fai schiattare il divertimento

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Lo storytelling dei Tuc potrebbe ampiamente affondare le sue radici nella nostra tradizione, anziché ridurre l’esperienza di prodotto a dei bamboccioni scansafatiche che perdono tempo in divertimenti di dubbia efficacia. Pensate a quante volte li abbiamo acquistati nei distributori automatici o ai bar delle stazioni ferroviarie, prima di metterci in viaggio. E quanta sete abbiamo sopportato per aver dimenticato che, con dei cracker così salati, sempre meglio non lesinare nelle scorte d’acqua. Ah, le carrozze ferroviarie di seconda e terza classe di una volta. I treni locali in legno, così romantici, con tutte quelle fermate inutili e quelle ore passate a guardare il paesaggio scorrere veloce (per modo di dire) al finestrino sgranocchiando Tuc e facendo briciole in attesa della destinazione. C’entra poco o nulla, ma ho notato che il tempo con cui ci si alza dal sedile e ci si prepara alla propria fermata è direttamente proporzionale alla propria età anagrafica.

Ma non c’è solo il treno. Mia nonna non saliva mai in auto senza una scorta di Tuc in grado di sostenerla lungo la distanza che la separava dal paesello natio. In realtà pativa la guida di mio papà – suo figlio – che la scarrozzava e aver qualcosa di asciutto (nonché sfizioso) con cui limitare la nausea dovuta ai tornanti le consentiva di giungere a destinazione senza soste.

Quelli della Tuc quindi dovrebbero sincerarsi di quanti lo comprano per tenerselo in casa e quanti, invece, se ne approvvigionano esclusivamente dal carrello delle bibite a bordo degli Intercity. Io, a naso, direi più la seconda, perché se ne compro una confezione da tenere in dispensa non arriva sana e salva a sera. E se gli ingredienti del prodotto sono chiari sulla confezione, quelli della storia sono un mix poco comprensibile. La bandiera, i tre amici, la noia chiusi in casa – siamo ancora in lockdown? – e i diversivi poco credibili. Meglio un vagone di altri tempi, una nonna con i nipotini, un viaggio attraverso il passato, una confezione di cracker salati e tante, tante bottigliette d’acqua nella strada che ci porta alle vacanze estive in un paesino di riviera lungo quella ferrovia che, un tempo, scorreva a ridosso degli scogli.

cosa c’è da sapere

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Qualcuno in riunione ha appena proposto, come attività legata alla Pasqua, di preparare dei biscotti. Ho dato il mio assenso a un’iniziativa così sorprendente senza pensarci due volte, con uno slancio e un fervore smisurato. Vedermi in classe con il grembiule e il cucchiaio di legno in mano ed esprimere il mio consenso è stato un tutt’uno. Il fatto è che sono talmente provato e disilluso dalle astrazioni che solo l’idea di costruire un manufatto concreto qualsiasi (e senza una stampante 3D) mi manda in estasi, non importa il materiale di cui è composto e senza contare che l’idea in sé di farlo è, a sua volta, un’astrazione. Il problema è che ho la netta sensazione che qualcuno stia espropriando parti di superficie dell’interno della mia testa per annetterle a un progetto la cui visibilità mi è interdetta da muri altissimi – anche questa è un’astrazione, spero mi stiate seguendo – al di là dei quali non mi è possibile scrutare. Ne consegue che lo spazio e le risorse dedicate alla comprensione delle cose si sta riducendo sempre più velocemente. In parole povere, ho la netta sensazione di non capire mai un cazzo. Di conseguenza mi butto sul fare, visto che mi si sta precludendo il pensare.

Ho immaginato (attività che invece si avvicina molto di più ai nostri rendering, passatemi il termine, e quindi non va a occupare, una volta terminata, ulteriore spazio in memoria, quella del cervello, intendo) i miei bambini con le mani in pasta – è proprio il caso di dirlo – con farina e zucchero e gusci di uova che si versano ovunque in classe, per la gioia dei collaboratori scolastici che si innervosiscono anche dei nomi scritti a matita sul banco, ma il tutto è stato mitigato dal pensiero del risultato. Una teglia interamente popolata da biscotti dalle forme più assurde – so già che Cecilia li farà come unicorni, mentre Denis chiederà di colorarli come la maglia del Milan, e dovrò dirgli che non si può – pronti per essere infornati nella cucina della mensa dal cuoco Matteo.

