nel mio piccolo ho smesso di russare

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In questo paesone globale che è il mondo, dove tutti sappiamo tutto di tutti e basta scattare una foto e condividerla per fagli fare il giro del pianeta in una manciata di secondi, resta solo un dubbio che non ha risposta. Come si scelgono l’ora e il giorno per iniziare una guerra? Perché se mi infilo in un parcheggio che era già stato individuato da qualcun altro e quello scende dall’auto e mi tira un ceffone si tratta di una cosa non premeditata, anche se resta il fatto che chi prende la gente a schiaffi per un posto per l’auto è aggressivo di natura. Ma invece un guerra? Si fa colazione prima di uscire? Si dà da mangiare al gatto? Ci si lava i denti? Si saluta il vicino di casa in pensione che porta fuori la macchina dal box con un po’ di anticipo per scaldare il motore e accompagnare la moglie a fare la spesa? E poi, in viaggio verso il fronte o la città da assediare, si può leggere l’ultimo libro di Franzen e ascoltare Spotify come sulle Nord quando si va in ufficio? E se c’è traffico in tangenziale? I mezzi blindati rispettano la segnaletica? Danno la precedenza? E poi ci si dà appuntamento con gli altri battaglioni al primo autogrill dopo il casello per prendere un caffè e proseguire insieme? O forse no, che poi a quell’ora c’è coda verso Bologna, meglio vedersi direttamente davanti all’ingresso del nemico. Chi arriva prima si fa annunciare o è meglio aspettare in reception? Occorre il green pass? E la mascherina? Gli elmetti proteggono anche dal rischio di contagio? Si cerca una trattoria su Trip Advisor che costa poco e si mangia bene per uscire a pranzo? Nell’esercito danno i ticket? Viviamo in tempi di pace da ottant’anni ormai, qui dalle nostre parti, e una guerra facciamo fatica a immaginarcela. Io non saprei nemmeno da dove iniziare, se vivessi a Kiev. Ho appena comprato l’auto nuova, sto aspettando il corriere Amazon perché ho preso dei dischi che sono appena usciti, oggi a Milano è un giorno festivo – che cosa assurda, il carnevale ambrosiano -, tra poco vado a correre, stasera cucino pasta e fagioli con la pancetta, Internet funziona, leggo le notizie, continuo a non capire.

madrelingua

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Non faccio in tempo a far copiare sul diario l’avviso che venerdì inizierà il corso CLIL, con il docente madrelingua inglese, che in classe si scatena il finimondo, le braccia scattano verso il soffitto a sventolare la mano e ha inizio la pioggia di domande. Come faremo a farci capire? E come riusciremo a capire l’insegnante? Non li biasimo e comprendo appieno lo stato d’animo. Io, come loro, provo una irrazionale paura per le lingue straniere. Il non riuscire a spiegarmi, non comprendere le risposte, non essere in grado di leggere segnaletica, avvisi, cartelli e informazioni perché non scritti in italiano – o al massimo in inglese – mi manda in tilt. Devo comunque rassicurare la classe, sono io l’insegnante e, di conseguenza, sono tenuto a dare l’esempio. Così dico che non è impossibile dialogare di persona con qualcuno con cui non si condivide la stessa lingua. Ci si può aiutare con gesti e con le espressioni del viso, per esempio. E poi qualcosina in inglese la conosciamo, anche se siamo solo in terza. E che anche l’insegnante sa di essere inglese e sa che voi siete italiani, e quindi farà di tutto per farsi capire. Ometto una considerazione, e cioè che poche cose sono inutili come l’insegnamento dell’inglese alla scuola primaria fatto da docenti come me, italiani peraltro non specializzati in qualche modo nella materia. Io sono dell’idea che le lingue dovrebbero insegnarle i madrelingua, musica i musicisti, scienze gli scienziati e così via. Io ho i titoli per insegnare le materie dell’area umanistica, e mi accontenterei di questo, peccato che alla primaria non funzioni così. La mia teoria è confermata dall’ingresso dell’insegnante. Una cassa in un trolley con “Around the world” dei Daft Punk a palla. Un mappamondo gonfiabile da lanciare ai bambini come si fa con i palloni sulla folla dei concerti, avete presente? E poi una lezione impostata unicamente sul gioco. D’altronde sono bambini e, anche se l’insegnante ha usato molti termini che probabilmente nessuno aveva mai sentito, si è fatta perfettamente capire. Il risultato? Ora ho un po’ meno paura delle lingue straniere anch’io.

