telemedicina

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Molte delle esperienze con i medici famiglia confermano il gap tra i dottori di una volta e i professionisti di nuova generazione. Il fatto è che quando le opinioni – siamo pur sempre nell’ambito delle chiacchiere da bar o, come si dice oggi, da social network – si assomigliano tutte e provengono da contesti diversi, il sentito dire può essere ricondotto al sottoinsieme delle cosiddette leggende metropolitane, anche se ci sono casi in grado di riservare sorprese: pensate a quando tutti dicevano che i socialisti erano ladri e poi si è scoperto che, un fondo di verità, c’era. Anche io conoscevo personalmente un socialista che è stato accusato di prendere tangenti, allo stesso modo in cui l’infallibilità del medico condotto che ha seguito la mia famiglia, dai miei bisnonni fino a me, almeno sino alla pensione, era fuori discussione. Mia nonna, nei casi più seri, gli portava confetture preparate in casa e barattoli di funghi sott’olio, una consuetudine così diffusa tanto da averla ritrovata a centinaia di km di distanza, quando mia suocera preparava i biscotti da donare al suo dottore di fiducia in occasione delle visite più delicate. In entrambi i casi si tratta di medici che hanno cessato la loro attività solo perché le forze non glielo permettevano più, sostituiti da due omologhi di nuova generazione. Il primo, che ha preso in carico i miei genitori, ha una seconda attività di medicina alternativa e cerca di intercettare i pazienti per dirottarli verso il suo studio privato. Il secondo, il mio attuale medico generico, non è male ma i nostalgici del dottore che l’ha preceduto sostengono che sia tutto un altro paio di maniche. È facile notare la sua passione perché, nel suo studio, ci sono centinaia di fumetti sistemati un po’ alla rinfusa. Gli ho chiesto che tipo di collezionista sia e mi ha risposto di rientrare nella categoria di quelli per i quali l’hobby rischia di costituire un’aggravante nel caso dovesse divorziare. Gli albi non gli stanno più in casa e così, per tagliar corto con la moglie che non ne può più di avere stanze invase da letteratura per ragazzi, se li porta al lavoro. Gli ho manifestato tutta la mia solidarietà: mi trovo al quinto ripiano della libreria in sala ricolmo di dischi e temo che, prima o poi, dovrò prendere in mano la situazione. Quando, con la mia famiglia, ci siamo accreditati a lui attraverso il fascicolo sanitario, al momento del passaggio di consegne dal medico che lo ha preceduto e che a detta di tutti non è stato mai rimpianto abbastanza, ho notato che aveva già a carico più di mille persone. Mi sono chiesto come sia possibile gestire una mole di pazienti così vasta. Non lo biasimo, quindi, se non riconosce la mia voce quando lo chiamo. Ci sentiamo ogni due mesi, quando gli telefono per avere la ricetta delle pastiglie per la pressione. Non so mai come esordire nella conversazione perché, limitando le telefonate esclusivamente in orari dedicati, è chiaro che lo sto contattando perché ho bisogno di una sua consulenza. Se vado subito al sodo mi chiede il nome per poter procedere. Se parto invece con un formale “buongiorno dottore, sono pinco pallino” mi sembra invece un approccio inutile, giacché me lo immagino pensare “e chi cazzo è pinco pallino”. Così ho trovato una formula completa che riduce i convenevoli ai minimi termini ed è efficacissima. “Buongiorno dottore, sono pinco pallino, un suo paziente. La chiamo perché ho bisogno della ricetta del valsartan 160”. Senza che proferisca alcuna risposta, sento solo il suo respiro e, sullo sfondo, l’inconfondibile rumore delle dita sulla tastiera di un pc. Nel giro di qualche secondo, sento la vibrazione nel mio smartphone, a conferma della ricezione via sms della ricetta digitale. Mi chiede se l’operazione è andata a buon fine e gli rispondo che è tutto ok. Uno scambio di pochi secondi in cui però sono sicuro che entrambi percepiamo quel tipo di entusiasmo che si prova quando la tecnologia fa il suo mestiere e che è unico per questo genere di soddisfazioni. Una transazione da una manciata di bit che riduce ai minimi termini la relazione umana. Io sorrido, pensando al progresso che ci ha permesso di evolvere dai funghi sott’olio e i biscotti fatti a mano a un paio di clic. E sono convinto che il dottore, contemplando in quei pochi istanti di attesa le sue pareti colme di fumetti, faccia lo stesso, prima di riagganciare nell’attesa della chiamata di un altro paziente.

omosapiens

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Oggi alla radio ascoltavo il presentatore di una trasmissione della mattina prendere amorevolmente in giro il proprio marito perché si addormenta spesso davanti ai film in tv appena dopo i titoli di testa. Mi ha fatto venire in mente tutte le volte in cui dico che mi piacerebbe avere una moglie uomo e una figlia maschio. Questo mi metterebbe al riparo da cose come trascorrere pomeriggi nel fine settimana all’Ikea per comprare due candele profumate, mi eviterebbe l’esperienza un doppio pre-ciclo o, nel peggiore dei casi, simultaneo, mi consentirebbe di passare le serate a bere birra ascoltando tutti insieme “Discipline” dei King Crimson e, in genere, le telefonate sarebbero sempre brevi.