In riunione si dice anche che, a quelle temperature, i virus cuociono insieme al resto e che quindi, tra le attività manuali sconsigliate, mettere in pratica una ricetta non è poi così più rischioso di altri momenti in cui è inevitabile lo scambio di materiali. Poi a me cucinare piace, e molto di più che ricoprire quei cazzo di rametti con i fiori realizzati con la carta crespa e appiccicati con il vinavil. Ma c’è di più. Gli esseri umani di sesso maschile hanno spodestato le donne anche dai fornelli (avrei voluto ricordare alle colleghe che oggi gli uomini vogliono fare anche le donne e spiegare alle donne come si fa a essere donne) e io, che ho l’aggravante di essere un essere umano di sesso maschile e in età avanzata, non mi sono certo tirato indietro e anzi voglio che la mia classe faccia i biscotti più buoni e più belli di quelli delle altre terze.

Cosa c’è da sapere per fare dei biscotti buoni? Non lo so. Non ne ho mai preparati ma sono convinto che, su uno dei miliardi di blog di ricette con video annessi che si trovano in rete, troverò quello che mi serve. Il punto è che la didattica laboratoriale è la formula vincente. La prova è che la pratica e tutto ciò che credo possa essere ricondotto alla memoria muscolare resta nel tempo, mentre cose come la filologia romanza, Persio, Rosmini, Fichte e l’Orlando Furioso pian pianino evaporano dal tessuto su cui avevamo appiccicato tutto quello che c’era da studiare per superare gli svariati esami universitari che avrebbero dovuto forgiare il nostro futuro da intellettuali. Mia figlia è alle prese con la scelta della facoltà con cui continuare il suo percorso scolastico e già la vedo sulle orme del padre, a fare lavori – ammesso che si trovino – in cui ciò che abbiamo studiato non conta un fico secco. Tanto il sapere è tutto qui dentro, tutto condiviso, tutto pronto all’uso, e l’unica competenza di cui abbiamo bisogno è saper cercare. Per il resto, è meglio preparare i biscotti.

la leggenda del pianista triste

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La nuova formula dell’esame di maturità adottata quest’anno la ricordavo differente ma, al cospetto della commissione, mi astengo da qualsiasi commento. Quello che non riesco a focalizzare è il motivo per cui mia figlia abbia scelto me come partner per sostenerlo e, soprattutto, perché io mi sia prestato. E vi assicuro che non è come nei quiz televisivi in cui il concorrente può chiedere l’aiuto telefonando a casa, in caso di dubbio. Mi hanno fatto sedere lì, al suo fianco, nella postazione adibita proprio di fronte ai professori e mi tempestano di domande ma non li biasimo. Quello in cui devo ancora sostenere l’esame di maturità malgrado sia già pienamente laureato e, a dirla tutta, più in prossimità del pensionamento che del primo impiego costituisce il più longevo dei miei incubi ricorrenti. Di certo non mi sarei mai aspettato che il soggetto prevedesse uno spin-off proprio quest’anno in cui è mia figlia a terminare il liceo.

Lei se l’è appena cavata molto bene. Sciorina cose di latino, greco, filosofia, storia e letteratura italiana che davvero non mi capacito come sia possibile ricordare. Ed è una cosa che penso ogni volta che mi chiede aiuto per ripetere la lezione in prossimità di un’interrogazione. E malgrado abbia seguito a grandi linee un analogo percorso di studi umanistici mi meraviglio di quanto io, invece, non mi ricordi più un cazzo e di come sia stato possibile superare esami universitari trent’anni fa che prevedevano programmi incommensurabili.

Non a caso quando poi viene il mio turno – la valutazione finale verrà calcolata attraverso una media delle prove di entrambi – le cose prendono una brutta china. Qual è il lago più esteso del continente oceanico. L’anno del trattato di Verdun. Quali province italiane si affacciano sul golfo di Policastro. In che anno è morto Salvatore Quasimodo. Chi c’era a capo del primo governo di unità nazionale dopo il forfait di Badoglio. Fino a un’inaspettata sorpresa: di quanti fogli di calcolo è composto di default un file di Excel al momento della sua creazione.

Più che una prova di maturità sembra uno di quei test assurdi a risposta multipla che vengono somministrati durante i concorsi per gli insegnanti ma è un problema antico quanto la pubblica amministrazione. Anche se sto vivendo un sogno, resto consapevole del fatto che la scuola – almeno quella italiana – è l’unica organizzazione al mondo priva di un’adeguata selezione del personale e che demandare a una prova nemmeno degna della settimana enigmistica la carriera di un aspirante docente non sta né in cielo né in terra. Vorrei anche chiedere il senso di fornire risposte che potrei dare in pochissimi secondi cercandole su Google ma ho capito la lezione, almeno quella. La commissione mi congeda e, malgrado poco prima sia riuscito a collegare diversi argomenti – le opere di Douglas Coupland, le cover di “Just Like Heaven” dei Cure, come effettuare ricerche nei file log di Google Workspace – vivo la netta sensazione che la mia performance possa compromettere il voto finale di mia figlia.