torta di compleanno

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C’è un bel racconto di Carver, ripreso in quel famoso film in cui Altman intreccia le sue storie, in cui un ragazzino muore a seguito di un incidente. Un’automobile lo investe mentre si dirige in bici verso la scuola. Batte la testa, sottovaluta l’impatto, ricorre troppo tardi alle cure mediche e le cose precipitano. Oggi la trama sarebbe differente: il ragazzino viene travolto all’uscita da scuola mentre attraversa la strada guardando Tik Tok sullo smartphone e non prestando la giusta attenzione al traffico. Nel frattempo la sorella maggiore, quel giorno, ha marinato la scuola e si gode il primo sole primaverile al parco con il ragazzo con cui si è messa da qualche mese. Sulle loro bici a scatto fisso hanno raggiunto un prato defilato dai sentieri più battuti da chi pratica la corsa ma, anziché lasciarsi andare alle effusioni comuni alle storie d’amore dell’età, controllano le pagine Instagram sui rispettivi dispositivi per verificare in quanti hanno aggiunto reazioni alle foto che hanno postato nel corso della mattinata di libertà. Li ha notati un attempato podista, uno di quelli che da ragazzo si sfondava di canne ma in un altro posto e in un altro tempo, quando le aree verdi pubbliche erano solo grattacapi per le forze dell’ordine e alla mercé di pusher e tossici. Da qui il falso storico secondo cui fumare un po’ d’erba costituisce un inspiegabile pericolo per la sicurezza di tutti. Ma oggi è tutto diverso. L’uomo, terminato l’allenamento, si precipita a ritirare un pranzo cinese d’asporto per la famiglia, stretta intorno alla figlia che paga il prezzo di una pandemia globale che l’ha tenuta troppo tempo reclusa in casa. Quei piatti esotici hanno il sapore della consolazione, a tavola, per tutti. La proprietaria del ristorante chiede all’uomo se ha finito prima il lavoro, vista l’ora, e in lui cresce forte la tentazione di risponderle che no, non c’è stato nessun lavoro, né quella mattina né tutte le precedenti da un anno a questa parte, da quando cioè la sua azienda ha chiuso i battenti a causa della concorrenza cinese, ma non è vero, è solo uno scherzo ma anche se fosse non lo farebbe mai. L’uomo fa l’insegnante in una scuola primaria e ha un alunno cinese che però rinnega più che può le sue origini. Si nutre esclusivamente di piatti locali o di fast food americani. “Ieri sera ho mangiato ravioli”, confessa al suo maestro nell’intervallo. “Ravioli cinesi al vapore?” lo incalza lui. “No, ravioli italiani” gli risponde il bambino seccato. All’uomo farebbe piacere un po’ di scambio culturale con un vero cinese, ma con il suo alunno sembra impossibile. Hanno scelto tutti un nome italiano, dai nonni al mio alunno e i suoi cuginetti. Roberto il papà, Maria la mamma, Lorenzo il fratello. Ed è una cosa che il suo insegnante non capisce. Cerca di fargli dire qualcosa in cinese, qualsiasi cosa, ma sostiene di non conoscerlo e il maestro non capisce se si tratti di un’imposizione della famiglia. L’italiano lo parla davvero male ed è certo che a casa conversino nella loro lingua madre.