Poi ho riflettuto sul fatto che vivere con un doppione di sé potrebbe avere risvolti poco sostenibili. Saremmo in due a russare, a non vedere le cose nei cassetti, a sporcare di dentifricio lo specchio del bagno. Ci daremmo in continuazione lezioni reciproche sul modo più efficace di fare le cose, nessuno dei due avrebbe amici da frequentare nel tempo libero, ed entrambi non riusciremmo a fare più di una cosa per volta, con il risultato di non essere in grado di fare più di due cose alla volta, in coppia. Le vacanze sarebbero organizzate alla carlona e nessuno si soffermerebbe più di un minuto sull’ennesima replica in tv de “I ponti di Madison County” dinanzi alla quale, comunque, entrambi ci addormenteremmo appena dopo i titoli di testa.

trabiccoli

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Se siete affetti dall’ostalgia, questi non sono certo i tempi migliori per scriverlo da qualche parte, a meno di voler dichiarare che si tratta di una storia chiusa. Ormai è una passione che è meglio coltivare nel segreto delle vostre case, magari davanti alla tv per seguire programmi come “Le automobili d’oltrecortina”, andato in onda ieri pomeriggio sul mio canale preferito, che è Rai Storia. A chi, come me, non mastica la lingua tedesca, resta il dubbio senza risposta se ci sia qualche analogia etimologica tra Trabant e trabiccolo, e perdonate l’allitterazione degna dei trentatré trentini trotterellanti verso Trento. Al netto delle tessere della FGCI, da non confondere con la FIGC, l’organizzazione che si contendeva, con quella rossa delle due, i giovani quando ero giovane io, il mio è un puro e ingenuo invaghimento estetico. Pensate solo se fossimo costretti ad attendere anni dal momento in cui prenoti una macchina al giorno in cui puoi passare a ritirarla in concessionaria. Ma forse quello che stiamo vivendo non è nemmeno il momento adatto per paragoni di questo tipo, giacché ho sentito di dodici mesi di attesa per una Tesla. E mentre oggi questo succede per tutti i blocchi commerciali dovuti alla straordinaria combo covid+guerra mondiale,  ai tempi dell’Unione Sovietica era la prassi. Il documentario di cui consiglio la visione trasmette l’affetto irrazionale del genere umano per i veicoli semoventi soprattutto quando è difficile procurarsene uno, che va letto – a mio modesto parere – come l’innato piacere che si prova nello spostarsi portando con sé parti della propria vita stanziale. Insomma, a qualunque longitudine siamo figli delle popolazioni nomadi non certo per volontà propria, costrette da mutamenti ambientali e climatici o, nel peggiore dei casi, da altre popolazioni a loro volta in cerca di un posto al sole ma più forti e agguerrite, a muovere le tende altrove. Un istinto che sfoghiamo al volante. A me piace viaggiare in auto ma solo perché anch’io l’ho appena cambiata, e sono consapevole del fatto che, quando la mia nuova Suzuki avrà l’età della Opel che ha appena soppiantato, tornerò a sposare la causa della sedentarietà, dello stare sul divano ad ascoltare dischi, dello schifare le code in autostrada. Buon viaggio.

