pentole che bruciano e zii che vivono al Polo Sud. Cerco di glissare sulle domande con cui vengo letteralmente sommerso perché la scienza impone precisione. Ai bambini dico sempre che per saperne di scienze occorre essere uno scienziato e che io non sono uno scienziato. Posso rispondere a qualunque curiosità sui Cure, sui Depeche Mode, al limite sui Genesis. Ma per scienze rispondo sempre di cercare su Google e di non rompere i coglioni. Non proprio così ma il senso è quello.

calzini sbagliati

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Il 4 febbraio è la giornata dei calzini spaiati. Indossiamo calzini di due paia diverse perché, indipendentemente da quali abbiniamo, la loro funzione non cambia. I calzini sono la metafora di noi che li mettiamo perché foggia, fantasia e lunghezza non ne alterano la natura e restano comunque calzini. Con i calzini spaiati vogliamo non fare caso alla diversità in quanto eccezione. A parte che non si capisce bene diverso rispetto a cosa. Ma poi, anche se fosse, che problema c’è? Cercavo qualche spunto per approfondire in classe il tema. Una collega ha fatto lo stesso e ha scelto di partire da questo disegno:

Se cercate su Google immagini ne trovate svariati e con soggetti diversi. L’intento è rappresentare graficamente i quattro concetti di esclusione, segregazione, integrazione e inclusione. Secondo me però gli ultimi due non sono corretti. Per integrazione si intende infatti “l’incorporazione di una certa entità etnica in una società, con l’esclusione di qualsiasi discriminazione razziale; estens., l’inserimento dell’individuo all’interno di una collettività, attraverso il processo di socializzazione”. Il fatto che l’insieme interno dei due sia delimitato da una barriera non ne fa, appunto, una componente integrata, in grado cioè di prendere parte ai processi che si operano nel contesto. Piuttosto è con l’inclusione che un insieme va a far parte dell’altro ma rimanendo un insieme a sé. È con l’integrazione che, invece, gli elementi si mescolano, e io addirittura avrei pasticciato anche con i colori dei singoli calzini per sottolineare che, grazie all’integrazione, gli elementi inclusi hanno poi contribuito a caratterizzare l’insieme grazie al loro apporto. Le didascalie a corredo dei disegni dei due quadranti inferiori vanno quindi invertite.

di cortesia

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Quando ci sono due auto in famiglia perché moglie e marito non possono farne a meno e una delle due è temporaneamente indisponibile bisogna ingegnarsi. Non ho mai capito come si faccia ad avere un’auto di cortesia, per esempio. Ci sono strutture che ti offrono una vettura di riserva mentre la tua è in assistenza. Io sono un negazionista di questo servizio perché a me non è mai stato proposto, nemmeno dalla mia carrozzeria di fiducia, quella in cui a furia di far sistemare la mia vecchia carretta mi chiamano Roby. Ne risulta che a casa stiamo facendo i salti mortali per organizzarci senza dover ricorrere al noleggio di una macchina, una cosa che noi della categoria dei morti di fame non possiamo certo permetterci. E allora il car sharing?, già vi sento chiedere. Il fatto è che qui nell’hinterland, dove sarebbe una manna dal cielo e non solo, potrebbe persino risolvere qualche problema di arterie congestionate, non è pervenuto. Mia moglie ed io, per i rispettivi lavori, ci spostiamo in senso opposto o tangente rispetto alla città metropolitana. Potremmo utilizzare il trasporto pubblico ma significherebbe prendere un mezzo per arrivare in centro e poi prenderne un secondo per arrivare a destinazione, tornando in periferia. Ci ho provato ieri. Per percorrere 18 km – in macchina ci metto un quarto d’ora, vado in senso inverso rispetto al traffico che raggiunge Milano – ho impiegato quasi un’ora e mezza cambiando quattro diversi vettori: un autobus da casa mia al capolinea della M3, la metro gialla fino allo scambio con la metro rossa, la M1 fino a Molino Dorino e, infine, un secondo autobus verso la mia scuola. L’ultimo tratto, due minuti dalla fermata all’ingresso, l’ho percorso a piedi. Ho incontrato la mamma di Anna che aveva appena lasciato la mia alunna a scuola. Le ho raccontato il motivo per cui mi trovassi lì e, tutta preoccupata, si è immediatamente offerta di prestarmi l’auto nuova che hanno appena preso per la sorella più grande di Anna che ha appena conseguito la maggiore età. Ovviamente ho rifiutato, ma lei ha insistito con una cortesia che mi ha letteralmente commosso. La mamma che offre la propria auto in prestito al maestro della figlia per evitargli la complessità di un viaggio da casa a scuola. Cose d’altri tempi.