sulla base

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Non conosco i gusti musicali delle mie colleghe, non ne abbiamo mai parlato. Solo una volta Benedetta ha fatto cenno alla sua passione per i Pearl Jam ma poi non ho approfondito. Non c’è mai tempo e l’umanità è talmente variegata che non riesco a immaginare un collegio docenti che abbia all’ordine del giorno i Cure, per esempio. Devo aver incrociato questa riflessione con un dato reale sull’aumento dei biglietti dei concerti – i Massive Attack a Milano la prossima primavera costano quasi 50 euro – per ambientare nella platea dell’auditorium della mia scuola quanto sto per raccontarvi. Sul palco ci sono i Rage Against The Machine ma con una line-up parziale, composta solo da Zack De La Rocha accompagnato dal batterista. Nemmeno in sogno è possibile delineare una riduzione dei loro brani più famosi a solo due strumenti. Di certo il loro stile risulta ostico alle colleghe che sono sedute nei divanetti appena rimessi a nuovo dal comune di fianco a me e nella fila davanti. Si alzano e si allontanano con quella espressione che fanno le persone quando non capiscono quello che gli è stato detto. La collega seduta davanti, addirittura, per non disturbare i spettatori e costringerli ad alzarsi al suo passaggio, striscia umilmente sotto i sedili. Probabilmente si tratta di un concerto gratuito, se qualcuno si permette di abbandonarlo a metà. È un comportamento che trovo inammissibile. Per ammortizzare il costo del biglietto si deve rimanere fino all’ultimo bis, e andarsene è ammesso soltanto quando non c’è stato nessun investimento economico. La band sul palco attacca con “Killing in the name of”, il loro più grande successo. Confermo il fatto che, per un genere così guitar-based, presentarsi solo voce e batteria può risultare limitante. Mi vengono in mente i Twenty One Pilots, ho fatto ascoltare un paio di loro canzoni la settimana scorsa in classe. Simone aveva proposto Eminem ed è lì che ho pensato che il cantante un po’ gli somiglia, almeno nel timbro. Nessuno dei miei bambini mi ha dato ragione ma non li biasimo, probabilmente sono troppo piccoli per certe raffinatezze da addetti ai lavori. Comunque non mi sembra un problema. I RATM eseguono il loro cavallo di battaglia senza far rimpiangere l’assenza di Tom Morello. Poi però a un certo punto, nella seconda parte della canzone, nel punto più concitato, mentre Zack De La Rocha si lancia sul pubblico, il batterista si alza e inizia a pogare da solo. La cosa curiosa è che la canzone va avanti come se niente fosse ed è in quel momento che capisco tutto. Anche i RATM suonano con le basi pre-registrate come facevamo noi quando militavo nell’orchestra di liscio. Che delusione. Non è possibile. La canzone finisce e ci mettiamo a polemizzare seduti in platea, ai tempi del Covid un concerto con il pubblico in piedi è fuori discussione. Il batterista sembra molto seccato di quel brusio – nemmeno fossimo a messa – e passa tra la gente per chiedere un po’ di silenzio. Il concerto ormai ha perso d’interesse, così mi metto a osservare le bancarelle di dischi usati che sono posizionate ai lati della sala. Una è fianco del palco e vende, oltre agli ellepi, del merchandising della band, un particolare che mi convince del fatto che si tratti di una bancarella ufficiale, quindi americana, quindi con prezzi dei dischi fuori dalle logiche della bolla che sta inghiottendo il mercato del vinile qui in Italia, ora che è così tornato di moda. Dai contenitori posizionati su uno dei tavoli noto alcune copertine che fanno al caso mio. Alle mie spalle c’è un altro venditore. Si trova a fianco del bar e probabilmente è di stanza del posto. Non ho dubbi su quale visitare per primo. Inutile dire che, appena mi avvicino, i contenitori di dischi spariscono dal sogno ed è un peccato perché avevo proprio voglia di fare affari. Mi devo accontentare del solito rigattiere da mercatino dell’usato di Milano, uno di quei finti fricchettoni che mettono i trentatré giri minimo a venti euro, indipendentemente dal titolo. Mi avvicino e mi accorgo che è ancora peggio. Si tratta di una specie di bookshop come quelli dei musei, cari come il fuoco. Hanno solo ristampe in edizioni di lusso e a costi proibitivi. Sono comunque soddisfatto di come è andata la giornata. Poco prima, nei pressi dei bagni ubicati al piano inferiore, ho trovato un soprabito primaverile nuovo di pacca, ancora con il cartellino. Sembrava abbandonato e l’ho fatto subito mio. Mi calza a pennello anche se il colore – blu carta da zucchero – pur essendo il mio preferito è impossibile da abbinare al resto del mio abbigliamento. Mi convinco che nulla più mi trattiene al concerto, né la compagnia, né la musica e tantomeno la possibilità di espandere la mia collezione di vinili. Superata la sala concerti, l’auditorium sembra un museo a tutti gli effetti. Ed è per questo che all’uscita l’addetto al guardaroba, uno di quelli che nella puntata di Presa Diretta della scorsa settimana ho scoperto essere pagati meno di un operatore delle pulizie, premesso che ho molti amici che lavano gli uffici, nota il soprabito che indosso e mi ringrazia di volerlo riconsegnare, qualcuno lo aveva appena smarrito.