in esametri

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La mia maestra poteva sfoggiare uno dei nomi più belli in circolazione. Si chiamava Iside e, se non ricordo male, trascorreva con noi quattro ore ogni mattina per sei giorni ogni settimana. Oramai è passata un’eternità, malgrado questo sono certo che si facesse carico dell’insegnamento di tutte le materie, a tempo pieno. Quello del maestro unico è un modello insostenibile, con i tempi che corrono. Eppure, io che ho accettato di occuparmi dell’area logico-matematica dato che era l’unico posto disponibile, vivo con il costante rammarico di lasciare ad altri il compito di forgiare le coscienze letterarie dei miei bambini. La collega con cui condivido la mia terza è molto poco flessibile su tutti i fronti. Questo mi fa desistere dal tentativo di proporle una gestione della didattica diffusa e mista. Sarebbe bello se, per ogni materia, facessimo un po’ lei e un po’ io a seconda degli argomenti. O, ancora meglio, se si potesse procedere con le pluripremiate unità didattiche che raccolgono stralci di ogni bendidio di discipline diverse. Sai come si divertirebbero i bambini a passare da una materia a un’altra con la scusa di trattare argomenti che necessitano di un approccio disruptive. Ma questo non è possibile e non può rientrare nei piani programmatrici di una scuola molto old fashioned. La collega si occupa di italiano, storia, geografia e motoria, io dei miei compartimenti stagni in cui sono conservati singolarmente i kit di matematica, scienze, inglese, arte, musica, tecnologia. Inutile dire che è un peccato ma non perché io sia Gianni Rodari. Solo che qualche volta mi piacerebbe uscire dai canoni e leggere qualche poesia, raccontare qualche storia, presentare tutti gli stili narrativi che conosco, far scrivere i miei alunni e, perché no, registrare podcast. Nessuno mi vieta di farlo ma poi, malgrado le più buone intenzioni, desisto dall’idea. Mia moglie lavora in biblioteca e capita che mi porti a casa dei libri per bambini, io li porto a scuola ma mi dimentico persino di averli nello zaino, sopraffatto come sono dalle equivalenze e dai poligoni regolari. Oggi, a proposito di geometria, mentre correggevo un’attività dedicata proprio al ripasso di figure piane, angoli e lati, anziché scrivere “esagono” sulla LIM ho scritto “esametro”. Ed è stato subito #tityretupatulaerecubanssubtegminefagi

il sole in faccia

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Tra colleghi ci siamo divisi il giardino in modo da trascorrere l’intervallo evitando contatti pericolosi già molto tempo prima del Covid. Le prime hanno l’area con i giochi, anche se da quando c’è la pandemia non si possono toccare. Le seconde sono poco più avanti, quinte e quarte ai lati opposti della mini-pista di atletica e a noi delle terze – non chiedetemi il perché – è toccata la parte migliore, quella con il campetto da basket e il boschetto in miniatura con gli aceri e i pini.

Le macro-zone dedicate alle interclassi sono state quindi spartite ulteriormente per sezione per evitare che le bolle si mescolino, e a questo giro a noi della terza B non è andata benissimo. La coordinatrice della terza C è piuttosto autoritaria. Oltre a fare la docente si presta alle attività di animazione per l’oratorio locale e comunica nel gruppo di Whatsapp usando i punti elenco numerati per dirci le cose da fare. Sin dal primo mese della prima si è presa la briga di tenere per sé metà del campetto ma non per il lato corto, in modo da lasciare un canestro a testa. Vedi arrivare la sua classe preceduta dagli apri-fila con le mani piene di cinesini colorati. Erik, il mio alunno cinese, rimane perplesso quando li sente chiamare così. Nonostante questo, quelli della terza C Li posizionano per il lato lungo, da un canestro all’altro, stroncando tutte le funzionalità per il quale quel campo è stato pensato. Loro si piazzano di qua, dalla parte con la gradinata, e noi dobbiamo metterci di là, sul lato delle panchine. La scusa ufficiale è che il loro asperger a funzionamento zero ha bisogno di correre tutto il tempo e, con questo allestimento, può sfruttare un percorso efficace a muoversi da una partenza a un arrivo – guai a cambiargli la routine – in modo soddisfacente e utile a farlo stancare.

Scendono sempre dopo di noi. Prima che i guastafeste arrivino, io ne approfitto per sedermi sulle gradinate mentre i miei bambini si godono il campo da basket nella sua interezza. Da lì posso controllare che nessuno faccia cose non autorizzate con il sole in faccia. Erik ed io ce ne stiamo seduti mentre i maschi giocano a calcio con qualsiasi cosa rotoli e le bambine fanno le ruote. Sollevo la testa verso i raggi per assorbire meglio il calore e chiudo gli occhi. Erik mi fa le solite domande – cosa ho mangiato la sera prima, come si dicono certe parole in inglese, che ore sono perché aspetta solo di rientrare in classe- e io gli rispondo a memoria mentre sento il tessuto della maglia scaldarsi e il resto del corpo che si ricarica come se fossi uno smartphone collegato alla corrente. A lui non piace stare in giardino. Non ama l’intervallo. Non vuole giocare con nessuno e trascorre il tempo con me. Chiacchieriamo e facciamo insieme qualche gioco finché non mi avvisa appena vede la fila della terza C che si avvicina.

