de vulgari eloquentia

Standard

Come trascorrerò l’estate è una domanda lecita che ci facciamo tutti, più o meno in questo momento dell’anno. Terry G. rientra in questa categoria di persone e in più fa l’autore di libri gialli, oltre a interpretare il ruolo del protagonista di questa vicenda. Dalla sua casa in Idaho prova così a immaginarsi diversi scenari con altrettanti aspiranti scrittori, ciascuno con la sua bella short story in cui dare la risposta a romanzieri fittizi – uno per racconto – costretti a restare a casa nel momento in cui tutti partono per le vacanze e che, per trovare un senso, si inventano una serie di novelle – tutte collegate tra di loro – con un unico obiettivo: il libro dev’essere pronto alla pubblicazione prima che tutto ricominci. Una bella sfida anche per chi si impone cento righe al giorno.

diviso in capitoli

Standard

Come i più banali e ritriti racconti di fantascienza, ho cominciato a scrivere storie nel 2057, all’età di novant’anni, per poi proseguire a ritroso nella vita. Tra i numerosi benefici che ne ho ricavato, com’è facile immaginare, ho trovato mia mamma incinta di me agli sgoccioli prima della maternità, a scartabellare negli archivi della segreteria della vecchia sede del liceo in cui ha lavorato, quegli uffici che poi hanno lasciato il posto al provveditorato. Mia moglie ed io, trentenni, abbiamo ripreso i campeggi in tenda e tutti i riti connessi, con nostra figlia ancora bambina, la vecchia macchina che, a scapito delle prestazioni, può esser riempita all’inverosimile con tutto il necessario per la vacanza, il vento di notte mentre cerchiamo di prendere sonno in tenda ma tutto è troppo, davvero troppo elettrizzante per addormentarsi, complice anche il materassino che si sgonfia. Anche mia suocera, che anche lei è novantenne ma lo è ora, eccola mentre prepara un caffè al bar latteria che gestisce insieme al marito. Insomma, come vedete, non era poi così difficile tenere sotto controllo le cose e raggiungere il fine ultimo dell’umanità intera, quello di cui ci si accorge dopo un bel po’ di inverni sul groppone e che ci fa domandare ok è troppo bello per essere vero, dov’è la fregatura. Prima o poi ci sarà qualcosa da pagare, corretto? E se ci sono riuscito io, chi siete voi per non provarci?

strani sintomi

Standard

Non è scritto da nessuna parte che le canzoni che rimangono nella nostra anima come archetipo emotivo di qualunque cosa – un amore, un sentimento di ribellione, la malinconia, il sentirci invincibili e tutto quello che volete – siano pezzi universalmente individuati come le colonne portanti della nostra cultura. Certo, quando mettiamo a segno qualcosa con successo vorremmo avere un dj universale che fa ascoltare al resto del mondo con un impianto hi-fi in grado di raggiungere tutti gli angoli del creato “We Are The Champions” e cose così, magari abbinato a un video in cui noi vestiamo da re davanti a decine di migliaia di persone a Wembley.

Poi però ognuno di noi ha un repertorio intimo – che magari teniamo alla larga da qualunque istinto di condivisione, la malattia del secolo – fatto di brani da quattro soldi che però, chissà perché, si sono estesi dentro di noi come una macchia di piacere indelebile. Una cosa che poi non sappiamo spiegare a nessuno perché nessun altro, tranne noi, potrebbe capire ma, discutendo di questo, rilancerebbe con la sua, di canzone che gli è rimasta dentro, e che, per noi, non significa altrettanto niente o, nel migliore dei casi, non abbiamo mai sentito.

Dev’essere per questo che, poco fa, mi sono trovato in sogno a casa di Diana Tejera, cantante dei Plastico e autrice di “Strani sintomi”. Se volete qualche coordinata, siamo nel 2001 e il file .mp3 – nel caso migliore – l’avrete salvato nella cartella “one shot” oppure “roba di MTV”. L’avevo rintracciata proprio tramite Facebook, e questo vi assicuro che è successo per davvero, dove ho scoperto che, terminata l’esperienza della band, ha una carriera che prosegue come cantautrice. Nel sogno, invece, visto che mia moglie e mia figlia erano al mare, ho accettato il suo invito a trascorrere un pomeriggio a casa sua in occasione di una sorta di reunion. Il problema era che loro erano ragazzine come ai tempi del video di “Strani sintomi”, malgrado fossero passati ventun anni, per questo sua madre non comprendeva appieno l’interesse di una persona anziana come me per artiste così in erba. A quel happening casalingo per fortuna c’era qualche altro fan affezionato come il sottoscritto, ma non più di una decina di persone intente a consumare patatine e bibite ma tutte desiderose che la band imbracciasse gli strumenti – malgrado la situazione casalinga imponesse rivisitazioni unplugged dei brani – e si mettesse a suonare e cantare la nostra canzone preferita. E, come tutti i sogni migliori, è bastato il primo accordo di chitarra per manifestare tutta la stranezza della scena, destarmi dal sonno e mettere la parola fine al concerto.