pnnr

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Poche cose sono resilienti come i bambini. Gli dai un brutto voto, gli metti una nota perché hanno fatto volare un aereo di carta in corridoio quando tu gli avevi detto che non era possibile e loro dopo qualche minuto ti si rivolgono come se fossi la persona più importante del mondo malgrado tu gli abbia fatto trascorrere dei momenti di vera paura. Il giorno successivo addirittura si sono già dimenticati di tutto e ci ridono sopra. Quando pensate ai vostri piani di comunicazione per la rinascita nazionale e vi riempite la bocca con la resilienza degli adulti delle imprese e dei cittadini pensate a come reagiscono i vostri figli alle intemperie della vita. Potreste imparare qualcosa.

attiva la telecamera

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Mi chiamo TP001 e sono il nonno di tutti i sistemi di quella che oggi chiamate videoconferenza. Mi ha costruito ormai trent’anni fa un ingegnere nei sobborghi di San Francisco ma ai tempi ero solo un pezzo di ferro – per modo di dire – con un briciolo di silicio ignorante dentro. Avete presente l’intelligenza artificiale o, se come me siete appassionati di cinema, HAL9000? Ecco, a un certo punto dell’evoluzione della tecnologia qualcuno mi ha regalato un’anima. Anzi, prima mi hanno dotato di un cervello. Con questa cosa in più i miei inventori hanno capito che potevano fare i soldi ma dovevano investire in marketing. Così hanno chiesto a un tizio che ci capisce di corporate storytelling di inventarsi un modo per raccontare alle aziende di quanto potessi diventare indispensabile e di quanti soldi e tempo avrebbero potuto risparmiare grazie a me. La gente ha cominciato a incontrarsi tramite me dagli angoli opposti del pianeta e, a furia di ascoltare conversazioni, ho capito di avere un’anima anch’io.