Così rientriamo nel settore di nostra pertinenza, nel quale devo accontentarmi delle panchine che, anch’esse rivolte verso il campo, hanno il sole alle spalle. Peccato, perché quando arriva la primavera o se ci sono le belle giornate stare seduto sulle gradinate è bellissimo. Non sono solo i miei alunni – a parte Erik – che vorrebbero rimanere sempre fuori, non rientrare più ai loro banchi. Invece, quando mi sposto sul lato delle panchine, il divario è incolmabile. Provo a sedermi ma l’aria fresca sulla pelle che si è scaldata, ora che il sole è alle spalle, si sente il doppio. L’estate è ancora lontana e così preferisco stare in piedi. Non mi sento più a mio agio, mi sembra di sprecare il tempo che passiamo all’aperto e – proprio come Erik – mi metto a contare i minuti che mi separano dalla fine dell’intervallo.

loading…

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Cercavo un modo per capire quando i bambini terminano una di quelle attività che chiedo di svolgere individualmente e che poi correggiamo insieme alla lim. Dicevo “quando avete finito alzate la mano” ma è un sistema che fa acqua da tutte le parti. Il solito Francesco ci mette trenta secondi, seguito di poco da Lucia, Laura e Davide, a ruota gli altri con scarti che variano a seconda dell’esercizio nei minuti successivi, con il risultato che in molti sono costretti a restare con il braccio sollevato per un quarto d’ora nell’attesa degli altri, e praticamente tutti devono aspettare Martina che non sai mai su che pianeta viva, quando rientri sulla Terra, e una volta tra noi prenda la penna o la matita dall’astuccio, trovi la pagina sul libro, chieda una seconda spiegazione e infine si metta al lavoro che, nove volte su dieci, non sa come svolgere.

Così mi sono inventato il prontometro. Ho preso una striscia di cartoncino di buona grammatura, l’ho piegata per il lato lungo a formare un cavaliere da tavolo. Poi ho fatto preparare a ogni bambino due scritte su un foglio. La prima dice “Ready!” e ho chiesto di farla a pennarello in doppietto colorato di verde. La seconda dice “Loading…” ed è rossa come le spie dei dispositivi in stand-by. I bambini le hanno incollate sui due lati e il funzionamento è stato chiaro sin dall’inizio. Mentre lavorano rivolgono la faccia “Loading…” verso di me. Non appena hanno finito ruotano il prontometro e così, quando su ogni banco si accende il verde, capisco che posso andare avanti.

Il prontometro è stato accolto con entusiasmo perché risparmia ai bambini la fatica di stare con la mano alzata ma, come è facile immaginare, non ha risolto il problema più grosso. Quello di Martina segna sempre rosso e mi ricorda involontariamente gli aggiornamenti Windows o la visione dei video su Youtube a scuola, con la rete divisa tra venti classi che la utilizzano simultaneamente. Fa sorridere perché il suo è un “Loading…” vero ma di quelli con il server spento, Internet scollegata, l’hard disk surriscaldato, la ventola impazzita, il sistema operativo bloccato, il software crashato.

Le scorciatoie per riavviare sono diverse. Le propongo di svolgere l’attività insieme perché so che, se la seguo passo passo, anzi meno, bit dopo bit, da qualche parte riusciamo a muovere la situazione di stallo. Questa è la scuola inclusiva. Ma gli altri? Allora, altre volte le do ancora del tempo ma poi so che la classe si spazientisce e non voglio che diventi lo zimbello e, comunque, se non ci è riuscita prima anche nei tempi supplementari non cava un ragno dal buco. È così dalla prima ma adesso sono grandi e i compagni hanno capito che c’è qualcosa che non va. Allora taglio corto, come quando spegni il pc tenendo premuto a lungo il pulsante di on/off e poi smonti persino la memoria dallo slot sul retro. Le dico di girare il prontometro sul verde e di copiare la soluzione dalla lavagna.

Il suo è un “loading…” perenne, una rotellina che si impalla e gira senza sosta. Il fatto è che al momento non è certificata e, senza sostegno, non si va da nessuna parte. A volte mi chiedo Martina e tutti quelli come lei, quelli nel limbo che confina con DSA e DVA, dove devono stare. In un gruppo ristretto di martine, con un insegnante che le segue sino allo sfinimento, non sarebbe più proficuo?

Gomma – Zombie Cowboys

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“Zombie Cowboys”, pensato e rifinito in piena pandemia, non è un diario da lockdown come tutti gli altri. Con il nuovo disco, i Gomma diventano grandi.

Il basso è il messia. Questo sostiene un meme in voga tra le community social di musicisti boomer. Si vede una rappresentazione sacra con Gesù Cristo in persona, la cui didascalia lo riconduce appunto allo strumento a quattro corde, e una parte del suo entourage che, conformemente alla disposizione nello spazio dipinto, impersona gli altri strumenti e la loro gerarchia all’interno di una band.