gomma

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Un signore anziano sta sputando sentenze contro le nuove generazioni. La sala d’attesa è gremita, l’uomo ha la mascherina che gli protegge solo il collo e il rischio è che, a corredo delle invettive, ci siano saliva e roba in grado di ammalare il prossimo. Non so quando sia iniziata la nuova era. Una volta i vecchi si lamentavano dei ragazzini, dei giovanissimi, insomma, per tutti quei motivi per i quali lo scontro generazionale risultava indiscutibile. Da un po’ di tempo ce l’hanno con un altro tipo di giovani, quelli tra i trenta e i quarant’anni, gente che potrebbe essere i loro figli. Io ho scampato per un pelo il target di questa insofferenza anche se, parliamoci chiaro, non è che noi siamo tanto meglio. Ne deriva che la responsabilità di cotanta insulsaggine è di sua competenza, sua e dei suoi coetanei. Per noi, che a differenza dei trenta e quarantenni abbiamo figli già alle soglie della vita da adulti, si vedrà. L’aggravante è che sono un insegnante, quindi il mio ruolo di educatore potrebbe essere fallimentare il doppio, così, finché posso, evito di intervenire e di darmi la zappa sui piedi. Il vecchio sostiene che la sua accezione di giovane d’oggi è responsabile per aver reso la tecnologia inaccessibile ai non addetti ai lavori digitali. Dice che prima o poi ci sarà un governo di tecnici informatici, uomini che si accentreranno il potere immenso di rendere sempre più complessa la tecnologia tagliando fuori dai giochi chi è poco avvezzo. Un golpe subdolo che già iniziato con lo SPID.

Nell’atrio in cui ci troviamo – nel sogno non si capisce bene, la scena potrebbe svolgersi nell’attesa di una delle ennesime dosi di vaccino ma anche all’ufficio postale, dove i vecchi come lui, alla fine di ogni mese, ritirano ancora la pensione in contanti e siamo nel 2022 – c’è un vecchio pc desktop acceso con un salvaschermo attivo, una scritta multicolore in 3D programmata per rimbalzare dall’alto in basso, da destra a sinistra, parole di cui non riesco a cogliere il significato, il monitor non è sufficientemente inclinato nella mia direzione. Lo chassis è di quel bianco panna sporca che i laptop multicolore e metallizzati di oggi hanno contribuito a farci dimenticare insieme al fatto che, una volta, ogni postazione di lavoro era occupata da catafalchi antiestetici di quella stazza. Un vero pugno in un occhio al design di interni.

Tra le varie accuse proferite, l’uomo sostiene di avercela con i giovani – ribadisco, quei giovani – per aver reso impossibile il recupero delle password. A quel punto non ci vedo più. Con uno slancio mi alzo dalla panca su cui aspetto il mio turno per cantargliene quattro. Ma come si permette?, voglio gridargli. Recuperare le password è una procedura semplicissima!, sto per urlargli addosso. Il fatto è che, nella mia esperienza di amministratore della piattaforma di didattica digitale della scuola in cui insegno, i genitori che si dimenticano le credenziali sono tantissimi. Non ho tenuto uno storico, ma non avete idea di quante richieste di aiuto abbia ricevuto. Calcolo a mente una stima ma questa indecisione è fatale: non faccio in tempo a mettermi in piedi che lo smartphone mi cade dalle mani, vola in terra e scivola veloce, grazie alla gomma del guscio con cui l’ho rivestito, dall’altra parte della sala. Una bella figura di merda per un esperto di computer. Decido di stare zitto, ho già sprecato il mio spazio di attenzione con quella goffaggine. Raccolgo il telefono, ne pulisco il dorso con le mani e finalmente, tornando al mio posto, riesco a leggere cosa c’è scritto sullo salvaschermo.

barcarolo

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Tornerei indietro nel tempo solo per cancellare da subito le email inutili dalla casella di posta Gmail e i contatti che, tra email e telefono, si sono accumulati negli anni, smartphone dopo smartphone, generando una rubrica telefonica infinita. Colleghi di lavoro di due o tre vite fa, clienti incontrati una volta chissà quando, nominativi inoltrati da amici per chissà quale finalità. Oggi mi è capitato per caso il numero salvato come “Mirco barcarolo”. Dovevamo girare un video a Venezia, sarà stato il 2014, e, per ovviare alla complessità logistica di muovere l’attrezzatura tra le location ci avevano consigliato di rivolgerci a qualcuno esperto nei trasporti via acqua. Il nostro cliente ci aveva così messi in contatto con Mirco (il) barcarolo che aveva provveduto a tutto. Era venuto a prenderci con la sua imbarcazione al parcheggio dove avevamo lasciato il furgone e ci aveva scarrozzato secondo le nostre necessità. Ricordo il privilegio di sfrecciare lungo il Canal Grande. Non avevo mai visto Venezia su una barca privata, soprattutto senza mettere una lira di tasca mia per quel lusso, perché il suo costo si era poi – giustamente – rivelato proibitivo. Oggi ho visto il numero di Mirco (il) barcarolo e mi è venuta voglia di chiamarlo per chiedergli se si ricorda di me. Chiamerei tutti per sapere se si ricordano. Sono pieno di contatti come Mirco (il) barcarolo e mi domando cosa succederebbe se, per caso, mi scappasse per errore una telefonata.