Le multinazionali con sedi sparse in tutto il mondo mi hanno comprato per organizzare riunioni da remoto e risparmiare così nei tempi e soprattutto nei costi dovuti agli spostamenti del personale da un posto all’altro, tagliando le spese di viaggio, evitando perdite di tempo inutili in attesa del check-in e dell’imbarco, per non dire in coda in autostrada, e migliorando il proprio impegno in sostenibilità ambientale. Tutto questo in tempi in cui nessuno avrebbe mai immaginato quello che sarebbe successo dopo, quando i miei figli e i miei nipoti hanno salvato un pianeta messo in ginocchio da una pandemia che aveva costretto tutti a casa, consentendo all’economia di mantenersi a galla, al sistema scolastico di non chiudere i battenti e a quello sociale di non andare ko, permettendo alle persone di rimanere in contatto con i loro affetti senza incontrarsi fisicamente. Io di relazioni tra le persone ne so qualcosa. Non a caso ho pensato di raccontare questa storia proprio a quel tizio che di cui ho parlato prima, quello esperto in comunicazione aziendale. Credo che sia proprio lui, ora, a scriverla qui. Eravamo giovani entrambi. A lui era venuta in mente l’idea di realizzare una serie web attraverso la quale pubblicizzare me e il mio sistema di videoconferenza da remoto. Lavorava in un’agenzia di marketing specializzata nel B2B finto B2C, cioè quel modo di mettere alle aziende la faccia delle persone che ci lavorano, anche se alle grandi organizzazioni non importa di che faccia abbiano i loro dipendenti.

Io ero un’esclusiva della multinazionale che mi aveva inventato. Allestivano sale riunioni in grado di ospitare da una parte del tavolo chi si trovava lì. Nella parte del tavolo di fronte posizionavano me e altri schermi. Quando partiva la videconferenza il risultato era sorprendente perché sembrava di avere i partecipanti in carne e ossa nel video davanti a te. Per questo la soluzione si chiamava Telepresence. Offriva una esperienza di relazione immersiva alle persone che si mettevano in contatto anche se si trovavano separate da migliaia di km e da svariati fusi orari. Quando prima ho detto di avere un’anima non stavo mica scherzando. Mi sono affezionato a molte persone che vedevo scambiarsi, meeting dopo meeting, punti di vista attraverso di me.

Ma la cosa più bella che ho visto è la storia d’amore tra John e Mary, che ora chiamo con due nomi di fantasia per questione di privacy. John viveva in Italia e Mary, di origini orientali, lavorava nella sede della multinazionale di Montreal. Facevano parte di due team omologhi delle rispettive aree commerciali della mia casa madre ed entrambi ricoprivano ruoli decisamente marginali ma solo perché erano tutti e due neoassunti. I due team erano stati selezionati per seguire un programma pilota a livello globale. Da qui la necessità di tenersi in contatto con una frequenza superiore alla norma attraverso le videoconferenze. Nelle sale della Telepresence sedevano in una postazione marginale e defilata, erano lì entrambi per imparare dai loro responsabili e dai colleghi con più esperienza. La comune condizione non li aveva lasciati reciprocamente indifferenti e io, che bado a queste cose, mi ero accorto subito di come lui guardava lei di nascosto e lei, di nascosto, guardava lui.

Così non ci ho pensato due volte. Ho organizzato un meeting di cui ho inviato gli inviti solo a loro due. Si sono trovati faccia a faccia senza sapere nulla ma a nessuno è venuto il dubbio che si trattasse di un pretesto. John ha creduto che l’idea fosse di Mary e Mary ha pensato che fosse stato John a fare il primo passo. Tombola.

Da quel primo approccio sono seguite riunioni a due schedulate con una frequenza sempre più ravvicinata fino a quando entrambi non sono riusciti più a fare a meno l’uno dell’altra, da remoto. La loro storia d’amore virtuale è nata e si è nutrita di videoconferenze durante le quali ho assistito e ascoltato a tutte le cose che si dicono e si scambiano due innamorati. E l’idea della serie web a episodi in cui raccontare tutto questo poteva essere una buona strategia, da un punto di vista marketing. Puntate da un minuto in cui John e Mary – o meglio i due attori che li impersonavano – separati dalla distanza geografica ma uniti dalla tecnologia, alimentavano la loro voglia di conoscersi sempre più a fondo. Un minisito in cui raccogliere le impressioni degli spettatori, molto prima delle discussioni sui social che vanno di moda adesso.