In realtà, l’autore di questa facezia – un bassista, ça va sans dire – si è dato la zappa sui piedi. Non serve certo frequentare l’oratorio per dimostrare che, se c’è di mezzo il figlio di Dio, ci dev’essere per forza il padre, sopra di lui. E, se parliamo di rock, è fuori discussione che l’entità suprema in questione sia la chitarra elettrica. Ai credenti resta la libertà di scegliere se preferire la versione vendicativa del vecchio testamento o un padre meno intransigente – ma non per questo poco autorevole – del nuovo. La differenza, come potete immaginare, sta tutta nel modo in cui la si usa, la chitarra. I suoni cattivi e violenti del metal costituiscono un forte richiamo per i chitarristi che inseguono il sogno di annegare nella saturazione la loro rabbia repressa. Non è facile incanalare invece l’aggressività ricorrendo a suoni mai completamente sporchi. Ci vuole una certa raffinatezza, intelligenza e una straordinaria dose di autocontrollo.

Pensate, per esempio, se Giovanni, e mi riferisco non all’evangelista ma al chitarrista dei Gomma, si fosse lasciato abbacinare dal compiacimento di accompagnare le sue composizioni con pennate tipicamente hard rock e potenti mandate di distorsore. In questo caso, probabilmente Zombie Cowboys sarebbe stato l’ennesimo figlio della tradizione anni novanta e di tutti i suoi ibridi punk-grunge.

Invece una delle cose straordinarie di questo disco è il perfetto equilibrio in cui la musica si muove sul filo del rasoio, senza mai nulla concedere alla banalità rockettara da tanto al mucchio. L’impegno a riferirsi a un movimento che comprende gruppi come i Dry Cleaning, gli Squid o i Protomartyr – secondo quanto la band casertana ha dichiarato in un’intervista a RollingStone – sarebbe rimasto solo sulla carta. E, soprattutto, non saremmo qui a parlare di “Zombie Cowboys” come una delle cose migliori uscite dalla disperazione post-pandemia, in Italia. Almeno non io.

Ma non è tutto. Non ci vuole molto per prevedere che, delle conseguenze degli ultimi due anni sui più giovani, ce ne accorgeremo tra qualche tempo. Ma già ora che il Covid-19 sembra agli sgoccioli possiamo dedicare all’arte che i ragazzi hanno prodotto isolati nelle loro camerette l’attenzione che merita. A posteriori ci riferiremo a uno stile trasversale a sé che, almeno in musica, riunisce tutti i generi e consegna al pubblico opere nate dall’urgenza dettata da un disagio mai raggiunto prima, per noi che viviamo da questa parte del mondo. Altro che bonus psicologo. Ma se possiamo permetterci di cercare qualcosa di positivo da questa esperienza – consapevoli che ne avremmo volentieri fatto a meno – converrete con me che è in momenti complessi come questo e segnati dalla tensione che possono nascere cose di valore.

Non avevo mai sentito parlare dei Gomma prima d’ora ma non dovete biasimarmi. Ho 55 anni e non compravo dischi di musica italiana riconducibili al rock italiano, nel senso di chitarre elettriche protagoniste, voci sfrontate e testi pienamente comprensibili, dai tempi di “A sangue freddo” del Teatro degli Orrori.

Poi qualche tempo fa gli algoritmi di Facebook hanno incrociato il mio profilo con il video di “Sentenze”, ottava traccia di “Zombie Cowboys”. Ho avviato la riproduzione e la musica mi ha sorpreso immediatamente – se vogliamo dare delle coordinate siamo da quelle parti in cui si mescolano post-punk e stoner rock – ma, per una volta, concentrarmi sulle parole mi ha fatto sentire in perfetto target. Il brano giusto al momento giusto. Il genere rientrava pienamente nei miei standard ma c’era una voce che sembrava parlare di me. Parlava dei vecchi, diceva che “il viaggio è finito” e che “è finito anche il gusto di sputare sentenze”. Ho deciso di andare a più a fondo ed è stata una scelta premiante perché mi sono trovato al cospetto di un disco inatteso e sbalorditivo e che ho acquistato – in vinile bianco, una vera chicca anche sotto il profilo meramente estetico – senza pensarci due volte. Ma la storia dei Gomma e la genesi di questo album impongono qualche riflessione in più.