Mi accomodo in attesa dell’esito in una saletta laterale dove c’è la sua prof di scienze che, davvero, è l’esempio in carne e ossa di quello che ho appena pensato sul reclutamento dei docenti. Noto però con piacere che il tavolino davanti al quale mi siedo in realtà è un pianoforte con tasti tutti bianchi – compresi quelli che tradizionalmente sarebbero neri – costruiti con i Lego e con un efficace design a scomparsa in cui occorre premerli per verificare che sono tasti di un pianoforte, spero di essermi spiegato. Il che, inutile dirlo, rende lo strumento ancora più complicato da utilizzare.

Sposto lo zaino porta-pc e altre cose per sgomberare la tastiera e inizio a suonare tutto il mio repertorio di pezzi interrotti a metà. La riduzione semplificata che strimpello da sempre di “Firth Of Fifth”, il solito improvviso di Schubert che ho imparato fino a un certo punto e altri tentativi di ingraziarmi la prof di scienze ma il gap di sensibilità artistica fra me e lei che, davvero, nessuna azienda sulla faccia della terra prenderebbe a lavorare con sé risulta più che evidente. Anche lei ha capito che il mio problema, da sempre, sta tutto nella mancanza di costanza. Finisce come al solito, che con la mano sinistra faccio la sequenza di accordi delle dodici battute del blues con la tecnica del four way closed e con la destra suono la melodia a terze di “Blue Monk”, almeno come credo di ricordarla.

con le stelle

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Mettere le canzoni giuste al momento giusto è un vero talento. Anche qualche istante dopo rispetto a quando servono ci si può accontentare, fino a qualche anno fa abbiamo convissuto con una latenza oggi inammissibile. L’unico rammarico sono, al limite, le occasioni perse. Conosco la signora Polina perché faceva le pulizie ai miei vicini del piano di sopra. Ora è ingaggiata come badante a tempo pieno in una di quelle famiglie in cui sembrano essere tutti vecchi da sempre. Polina è in piazza con uno dei nonni o zii di cui si prende cura, circondata da una decina di anziani. La donna brandisce uno smartphone che trasmette un video sulla guerra, una scena che di questi tempi rischia di cadere nell’ordinarietà. Il problema è che Polina è russa e cerca di convincere le persone che ha intorno che la colpa è di quella specie di comico ballerino ucraino che non la racconta giusta. Il suo nonnetto non ha un’opinione, ma uno degli altri ottuagenari sostiene che è non possibile che, quella di Zelensky, sia tutta una messa in scena per provocare Putin. Sto per chiedere chiarimenti ma una mamma con una bambina mi distraggono dal dire la mia sulla crisi politica mondiale. La figlia racconta alla madre, a cui dà la mano, che domani ha il compito di realtà a scuola. I piccoli sono quelli più penalizzati dai grandi cambiamenti come una riforma sbagliata dell’istruzione, una pandemia, una guerra. A noi adulti, responsabili del loro disagio, piace comunque sfoggiarli in pubblico lo stesso. La mia teoria è che anche i peggiori ceffi, quando spingono un passeggino, rivelano un’aria dignitosa. Anche quelli con la faccia da tossico, i tamarri o i peggio vestiti, se li vedi a spasso alla guida di un bambino sprigionano tutta la loro potenzialità di persone affidabili. Intorno a noi c’è il solito tripudio di bandiere arcobaleno, solo che al posto di andrà tutto bene ora c’è un laconico augurio di pace. Che sfiga. Prima le mascherine, ora il rischio della terza guerra mondiale. Ripenso al film di ieri sera, il remake italiano di quella storia con Robert De Niro e Meryl Streep che si innamorano sulla metro. In questa riduzione per la nostra sensibilità i due non concludono un bel niente perché, appena si diffonde il Covid, ad entrambi viene concesso il telelavoro e addio treno delle otto. Si vedono l’ultima volta al supermercato, la settimana prima del lockdown, davanti alla vetrina frigo delle verdure confezionate. Qualche giorno dopo chiude tutto e il film finisce così. E la canzone giusta al momento giusto è proprio quel pezzo degli Üstmamò, quello che dice

Che bella cosa
che lieta meraviglia
non ci è toccata
né guerra né miseria

The Mysterines – Reeling

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Trovare dischi belli senza nemmeno una sbavatura è un’impresa impossibile. Anche “Reeling”, album con cui debuttano i The Mysterines da Liverpool, ha un paio di passaggi che non mi piacciono ed è per questo che ho pensato che sia meglio mettere subito le cose in chiaro, un po’ come quando si chiede “ho una notizia bella e una brutta, quale vuoi sentire per prima?” e la maggior parte delle persone preferisce partire con la cattiva, in modo che la parte positiva, lasciata alla fine, sia quella che rimanga nel tempo.