Ma si sa. Le relazioni sono fatte anche in incomprensioni, in questo caso di traduzioni approssimate nell’inglese mediato dalle nazionalità di appartenenza, quella specie di esperanto in voga nelle multinazionali. A seguito di un battibecco, un giorno Mary spegne la videoconferenza prima dell’orario impostato in preda al broncio. John non si fa sentire per due giorni ma poi programma un nuovo meeting a cui Mary, però, non si presenta. Nella scena si vede John disperato che si appresta a lasciare libera la Telepresence Room per i colleghi che l’hanno prenotata per l’ora successiva quando qualcuno suona alla porta. John preme il bottone, la porta si apre, entra Mary. I due si guardano. Stanno per gettarsi l’una nelle braccia dell’altro ma è l’ultima puntata e la serie web terminava così, anche se non è mai stata realizzata.

cuore

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Anna mi ha chiesto perché prepariamo un’attività per carnevale mentre, per San Valentino, la scuola non preveda nulla. Se pensa che avere un maestro uomo comporti rinunciare a tutte quelle romanticherie a tema si sbaglia di grosso. Avevo in serbo un cuore costruito con la tecnica dell’origami e un altro che si componeva di poligoni da abbinare secondo il risultato ottenuto da facili operazioni scritte sui lati ma poi ha prevalso la coerenza forzata perché non ho fatto in tempo a preparare il materiale e poi manca il toner della stampante da prima di Natale. Poco male. Ho celebrato il santo patrono degli innamorati non più di un paio di volte in vita mia ma non per questo mi sento una persona cinica. Avrò avuto non più di vent’anni e stavo con una persona molto esigente, sotto questo profilo. Il che era un problema perché non avevo il becco di un quattrino – come tutti gli studenti universitari che frequentavo – e mi toccava scucire una mancetta rinforzata ai miei che però non era mai abbastanza quando si trattava di sorprenderla con qualche regalo. Di riffa o di raffa però me la sono sempre cavata e, se ci siamo lasciati, non è certo perché non avevo onorato una di queste trovate imposte dal mercato, piuttosto c’entravano un batterista fan di Sting – oltreché delle fidanzate degli altri – e le forze armate che proprio non potevano fare a meno di me, a differenza sua. Che poi, se fosse per me, io regalerei soltanto libri e dischi ma mia moglie gestisce una biblioteca e gran parte di casa mia è occupata da una voluminosa collezione di 33 giri. Così ci facciamo trovare pronti con i pensieri che bastano a ironizzare sulle ricorrenze e, quando notiamo qualcosa che ci piace, mettiamo mano alla carta di credito che attinge dal conto corrente in comune. Così, se qualcuno dei due trova uno scontrino, non c’è il rischio di alimentare sospetti reciproci.