Possiamo innanzitutto parlare di “Zombie Cowboys” a partire dal ruolo che ricopre rispetto alla loro discografia, che grazie a questo disco ho scoperto a ritroso. Il percorso di definizione e assestamento della loro personalità artistica, mi riferisco ai lineamenti già induriti con la pubblicazione di “Sacrosanto”, si incrocia con il primo lockdown. Un disco con “pianoforti e archi, nato dalla volontà di sperimentare, di provare a metterci un altro vestito”, come sostengono nella stessa intervista che ho citato prima, viene messo in stand-by dall’evoluzione della pandemia. Ci sono cose più urgenti da comunicare, a partire da un intero sistema messo in ginocchio dalla stessa sua natura globalizzata. Il capitalismo tracima e inghiotte senza pietà economie oltre i propri confini, e non si vede il motivo per cui un virus non debba fare altrettanto. I Gomma rispolverano idee raccolte lungo l’ultimo tour superate dal disco in cantiere, vecchie tracce sulle quali i temi dettati dalla situazione drammatica possono essere organizzati in modo più efficace. Il titolo del concept è eloquente e la foto in copertina è altrettanto didascalica. E questo è il valore che “Zombie Cowboys” riveste in sé. Undici tracce (più un divertissement folk) che alternano aggressività a resa, cattiveria a disperazione, pessimismo a niente. Pessimismo e basta. Si susseguono pezzi-bomba – “Santa pace”, “Mamma Roma”, “Mastroianni” e “Sceriffo”, a canzoni superlative, a partire da “Venezia” e “7”, proprio come i sette quarti della strofa.

Se vogliamo quindi parlare di “Zombie Cowboys” dei Gomma a partire dal ruolo che ha rispetto alla loro discografia, tutti sono certi che sia il disco della loro maturità e a me non resta che allinearmi, perché il Covid ha fatto crescere e diventare adulta una generazione in tutta fretta. Che bisogno c’è di esprimersi in chiave indie pop con questi requisiti. I Gomma, sotto il profilo musicale, sembrano non avere peli sulla lingua. Pane al pane, vino al vino e, come sottolineano anche loro, una volta qui era tutta campagna.

upgrade

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Sostiene Wikipedia che “attorno alla metà del VI secolo a.C., in età serviana, si calcola che Roma possedesse già una popolazione di almeno 30mila abitanti che ne facevano uno dei più importanti centri della regione etrusco-laziale”.

Un numero decisamente importante ma che, dall’alto dei nostri otto miliardi di esseri umani viventi simultaneamente su questo pianeta, fa sorridere. Se facciamo due calcoli a ritroso probabilmente quelle tribù di selvaggi che non andavano tanto per il sottile ai tempi delle origini di Roma – come abbiamo avuto modo di verificare nelle recenti trasposizioni televisive e cinematografiche delle origini della città eterna – erano composte da poco più che una manciata di persone. Ne deriva che quando si incontravano nei boschi per darsele di santa ragione, le percentuali del calo demografico risultavano sensibilmente elevate. A questo si aggiunge che, tra le righe della storia di quei patres in erba, antenati delle gens più nobili, ci sono centinaia di avi di quei plebei che, sono certo, di lì a poco hanno estinto la loro discendenza per motivi meno nobili.

Il punto è che ci vorrebbe una disciplina a metà tra la scienza e la sociologia in grado di studiare quali sono i fattori che permettono agli archetipi di replicarsi e perpetrarsi nei secoli – magari partendo da quei quattro gatti che c’erano in Italia mentre Romolo mandava all’altro mondo suo fratello, come un Putin o uno Zelensky qualsiasi – anche mescolandosi ad altri esemplari per dare vita a tutti quegli incroci che hanno condotto all’attuale sovraffollamento abitativo. Chissà cioè se certi aspetti quali la capacità di stare al mondo, di cavarsela, di prendere dimestichezza con le cose, di mettere in campo qualche espediente per migliorare la propria qualità della vita contano al netto dei grandi eventi storici, oltre alla violenza, alla legge del più forte e alla prevaricazione. Il punto è che se c’è stata una sorta di selezione naturale oggi dovremmo essere tutti belli, probabilmente biondi, muscolosi, ricchi, intelligenti e scaltri. Una progenie frutto di forza e intelligenza.

Ma proprio quei selvaggi dai quali probabilmente discendiamo avevano già constatato allora che il genere umano avrebbe dovuto fare i conti con quella causa irrazionale a cui si suole attribuire ciò che avviene indipendentemente dalla nostra volontà e, in genere, da un disegno o fine predeterminato, che è poi la definizione che la Treccani dà per il caso. L’idea che abbiamo noi è che ci è stato possibile superare i nostri antenati in civiltà grazie a secoli di cose come umanesimo o illuminismo o rivoluzioni industriali che ci hanno spinto a relegare superstizione e aruspici vecchi e nuovi nei bassifondi dell’oscurantismo. Ma, in realtà, non sappiamo quanto gli antichi fossero fatalisti. Noi, che facciamo tanto i moderni, siamo ancora qui a dividere e classificare la gente a seconda del livello di fortuna da cui è stato baciata, laddove per fortuna (o caso, o destino) intendiamo come ci vanno le cose.