impatto

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Se qualcuno sviluppasse un generatore random di modelli della Volkswagen non avrebbe molte variabili da inserire, a partire dal nome che dovrebbe necessariamente iniziare con la lettera T e dallo stile, considerando che la casa automobilistica tedesca non fa altro che mettere sul mercato automobili tutte uguali. Mi riferisco alla T Cross, alla T Roc, alla Tiguan (che a questo punto avrei chiamato direttamente T Guan) e alla nuova Taigo (che a questo punto avrei chiamato direttamente T Aigo, anche se leggendo il gioco di parole non fa ridere come gli altri).

Immagino che si intende di macchine – questo non è certo un blog di motori – sia in grado di dimostrarci che non è vero e che si tratta di vetture con sostanziali differenze, ma ai meno appassionati sembrano una serie di crossover molto somiglianti tra di loro, più o meno tendenti al SUV. Pensate alla potenza di questo brand teutonico: sforna classici senza età come la Golf e la Polo e si può permettere di mandare in pensione design che, da un punto di vista estetico, non hanno paragoni, e mi riferisco alla Touran che non mi sono mai potuto permettere, come del resto tutte le altre Volkswagen, ma che rimane ad oggi la macchina dei miei sogni, al numero uno di qualunque classifica a quattro ruote.

E se volete sapere da dove derivi questa mia inusuale spregiudicatezza nel diffondere ininfluenti pareri per il settore dell’automotive è molto semplice. La terza età mi ha avvicinato al canale tv Motor Trend e a quei programmi in cui ci sono due tizi – a volte inglesi a volte francesi, uno che fa il commerciale e uno che si occupa del lavoro sporco in officina – che acquistano automobili vecchie a prezzi stracciati e le risistemano per poi rivenderle, unendo la voglia di fare margini alla passione per certe macchine d’altri tempi. Forse ne avevamo già parlato, ma la cosa più sorprendente di questa trasmissione è il linguaggio tecnico. Si parla di componenti meccanici che potrebbero essere inventati di sana pianta. Mi chiedo, comunque, come se la sbrighino i traduttori a ogni episodio, se davvero esista una parola in italiano corrispondente al nome in inglese di ogni pezzo e se c’è qualche spettatore all’altezza di capire se il meccanico – che spesso lavora a mani nude senza sporcarsi mai di grasso – ci sta prendendo per i fondelli. I motori, in quanto a linguaggio specifico, sono secondi solo alla medicina.

Non c’entra granché, ma questo interesse per Motor Trend è coinciso con l’esigenza di cambiare la macchina. Ora non vi sto a raccontare la storia che c’è dietro alla scelta che mia moglie ed io abbiamo operato e nemmeno il tempo che abbiamo dedicato alla ricerca. Fatto sta che un paio di sere prima di confermare l’acquisto – un modello nuovo che, come tutte le auto nuove, sarebbe arrivato a sei mesi dalla firma del contratto – ho sfasciato l’auto ma non quella che dovevamo cambiare, bensì quella che in famiglia chiamiamo city car, ovvero la seconda vettura che comunque è fondamentale, considerando che entrambi lavoriamo in luoghi non raggiungibili dai mezzi pubblici con tempistiche accettabili. Un imprevisto che ha cambiato le carte in tavola. Ci siamo immediatamente orientati verso una km zero in pronta consegna – merce rara al momento – e che, grazie a un colpo di fortuna, siamo riusciti ad aggiudicarci anche se a un prezzo tutt’altro che conveniente.

Nelle scorse settimane sono venuto così in contatto con almeno una decina di venditori di automobili. L’esperienza è stata a dir poco sbalorditiva. Ho incontrato persone non solo preparate e tutt’altro che incalzanti nella gestione del rapporto interpersonale di carattere commerciale. Probabilmente il momento a favore dell’offerta, grazie a una forte domanda, rende gli operatori del settore particolarmente rilassati, collaborativi ed empatici. La cosa mi ha reso molto più incline a sborsare la cifra che, comunque, trovo irragionevole per una macchina. Non è vero, ma me lo dico per abbattere ogni dubbio che mi è rimasto. Sarà davvero una macchina di cui sarò soddisfatto?