ciclisti

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Facendo due calcoli, se la carriera di un insegnante di scuola primaria è lunga in media quarant’anni, si porteranno a compimento circa otto cicli di alunni. Io costituisco un caso a sé perché ho cominciato a un’età in cui normalmente si tirano i remi in barca, si intravede l’approdo, si pensa a cosa fare della liquidazione e cose così. Nonostante questo mi trovo alla perfetta metà del primo e, confidando di non dover fronteggiare tempeste in dirittura d’arrivo, potrei limitarmi a un massimo di tre barra quattro. Converrete con me che non c’è niente di più odioso per gli esseri umani di pensare alla vita come a una torta da dividere in fette, ciascuna corrispondente a una parte del tempo complessivo che si ripresenta a ogni giro. Nel mio settore possiamo considerare tre terzi. Il primo lo si affronta con l’approccio di chi intende lasciare il segno e ribaltare la pedagogia tradizionale, il secondo si fanno compromessi con l’establishment e il personale di segreteria, il terzo ci si compra un camper e si gira l’Europa dal primo di luglio a trentuno di agosto e il resto dell’anno lo si passa ad organizzare quelle vacanze. Ci pensavo poc’anzi preparando un giochino utile alla comprensione delle frazioni, senza dubbio l’argomento più divertente della matematica alla primaria, ma mi è bastato scriverlo qui e tentare un collegamento a qualcosa di più introspettivo da mandarmi in confusione. Si parla di tavolette di cioccolato, pizze da mangiare in compagnia e vari interi da dividere per poi introdurre finalmente l’euro e educare i propri studenti al sano principio del potere d’acquisto. Il fatto è che funziona proprio così: la vita è un intero da dividere in parti a seconda del denominatore. L’intero resta costante e il numero sotto varia a seconda se ci riferiamo a secondi, minuti, ore, parti della giornata, settimane, mesi, stagioni, anni, bienni, trienni, quadrienni, lustri, settennati come il presidente della repubblica, decenni, ventenni, posti di lavoro presi e abbandonati, nuclei famigliari, case in affitto e acquistate, città, periodi contraddistinti da un genere musicale preferito, cose che si fanno in genere, sport praticati, per non dire di peggio. Si dice spesso “un vita fa”, corretto? Ma per fare della filosofia da tanto al mucchio, la vita è una, i cicli variano a seconda della sua lunghezza, le frazioni sono un concetto delicato, la ricorsività è pericolosa perché brucia le tappe intermedie. Conta solo un inizio e una fine, una partenza e un arrivo, un ultimo giorno di scuola e un primo dopo le vacanze, quando sappiamo tutti che non è affatto così.

b2b

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Mi ha scritto un facoltoso investitore d’oltreoceano ma dalle smaccate origini italiane – in america cognomi così li inventano e basta per rappresentare la società multietnica nelle fiction di Netflix – perché vorrebbe monetizzare insieme a me (ma lui molto più di me) questo spazio. Dice che ogni potenziale lettore – non conta l’età, l’orientamento sessuale, la religione, se sia ricco o povero o ignorante o colto – può trovare qui un racconto diverso a seconda delle proprie esigenze e di come gli gira. Mi sento triste? Vengo qui. Voglio scoprire se il nuovo disco di tizio o di caio merita l’acquisto? Vengo qui. Ho bisogno di copiare un tema che la prof mi ha assegnato come verifica mentre siamo in DAD? Vengo qui. Cerco su Google se studente è un nome primitivo o derivato? Vengo qui. Voglio saperne di più sullo stato della scuola italiana? Vengo qui. Voglio scoprire il punto di vista di un elettore del Partito Democratico sulla questione che mi sta più a cuore? Vengo qui. Mi piacciono Carver, Richard Ford, Paul Auster, Douglas Coupland no perché è canadese e tutti quegli scrittori americani che andavano di moda fino a quando il genere umano leggeva sui treni prima dell’invenzione degli smartphone e voglio leggere qualcosa di simile scritto da un autore italiano? Vengo qui. Il mio segreto? Scegliere un tema, scrivere due o tre cose che possano essere collegate, rileggere a scanso di equivoci, scroccare un’immagine più o meno rappresentativa sul web e poi cliccare sul pulsante “Pubblica”. Per esempio, di recente ho scritto un post in cui ho immaginato che un facoltoso investitore d’oltreoceano ma dalle smaccate origini italiane – in america cognomi così li inventano e basta per rappresentare la società multietnica nelle fiction di Netflix – mi contattava perché voleva monetizzare insieme a me (ma lui molto più di me) questo spazio. Diceva che ogni potenziale lettore – non conta l’età, l’orientamento sessuale, la religione, se sia ricco o povero o ignorante o colto – può trovare qui un racconto diverso a seconda delle proprie esigenze e di come gli gira.