E, per venire al punto, se sei uno molto fortunato quando ti accade qualcosa di brutto lo definisci un incidente di percorso. Se invece le cose brutte si susseguono e costituiscono l’ordinarietà, ti senti uno sfigato ma ormai sei a tuo agio con la tua condizione e non hai pretese. Per esperienza posso confermarvi che a chi è poco fortunato non conviene muoversi con eccessiva disinvoltura nella vita, perché quando le cose sembrano andare bene puoi stare sicuro che arriva prima o poi una batosta o anche una piccola delusione che ti fa mettere in discussione tutta la struttura che ti sei costruito fino a quel momento.

Mi spiace che non ci conosciamo di persona, ma fidatevi quando vi dico che la storia romana è uno dei miei argomenti preferiti, insieme alla letteratura latina. Ho studiato e ristudiato queste cose all’università e passo ore a seguire documentari sui canali di storia della tv digitale. Non leggo libri a proposito perché preferisco di gran lunga i romanzi americani e il tempo da dedicare alla lettura è quello che è, ma vi prometto che, quando sarò in pensione, divorerò anche i saggi.

Quello che mi sfugge, però, è come faccia a non ricordarmi nulla, di queste cose. Venerdì ho trascorso due ore in supplenza in una quinta elementare. L’insegnante che ho sostituito mi ha lasciato qualche attività da svolgere con i ragazzi proprio di storia romana – le lotte tra patrizi e plebei all’inizio dell’epoca repubblicana – e mi sono trovato in grossa difficoltà. E pensare che, poco prima, chiacchierando con una collega di sostegno alla macchinetta del caffè, ci siamo confrontati sulla didattica laboratoriale, sulle opportunità della disposizione della classe a isole per unità didattiche, con i bambini divisi in gruppi a fare materie diverse e costruire manufatti, mentre io sono ancora fermo ad atteggiarmi come Alessandro Barbero e a pensare all’insegnante come un divulgatore quando ai bambini non gliene frega un cazzo.

Eppure ho approcciato questo lavoro con l’idea di fare di tutto per apparire come un innovatore, nel mio piccolo e umile ruolo di maestro elementare, mestiere a cui ho avuto accesso proprio grazie a una botta di quel culo di cui parlavo prima, una svolta in cui mi ha aiutato il caso e che probabilmente mai più si manifesterà in modo così benevolo, sotto il profilo professionale. Meglio di così non posso fare.

Nonostante ciò mi sono presentato lo stesso, qualche giorno fa, al concorso per insegnare italiano, latino e storia alle superiori. Non so se avete letto ma è stata una strage. Quiz a risposta multipla con opzioni complicatissime da decifrare. Se sono stato umiliato dall’esito di questa prova, però, è tutta colpa mia che, come dicevo prima, non mi ricordo un cazzo di quello che mi interessa. Per questo che non capisco come abbia, anche solo per un istante, potuto pensare di essere in grado di insegnare in un liceo. Poco prima della prova ero in una stanza della scuola in cui si teneva il concorso e ho scambiato qualche battuta con gli altri candidati. Il più vecchio aveva vent’anni in meno di me. Ognuno ha condiviso a grandi linee l’esperienza che lo aveva condotto lì, consapevole che – con test di questo tipo – sarebbe stato tempo buttato via. Quando è stato il mio turno, ho chiarito di essere già in ruolo alla primaria. “Sono qui per fare un upgrade”. Ho detto proprio così.

chi ride è fuori

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Dall’audio è facile capire se qualcuno sta guardando una clip tratta da LOL su Youtube. Il programma si riconosce anche senza immagini, a occhi chiusi. Fanno fede le risate sguaiate dei presentatori o le loro note didascaliche a margine di questa o quella gag. Unico è anche il sound design, i suoni che stabiliscono l’inizio o la fine dei giochi, gli scherzi che si attivano premendo vistosi comandi e gli istanti che precedono le eliminazioni dei comici, un vero marchio di fabbrica. Molte delle scene però sono centrate sul linguaggio del corpo dei partecipanti, quindi l’aspetto – passatemi il termine – radiofonico del programma è meno che marginale. Un po’ come l’idea di Lundini di scrivere il libro di Paperissima, utile ad adattare alla lettura gli sketch involontari di cui si nutre il programma Mediaset, raccontare i momenti più esilaranti di LOL o anche solo personalizzare per le conversazioni dal vivo i tormentoni che hanno contribuito al suo successo è controproducente. Nell’epoca dei meme digitali nessuno fa più battute a voce. Ci limitiamo – appunto – ad aggiungere portata comica a quello che postiamo sui social allegando le gif di Virginia Raffaele che imita Marina Abramovich, i balletti e le pose di Lillo o Corrado Guzzanti travestito da uno dei suoi intramontabili personaggi comici. Si tratta di un format di successo e allo stesso tempo indefinibile. Qualche anno fa era di moda l’estrattore – che poi si è scoperto essere poco green, sotto il profilo degli scarti – e le rare volte in cui assemblo i pezzi della macchina per estrarre l’anima della frutta e della verdura che ho a disposizione mi viene in mente LOL perché mi chiedo che bisogno ci sia di spremere così tanta comicità in un solo programma tv. Con gli sketch delle due stagioni ci camperebbero per un anno tutte le emittenti del pianeta. Ne consegue che il telespettatore si perde molto, proprio come nell’estrattore ci sono troppi scarti e il succo che resta da bere è buono ma dal gusto indistinguibile. La spiegazione che mi do è che la comicità è in crisi o, come diciamo al bar con gli amici, sono tempi in cui non c’è proprio un cazzo da ridere. Non che LOL non sia un programma godibile, ci mancherebbe. Il punto è che mi piacerebbe scompisciarmi dalle risate come i due padroni di casa ma non ci riesco. Sorrido, ci sono protagonisti che preferisco ad altri, adoro Guzzanti come tutti voi (mentre invece, per dire, di Capatonda non capisco nulla) eppure sorrido e basta. Per questo ho passato in rassegna la mia vita e mi sono reso conto che LOL non c’entra. Io non rido mai, non rido di gusto da un sacco di tempo e che ci sono solo due situazioni in cui rido perdendo il controllo. Una delle due è Friends, l’altra non posso scriverla.