Se avete carta e penna sottomano quindi segnatevi questi due suggerimenti. La traccia numero 9, si intitola “In My Head”, ha la melodia del ritornello che sembra composta a tavolino seguendo un manuale di istruzioni per montare un pezzo rock’n’roll stile Ikea. E la traccia numero 11, “All These Things”, ha un giro di chitarra un po’ banalotto che impatta sul resto del pezzo ma a quel punto il disco è quasi finito e un brano eseguito con il pilota automatico, passatemi la metafora, uno di quelli che suona da solo indipendentemente dal fatto che ci sia qualcuno che lo ascolta oppure no, ci può anche stare. Dimenticavo: quando ci sono delle chitarre pesantemente elettriche di mezzo, il confine tra alternative-indie e hard rock tamarro non è così netto come sembra e occorre essere davvero qualificati per dimostrare al pubblico, traccia dopo traccia, di stare dalla parte giusta (quella non hard rock tamarra, per intenderci).

Smarcati questi punti, è il momento della buona notizia. “Reeling” dei The Mysterines da Liverpool è un disco sbalorditivo, uno di quelli da punteggio pieno che vedremo alle vette delle classifiche di fine anno a prova di un successo sorprendente, considerando che si tratta di un album d’esordio. Un insieme di canzoni che ti lasciano senza fiato.

“Reeling” dei The Mysterines da Liverpool è uno di quei dischi che, mentre lo ascolti, passi il tempo a pensare “ma dove ho già sentito questa voce” e poi ti accorgi che, quella voce, ce l’hai dentro. Perché è la voce universale, sensuale e provocante del rock più cupo, nella sua strenua ricerca di manifestare se stessa attraverso una personificazione.

Nella voce di Lia Metcalfe c’è l’essenza della nascita e della morte, l’alfa e l’omega, come direbbe qualcun altro. Un inferno in cui ci si inabissa per assistere a una carrellata di fatti e figure della propria vita per poi tornare fuori, alla fine, sfatti e sfiniti, a riveder le stelle. Grunge, garage e punk a portata di mano, accentuati da un timbro graffiante e dalle venature blues, imponente e primitivo, un’arma spietatamente controllata per affondare i colpi decisivi sempre al momento più appropriato di ogni canzone. E anche se per Lia Metcalfe nessuna enfasi è fuori luogo, e sono stra-sicuro di non aver esagerato, limitare la bellezza e tutta la portata della musica dei The Mysterines al canto è sicuramente riduttivo.

Pochi lavori possono permettersi un incipit da urlo come “Life’s a Bitch (But I Like It So Much)”. Non ci credete? Schiacciate play. Un riff di chitarra da manuale, il fill di batteria che ti sbatte dentro a una canzone che ti stende nel giro di una battuta, e quella vocina che du du du du è già pronta a mandarti in estasi. Pochi minuti ed ecco “Hang Up” a rincarare la dose, a farti venire la voglia di googlare i loro nomi e vedere che facce hanno, come si muovono sul palco, che strumenti imbracciano, di sapere tutto sulle loro vite, chi sono, dove sono, dove vanno e, se possiamo salire a bordo, dove ci stanno portando. E, come da copione, ecco un bis di ballad pronte a ritardare l’estasi da piacere, la titletrack “Reeling” con i suoi suoni sporchi e le sue parole accattivanti e la devastante “Old Friends/Die Hard”.

Il disco torna ad accelerare con un brano pressoché perfetto, “Dangerous”, ascoltando il quale è sufficiente soffermarsi sulla pronuncia dei primi versi – “I was willing and able but I was caught in your jaws. You caught me standing on the table, I saw you watching me fall” – per cadere, insieme a lei, definitivamente. Cosa dire poi delle tinte southern di “On the run”, del gospel di “Under Your Skin”, dei continui cambiamenti di “The Bad Thing” che parte in sette quarti per sfociare in uno stoner veloce fino alla fine, delle atmosfere grunge di “Means To Bleed”, della bellezza della chitarra e voce di “Still Call You Home”, della chiusura dark del disco affidata a “Confession Song”, un pezzo che non stonerebbe in un album dei Bambara.