Comunque, la colpa dell’incidente è tutta mia. Una leggerezza che, per fortuna, non ha avuto conseguenze – se non all’automobile, che è da buttare – e mi fermo qui, anche se sarebbe stato meglio se mi fossi fermato prima, nel senso di prima di sbattere. Ho provato a tornare indietro nel tempo, a riavvolgere il nastro a qualche secondo prima per affrontare quel cambio di corsia in modo meno avventato, ma ho capito che non si può. Il fatto è che non c’è niente di più allarmante del rumore di uno scontro tra auto rivissuto nella testa a posteriori. Che impatto. Che botta. Speriamo che lo schianto si confonda presto con gli altri fragori della vita, quella di tutti i giorni, quella che continua.

presidio

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Ignoravo che il castelmagno fosse un formaggio di stagione e che, appunto, di questi tempi non si trovasse. Me lo ha detto Luca. La sua bottega di specialità del basso Piemonte è uno dei negozietti di fiducia dei miei genitori i quali, vivendo nel centro di una piccola città di provincia, hanno tutto a portata di mano ma a un costo doppio o triplo rispetto ai supermercati in cui mi rifornisco io qui. Con il suo palpabile accento delle langhe colma anche la mia lacuna circa il processo di preparazione di quel prodotto a denominazione di origine protetta. Per fare il castelmagno ci vogliono le acciughe che, in pieno inverno, hanno appena deposto le uova o, al massimo, si pescano appena nate e di dimensioni insoddisfacenti. La sua spiegazione mi lascia a bocca aperta. Il castelmagno è un latticino e non riesco a cogliere l’attinenza con i pesci, a meno che le acciughe non entrino in gioco nella fase di fermentazione, sempre che per fare il formaggio tutto ciò sia necessario. Non è un mio problema, al momento. Da quando faccio l’insegnante mi trovo a dare risposte ai miei alunni a cose che non so. E poi sono sempre stato refrattario ai connubi mare e monti. Per me sono due ambienti che si devono tenere alla larga, incompatibili, ed è meglio che ciascuno se ne stia a casa propria. Questo vale anche per l’enogastronomia.

La bottega di Luca è una specie di via Montenapoleone del gusto. Vini da decine di euro a boccia, tartufi, pasta ripiena e non fatta in casa, miele, marmellate, prodotti delle fattorie e ogni altro ben di dio. Lui e la moglie lo gestiscono da sempre e io mi sono sempre chiesto come riescano a sopportarsi con quella parlata, a casa e anche sul posto di lavoro. Avevo visto un film porno con protagonisti amatoriali torinesi, da giovane. Da allora mi sono convinto che, nell’intimità, è molto più efficace stare in silenzio a meno di non aver alle spalle un valido corso di dizione, uno di quelli che ti piallano ogni inflessione a italiano da doppiatore.

Da Luca ho appena acquistato una fetta di un altro formaggio tipico di cui, stamattina, mi sfugge il nome. Mi sono lasciato consigliare ma poi il display della bilancia mi ha fatto pentire della scelta. Nella bottega c’è qualche tavolo per consumare i loro prodotti sul posto. Io e Alessandra, tanti anni prima, c’eravamo fermati solo perché Luca aveva appena messo il nuovo cd degli US3. Avevamo preso un panino – mica con il pane dozzinale, eh, ma con due fettazze di quello fatto con tutti i crismi del km zero, dello slow food, del biologico, un vero concentrato di fuffa marketing culinaria – e una bottiglia di vino “buono”, così gli avevo chiesto, senza pensare – ma ero giovane, troppo giovane, un vero ragazzino – che mi avrebbe rifilato mezzo litro di barolo a 30mila lire.

Ma le gaffe nella bottega di Luca sono un classico. Oggi ho lasciato mia moglie fuori, in macchina con le quattro frecce, e mi sono precipitato nel negozio per comprare qualche specialità da portare con me, al rientro nell’insapore periferia milanese. Appena entrato sono stato subito redarguito per essere senza mascherina. Non è da me, se pensate che ormai indosso la FFP2 anche quando guido da solo. Ho chiesto scusa – che imperdonabile avventatezza – e mi sono precipitato in auto per recuperarne una. Nella fretta, come sempre, non ho trovato quella estratta poco prima immacolata dalla sua confezione e ho dovuto accontentarmi della mascherina di stoffa che qualcuno mi ha lasciato nel portaoggetti tra i sedili anteriori. È blu ed è molto larga, ma per una spesa di qualche minuto posso resistere. Lascio spalancarsi le porte scorrevoli automatiche e, finalmente, ecco il mio turno per consumare il rito del ritorno alle radici, lo stesso che vedevo interpretato da mio papà ogni volta in cui andavo a trovarlo, quando era ancora in vita. Ed è proprio mentre scruto tutte quelle eccellenze alimentari che mi rendo conto che non avevo mai fatto un sogno con la mascherina, prima d’ora.