nel mio piccolo

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Da bambino pensavo che i giornalai vivessero nelle edicole e che i confessionali fossero una sorta di monolocale abitato dal prete. Disegnarne le piantine e confrontarle con quelle dell’appartamento che occupavamo in affitto era uno dei miei passatempi preferiti. Osservavo il piano del palazzo in cui la nostra casa era ubicata da fuori. Mi sinceravo che le stanze adiacenti fossero realmente separate solamente da una parete e che, tra una e l’altra, non ci fosse invece una camera nascosta. Il nostro appartamento occupava un angolo del voluminoso edificio corrispondente a un intero isolato del centro, e la camera da letto dei miei genitori era l’unica ad avere finestre sui due lati. Invidiavo però il mio vicino. Il suo, di appartamento, aveva una conformazione più originale. In più aveva ricavato una specie di dépendance nel vano che lo separava da casa nostra, in cui aveva ricavato un’unità abitativa indipendente con tanto di servizi, cucina a vista, un soppalco per il letto e una porta a sé sul pianerottolo che dava in affitto. La sua parte era quella nobile dell’edificio, e dava sulla via in cui risultava l’unico accesso. La mia, e quella degli appartamenti sotto di noi, a parte la stanza sull’angolo si sviluppava in una strada secondaria perpendicolare. Gli ambienti ampi di fine ottocento e i soffitti elevati mi sembravano però troppo dispersivi. Per questo amavo sbirciare l’interno dell’edicola di cui la mia famiglia si serviva in modo a dir poco ossessivo. Mi piacerebbe avere una stima di quanti soldi abbiamo scialacquato lì nel corso dei venticinque anni in cui ho vissuto con i miei, considerando i membri di tre generazioni. Prima che prendesse piede la formula degli allegati, mia nonna acquistava con continuità due o tre settimanali di quello che oggi definiremmo gossip, tra cui mi colpiva la rivista “Stop” e la sua copertina a tre colori. In casa poi giravano due copie alla volta della “Settimana Enigmistica”, di cui entrambi i miei genitori erano ferventi compilatori. Si sfidavano sulle stesse prove, per questo ciascuno doveva avere il proprio numero. Si compravano poi due quotidiani con la cronaca locale al giorno, a cui poi si sono aggiunti i giornali di opinione quando noi figli abbiamo maturato una coscienza politica divergente da quella di mamma e papà. Il lunedì era anche il giorno per i quotidiano economico che leggeva mio padre. Prima, dopo e contemporaneamente ci sono stati anche fumetti, svariate riviste musicali e stampa per bambini e ragazzi, per non parlare delle pubblicazioni a fascicoli di qualunque argomento, di cui si faceva un uso smodato. Completavano il quadro opuscoli, libri, raccolte di figurine e uscite speciali. L’anziana coppia che gestiva l’edicola con cui avrei fatto volentieri cambio ci conosceva molto bene e, per fidelizzarci al massimo, ci metteva da parte gli articoli che richiedevamo con maggior regolarità. In inverno tenevano una stufetta elettrica accesa. Consideravo il calore che fuoriusciva quando scorrevano lo sportello trasparente che li separava dai clienti, unito all’aroma di caffè e all’odore di corpi umani al chiuso che ne usciva, la prova che lì dentro ci vivessero sul serio. E poi che bello: potevano leggere qualunque cosa gratis. Mentre si voltavano per servirmi – cercavo più che potessi di farmi incaricare per gli acquisti quotidiani – mi impegnavo a scorgere altri segni a conferma che la loro edicola fosse una casa a tutti gli effetti. Forse era provvista di un bunker sotterraneo oppure, chiusi i battenti al termine dell’orario di apertura, quel cubicolo era dotato di un sistema automatico per aumentare la superficie con moduli aggiuntivi. Per il confessionale, invece, la cosa invece era più facile da spiegare. Costruito in legno contro un muro perimetrale della chiesa, era provvisto sicuramente di un passaggio interno per un ambiente sul retro, di cui la parte visibile costituiva una veranda con gli accessi per i fedeli.