“Reeling” è un’opera per chi ama gli ascolti impulsivi, le avventure musicali da una notte, i flirt nati dal nulla e nel nulla, i deja-vu che ti riportano a quel momento in cui sei sicuro sia iniziato tutto, le colonne sonore protagoniste di lunghi viaggi in solitudine, le cuffie con ascolti a tutto volume nel buio. Vi colpirà il suo perfetto equilibrio tra generi diversi, il sapere di tanti gusti per un sound impossibile da identificare, la sua capacità di raccogliere ammiratori di cose apparentemente distanti tra loro perché così orgogliosamente indefinito da risultare mai sentito e, allo stesso tempo, qualcosa di esistente da sempre. Il rock in sé.

ho fatto splash

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Se partecipassi a uno di quei telequiz di una volta in cui il concorrente sceglie l’ambito delle domande a cui rispondere su un tabellone, sono certo che eviterei la cultura generale spicciola perché lamento diverse lacune. Non ho mai visto “Matrix” e “Il silenzio degli innocenti”, per farvi un esempio, questo mi impedisce di cogliere tutti i meme sui loro protagonisti che circolano sui social. E, per continuare con i film su cui vedrei sfumare il montepremi in palio, ho visto “Tutti insieme appassionatamente” per la prima volta quando ero abbondantemente adulto, benché fosse una delle storie natalizie preferite da mia mamma. Ma, a dirvi la verità, non ricordo tutta questa abbondanza di repliche cinematografiche passate in tv quando ero bambino, o almeno prima dell’affermarsi delle emittenti commerciali, quindi forse fino a un certo punto non è colpa mia.

Questo per dire che conoscevo molto bene lo standard jazz di “My favorite things” nella versione immortale di Coltrane ma non sapevo che appartenesse alla colonna sonora del classico con Julie Andrews. Addirittura ero convinto che fosse tratta dal cartone Disney “Alice nel paese delle meraviglie”, film animato in cui mi sono imbattuto per la prima volta a quarant’anni suonati, insieme a mia figlia, scoprendo l’equivoco.

Ogni volta in cui “My favorite things” passa in tv ripenso a quante cose non so e a quante figuracce potrei fare conversando con la gente prendendo cantonate di questo tipo. Meno male che non parlo quasi mai con nessuno. Piuttosto, ho apprezzato l’utilizzo del brano nel concept degli spot del Mulino Bianco. E, se chiedessero a me cosa piace fare a colazione, al netto del fatto che se potessi mi farei recapitare ogni mattina una pizza calda con salsiccia e friarielli, tanto amo il salato a scapito del dolce, risponderei che la mia favorite thing è scuotere i biscotti sulla tovaglietta per scrollare tutte le briciole prima di immergerli nel caffelatte. Un’abitudine che le persone con cui vivo e mi sveglio – i miei genitori prima, la mia famiglia dopo – trovano talmente irritante da avermi indotto nel tempo a desistere.

Non ricordo quale, tra le mie precedenti partner, mi fece notare che si trattava di una pratica inutile. I biscotti sono composti interamente da briciole ed è impossibile scrollarle tutte, quasi si trattasse di un paradosso come quello di Achille e la tartaruga o altre minchiate da filosofia da tanto al mucchio che, se qualcuno te le vuole dar da bere a colazione al posto del latte o del caffè, tanto è meglio mettere le cose in chiaro e interrompere la relazione all’istante. Soluzione a cui, come è facile immaginare, ho prontamente provveduto. Oggi, però, raggiunta la maturità che l’essere vecchio comporta, devo ammettere che la persona in questione – davvero non ricordo di chi si trattasse – aveva ragione. Anche scrollando il biscotto il più vigorosamente possibile, quando lo immergi nel caffelatte un po’ di briciole si staccano e si spandono sulla superficie immacolata di ciò che hai nella tazza, rovinando esteticamente uno dei riti più belli della giornata, così importante che ci fanno persino pubblicità con tanto di musiche straordinarie tratte dal Real Book degli standard jazz.