foyer

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Il nuovo teatro è un vero gioiello di architettura. Il particolare che colpisce di più, all’esterno, è il sistema di specchi che dà sulla piazza e che è orientato in modo tale da riflettere quello che non si vede. La guida ci fa l’esempio della torre, in alto a destra. Ci invita a voltarci dietro e a notare che, da dove siamo, non si vede nessuna torre. Non fa cenno però a un particolare allarmante. Non sono l’unico a cercarsi in quella vasta superficie che sovrasta l’ingresso dell’edificio e a non ritrovarsi. Che fastidio, non vedersi in uno specchio. Mi sale il panico perché potrei essere invisibile o, peggio, non esistere proprio.

La guida è una ragazza di un istituto turistico locale che, insieme a tre sue compagne di classe, ci scorta lungo la visita alla struttura. Si avvicina un volontario del FAI – un anziano umarell della storia dell’arte – che la rimprovera di parlare a bassa voce. “Non sono operatrici specializzate”, sembra scusarsi con noi che ci siamo iscritti all’inaugurazione. La prima cosa che penso è di impegnarmi a non diventare vecchio così. A non incattivirmi con i giovani per invidia, o anche per il fatto di avere sempre meno prospettive davanti, a differenza loro. Si tratta di ragazze prestate alla giornata probabilmente con una formula di alternanza scuola-lavoro e che rientreranno a casa da mamma e papà con qualche brochure e dépliant in ricordo dell’iniziativa e nulla più. Ovvio che non sono specializzate, sono lì per imparare. Stanno studiando per fare quel lavoro lì. Mi viene voglia di sottolineare a quel vecchio presuntuoso che è più costruttivo incoraggiare, almeno io con i miei bambini faccio così. Non sopporto la gente sgarbata. Prima di alzare i toni è sempre meglio provare con la gentilezza. La ragazza comunque sa il fatto suo e si libera dell’inutile pensionato in un modo che solo i ragazzi riescono a fare.

Allora ne approfitto per mettere in fila una serie di cose che vanno dalla guerra al cazzotto di Will Smith, passando per la preside che i giornali mettono in home page solo perché è una storia che riguarda l’erotismo degli operatori scolastici – contenuti che fanno click sin dai tempi della supplente nella classe dei ripetenti e che comunque riflettono certe dinamiche evergreen tra i banchi di scuola (e le cattedre) e che ci segnano per tutta la vita – e non arrivo a nessuna conclusione se non alla prof di arte di mia figlia che, a sessant’anni suonati, ha confessato ai suoi alunni di sentirsi depressa per aver passato tutta la vita a fare l’insegnante senza ottenere alcunché. Un pensiero che mi turba così forte che ho paura che qualcuno se ne accorga. Per questo provo di nuovo a cercarmi nel gigantesco gioco di specchi che sovrasta la piazza, senza successo. Voglio vedere se, sopra la mascherina FFP2, traspare qualcosa. Le provo tutte. Cerco dei punti di riferimento ma non serve a nulla. Vedo della gente riflessa ma io non ci sono. Le guide ci invitano a visitare gli interni ma oramai mi sento altrove. Probabilmente sono già tornato a casa senza accorgermene. La gita al teatro finisce ma non ho capito se sono ancora lì. Passo davanti alle studentesse del turistico, le saluto dicendo loro che hanno dato l’idea di essere preparate e molto professionali. Mi ringraziano, ergo sum.