Quindi, cari pubblicitari del Mulino Bianco, potete fare a meno di utilizzare la mia idea come spunto per il prossimo spot. E, se posso permettermi un consiglio, toglierei anche dalla circolazione l’ultimo soggetto, quello che passa ora in tv, quello dei tarallucci. Secondo me vi siete lasciati prendere troppo la mano. Quella dei biscotti lasciati cadere nella tazza colma è una pratica che non piace a nessuno. Chi mai troverebbe consolatorio il tè o il latte che schizza sulla tovaglia o sui vestiti, i propri o quelli delle persone che fanno colazione con noi? Io lo trovo davvero inopportuno. Tanto vale, allora, uno come me che sbatte gli oro saiwa nella vana speranza di togliere di mezzo tutte le briciole.

in memoria

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La mamma di Nicolò mi ha prontamente scritto via mail per avvisarmi che i problemi 5 e 6 di pag. 174 li avevo già assegnati lo scorso weekend. Questo significa tre cose: che Nicolò fa i compiti il venerdì pomeriggio, il che è encomiabile. Che questa settimana non ho corretto quelli che avevo dato la settimana scorsa ma posso garantirvi che me ne sono dimenticato solo in parte. Siamo alle prese con i numeri decimali ed è meglio non distrarsi, e poi tanto sono sicuro che a casa i problemi li fanno bene perché, quando non riescono, ci pensano i genitori. Che ho la memoria piena e che dovrei o togliere un po’ di roba inutile o comprarmi una testa a stato solido. Prima pensavo che fosse solo un problema anagrafico. Al netto della demenza senile, con l’età le cose che si accumulano nella memoria poi non ci stanno più, proprio come le cantine e i box o il freezer quando esageriamo con l’acquisto dei surgelati al supermercato. Uno prende due problemi del libro di matematica perché tanto – pensa – sono così piccoli che ci stanno tra la zuppa come una volta e i gamberi. Invece poi per mettere i problemi sposti i verbali che devi caricare sul registro elettronico ma poi c’è la raccomandata da ritirare in posta che resta fuori e quindi finisci per scongelare la nuova camera d’aria per la bici perché è dall’autunno scorso che hai la gomma a terra ma meglio aspettare giornate più calde e così i problemi 5 e 6 di pag. 174 li metti in frigo e scadono senza che te ne accorgi nemmeno e li devi buttare. Dicevo che prima pensavo che la colpa fosse dell’età perché a ricordarsi tutte le cose di una vita ci vuole altro che un magazzino dedicato e a cinquantacinque anni iniziano a essere fuori controllo. Ma oggi sono convinto che la colpa sia di Internet. Non ci siamo ancora abbastanza evoluti per conoscere informazioni su così tante persone, per leggere di così tanti avvenimenti piccoli e grandi, sapere tutto di tutto e tutti. Dovremmo limitarci alla cerchia ridotta che è alla nostra portata. La famiglia, qualche amico, la politica, le band più popolari, quei tre o quattro scrittori che ci piacciono, un tg nazionale, una squadra del cuore, quello che ci compete per lavoro, un film o un telefilm ogni tanto. Il mio sogno è svuotare la cache, come faccio sul mio PC. Cancellare foto, cronologia, cookie. Liberare spazio e sentirmi finalmente più a mio agio nella vita.

dududu

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Christian mi ha chiesto se non esista una festa dell’uomo. Gli ho risposto, tra il serio e il faceto, che la festa dell’uomo si celebra più o meno ogni giorno. Anzi, si celebra ogni ora a partire dal momento in cui tua mamma ti sveglia, ti prepara la colazione, ti dispone sul letto i vestiti che ti ha stirato lo scorso weekend, ti aiuta a mettere sulle spalle la cartella che molto probabilmente ti ha preparato lei, ti accompagna a scuola e, chiusi i cancelli, mette in moto l’auto per iniziare la sua seconda giornata di lavoro compressa in una, che lascerà a sera per cominciare la terza e così via, a seconda delle possibilità economiche e delle condizioni di ciascuna. E, già che c’ero, ho banalizzato ancora un po’ la questione ma, sapete, i bambini, veri paladini del pensiero letterale, non se la cavano molto bene con l’ironia e tanto meno con le metafore. Ho detto che se al posto di Putin e di quell’altro ci fossero due donne di certo non ci sarebbe una guerra in corso e di pensarci, quando lui e i suoi amici si superano e si danno gli spintoni in fila per il bagno e tutte le altre volte in cui cercano di risolvere le cose con la prevaricazione e non con il dialogo. Poi ho guardato le mie alunne – ho una smaccata preferenza per loro, ma non lo dico a nessuno – e ho cercato di immaginare un posto dove incontrarle insieme a tutte le altre donne che conosco, del presente e del passato. Mia moglie, mia figlia, mia mamma, le mie nonne, una delle due mie sorelle (l’altra no perché lei e mio cognato mi hanno truffato), le mie zie, le mie amiche, le amiche di mia moglie, le mie colleghe insegnanti, quelle dei lavori precedenti, le insegnanti che ho avuto, perfino le donne con cui ho condiviso storie, relazioni, flirt. Ecco, questa potrebbe essere la cosa che somiglia di più all’idea che ho di festa dell’uomo.

il verso del coyote

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Era già trascorso almeno un quarto d’ora, la formatrice non aveva ancora fatto alcun cenno a ritmo e movimento a tempo sulla musica e mi stavo spazientendo. La cosa mi sembrava troppo strana e, trattandosi di un corso pensato per migliorare l’approccio educativo con gli alunni diversamente abili, ho cercato di convincermi che l’insegnante di danza che ci stava presentando il suo modulo intendesse sottolineare che, in una visione di Universal Design in cui occorre progettare la didattica per tutti in partenza già inclusiva, una disciplina basata sull’ascolto e sul ballo dovesse cambiare paradigmi a favore di sordi, ciechi o persone con difficoltà motorie. Una specie di silent disco al contrario, non so se mi spiego. (Una nota per i paladini del politically correct. So per certo che i sordi preferiscono essere chiamati sordi. I ciechi non lo so, ma vado per analogia. Ma torniamo al corso).

Le ho rivolto la domanda e sorprendentemente i miei sospetti sono risultati infondati. Semplicemente non ci era ancora arrivata. Ho tirato un sospiro di sollievo, perché la consapevolezza di essere fuori posto poteva essere frutto di quella rigidità a cui siamo destinati tutti, quando cominciamo a essere anziani. C’era però un precedente e risaliva a dieci minuti prima. Alla domanda “che cos’è per te la danza”, con cui la formatrice aveva esordito presentandosi ai partecipanti al corso, la risposta che mi ero dato non si riferiva a concetti come armonia o libertà di espressione e tutte le altre minchiate che i colleghi scrivevano sulla chat di Zoom. Danza e ritmo, per non parlare di danza e musica, sono inscindibilmente legate.

E, se non lo avete ancora capito, il mio punto di vista è ancora più radicale: senza la musica non esisterebbe proprio, la danza. E pensate a quante sono tutte le cose di cui dovremmo fare a meno in un mondo senza suoni strutturati. Perché le onde del mare, il battito del cuore e tutte le altre forme musicali naturali e ricorsive che ci circondano sono belle e tutto quanto ma non è che possiamo ascoltare tutta la vita dei dischi con la pioggia e il vento e le cascate del ruscello e gli uccellini. Alla lunga la natura da sola rompe i maroni ed è per questo che hanno inventato le chitarre elettriche e i sintetizzatori.

In questa visione, in cui la musica è alla base della vita, è straordinario quanto l’insegnamento dell’arte musicale nella scuola passi in secondo piano persino rispetto a cose come le proiezioni ortogonali, i sumeri, le proprietà delle operazioni (che nessuno utilizzerà mai nella vita), certa letteratura del seicento, il quadro svedese e persino i muschi e i licheni. Alle superiori si studia la storia dell’arte senza nemmeno specificare che è l’arte visiva quella che si studia, dando per scontato che l’arte sono solo pareti e tele imbrattate, e in cinque anni non c’è nemmeno l’ombra di una lezione di musica, di storia della musica, di guida all’ascolto. Non pretendo certo si parli di Stravinsky, di Bruno Maderna, di Orlando di Lasso, dei Massive Attack. Ma Bach, dio santo. Miles Davis. Ennio Morricone. Perché al liceo ci sono due ore di storia dell’arte visiva alla settimana e nemmeno uno straccio di lezione di storia della musica? Che cosa ha in meno al musica rispetto alla letteratura, all’informatica, allo sport? Che male vi ha fatto, la musica? Troppo difficile per essere un argomento di cui parlare? Troppo complesso per esser preparati a farlo?

Non è certo per coincidenza che, la sera stessa, sono andato a vedere al cinema il film dedicato al maestro Morricone, diretto da Tornatore e prodotto, pensate un po’, da Wong Kar Wai, per sincerarmi e appurare che si tratti di una vera e propria agiografia della musica e ritrovare un po’ di serenità.

Perché Ennio Morricone è un sacerdote, più che un profeta, della musica. Il film su Morricone ci fa capire il primato della musica su tutte le altre arti e già vi vedo tutti ad alzare il dito per interrompermi e dire la vostra per sostenere che non è una gara, non c’è un’arte migliore dell’altra ed è tutto molto bello. Mi spiace per voi ma non è così. Ci sono pittori pazzeschi che interpretano con la loro disciplina e le loro tecniche la realtà. Fotografi che riproducono quello che vedono in una maniera che lascia senza fiato. Registi che ti portano in una dimensione parallela.

A differenza di tutto questo, la musica inventa qualcosa che prima non c’era, ed è una cosa che possiamo fare con la voce o, se ci mettiamo studio e abnegazione, con uno strumento. Non avete idea del lavoro che c’è dietro. Morricone è stato un compositore con una preparazione sorprendente che ha messo la sua dimestichezza con la composizione e l’esecuzione al servizio della sua sensibilità artistica, dando vita a entità e organismi che prima non esistevano nel mondo che abitiamo. E lui, come altri musicisti che sembrano davvero di un altro pianeta, lo ha fatto in un modo che non ha precedenti. Ci sono diversi aspetti, nel film di Tornatore, e quindi nella vita e nella carriera di Morricone, che meritano di essere ricordati. Ne cito solo alcuni per non spoilerare troppo e non togliervi il piacere del film.

Intanto Morricone ha inventato l’arrangiamento. I suoi ricami armonici e melodici hanno conferito alle canzonette degli anni sessanta una dignità che oggi i più preparati producer nemmeno si sognano. Poi, se siete come me appassionati dell’estetica di quel periodo, pensate all’influenza che ha avuto con le sue trovate stilistiche. E infine il rapporto stretto con il video, che ai tempi si chiamava cinema e che adesso non esiste più, se non nei film come quello di Tornatore che parlano del cinema che ora non esiste più. Accostare musica a immagini è una pratica difficilissima perché comporta una doppia traduzione, una sorta di commento in tempo reale di ciò che si vede con l’aggiunta di un interprete che trasforma il tutto in una lingua straniera per essere comprensibile, assimilato e digerito fino a spingersi in profondità nella sensibilità del destinatario. Una pluralità di piani di significati e significanti, di codifica e decodifica di messaggi che non ha paragoni. Andate al cinema a vedere il film su Morricone. Ne uscire convinti che il musicista è un essere superiore, e che di tutti quelli che si sono avvicendati negli ultimi tempi Morricone forse è stato il più superiore di tutti.

sedici

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Se mio papà oggi fosse vivo guiderebbe una Dacia Duster alimentata gpl. Anziché andare in pensione aveva accettato una consulenza in un’azienda che aveva lo stabilimento in un paesino dell’Appennino. Questa era la motivazione ufficiale che rilasciava a chi gli chiedeva perché, in concomitanza con il nuovo lavoro, avesse cambiato auto acquistando un fuoristrada 4×4. Raggiungere l’ufficio con le strade innevate poteva essere rischioso per una berlina. Il fatto è che l’unico modello che si era potuto permettere era la Lada Niva, una specie di Fiat 127 rialzata con le ruote da pick-up, la perfetta sintesi tra sobrietà sovietica e tracotanza a stelle e strisce, il punto di incontro a motore tra NATO e Patto di Varsavia. Il muro era appena crollato rovinando con le sue macerie su quello che rimaneva del comunismo, ma quella di mio padre non era una scelta ideologica – era tutt’altro che di sinistra – piuttosto dettata unicamente dal budget a disposizione. Ma il punto non è quello. Alla base di quell’acquisto c’era l’idea di percorrere senza rischi la strada sterrata in salita che portava alla nostra casa di campagna dove lui, almeno due volte la settimana, andava per curare l’orto. La Lada Niva era rosso scuro ed era stata dotata di un impianto gpl, giusto per aggiungere complicazioni a un veicolo già di per sé non semplice. Mia mamma, per salirci, doveva essere spinta da dietro. Le istruzioni e le scritte sulla plancia del cambio erano in cirillico. L’abitacolo sembrava una capsula per i viaggi spazio-temporali, con un’unica destinazione: l’est Europa degli anni settanta. Non se ne vedevano molte in giro, se non tra i pastori e i contadini. Quando poi non è stato più in grado di guidarla, per età e problemi di salute, mio papà mi aveva proposto di tenerla e io, per non offenderlo dicendo che un po’ me ne sarei vergognato, ho rifiutato sostenendo che un’auto in più, in famiglia, non potevamo permettercela. Così l’ha venduta, anzi, regalata a un collezionista di cimeli a quattro ruote. Negli ultimi anni la teneva sempre parcheggiata sotto casa, tanto che era stata persino immortalata da Google Street View e devo avere uno screen shot, da qualche parte. Ora però non se ne vedono davvero più, e le voci che girano secondo cui sta per essere di nuovo messa in commercio sono solo clickbait da quattro soldi. La linea della nuova versione non c’entra niente con quella che intendo io e poi, di questi tempi, è meglio lasciare i russi a casa loro. Così, quando per strada vedo una Dacia Duster, e se ne vedono tantissime perché se ne vendono tantissime, visto il costo alla portata di tutti, penso che se mio papà fosse vivo avrebbe quella macchina lì.