tutto intorno

Standard

Milano dà il meglio di sé in estate e in quello che forse erroneamente chiamiamo hinterland, inteso come l’insieme di comuni dell’area metropolitana privi di un’identità locale in quanto nell’orbita del lavoro, delle scuole, degli ospedali e dei servizi culturali della città e che, se vogliamo usare il termine non in lingua italiana più appropriato, dovremmo tradurre con outskirt, i sobborghi. Il paradosso è proprio questo: nel posto dove vivo non c’è niente, ma mi basta spostarmi a Dergano – quartiere periferico a nord-ovest e a cinque minuti da qui – per trovare un’animata comunità e iniziative e ambienti gremiti di gente che vive al meglio il posto in cui abita. Nelle settimane che precedono il consueto esodo agostano, soprattutto nelle sere prefestive e festive, una categoria di persone a sé degna di venire immortalata con foto o scritti come questi è composta da quelli che camminano nei non-luoghi come il mio paese con la stessa noncuranza come se si trovassero a Sestri Levante, a Cervia, a Senigallia o ad Alghero. Sabato sera ho raggiunto un rinomato ristorante greco d’asporto a qualche km da casa mia e, lungo il tragitto, ho notato coppie a spasso, famiglie precedute da bimbe in monopattino, e addirittura un bar aperto su una strada anonima di quartiere dormitorio che aveva allestito un vero e proprio apericena trionfale con un buffet gremito e musica tanto quanto i locali del centro. Mi piace questa reazione allo stare in casa a vedere la nuova stagione di Stranger Things. Ero in auto con mia figlia e ci siamo confrontati su quella realtà ai margini dell’idea che si ha di una metropoli come Milano. A lei piacerebbe fotografare quel genere di circostanze e di umanità, e io non mi sono tirato indietro dal tentativo di spronarla per provarci.

senza rete

Standard

Mia figlia sta per sostenere la maturità. A pranzo parlavamo del senso di sottoporsi a prove in cui si scrive a penna su un foglio e con il divieto di usare Internet. Così, per dimostrarle l’utilità di tutto questo, le ho fatto l’elenco delle professioni ma anche delle situazioni nella vita di tutti i giorni in cui si scrive a penna su carta e non si usa la rete, e che riporto qui di seguito nello stesso ordine in cui mi sono venute in mente:

 

 

 

 

Vero? E voi, prima di commentare, leggete bene:

  • non ho scritto che non si debba insegnare più a scrivere a penna su carta perché, comunque, resta la nostra più personale, intima e immediata arma comunicativa, ci sono gli studi neuropsichiatrici che ne sanciscono il primato e non ho alcun dubbio sul fatto che, scrivere a penna su carta, ci costringa a organizzare ciò che sappiamo in un modo che non ha eguali (la cui utilità, comunque, è sicuramente sacrosanta nel mondo come lo abbiamo conosciuto trent’anni fa e che, siccome è stato perfetto per noi, giochiamo a credere che è ancora tale e quale oggi. Ma, quanto servirà tra cinquant’anni, quando sarà quasi un secolo in cui utilizziamo Internet e un dispositivo per fare qualunque cosa, è tutto da vedere e non ho detto che sia meglio o peggio, sia chiaro);
  • non ho scritto che non bisogna più constatare e valutare le competenze e e le conoscenze dei nostri ragazzi tramite un esame finale al termine di un ciclo di studi. Per verificare se un alunno ha studiato e sa quello che gli abbiamo insegnato resta comunque la possibilità di sottoporlo a un esame orale in cui posso assistere alla soluzione di un calcolo in tempo reale, una traduzione di latino per accertarmi se conosce i meccanismi della grammatica, e mille altri casi specifici per ogni disciplina che si insegna a scuola.

Mi chiedo il senso di una prova scritta a mano su carta e svolta con il divieto di usare Internet, che secondo me è come dire continuiamo a lavorare, leggere e fare le nostre cose solo con la luce del giorno perché c’è il divieto di usare la luce elettrica, oppure scaldiamo il pranzo di ieri con il calore del nostro corpo perché c’è il divieto di accendere i fornelli. Internet è una commodity come l’energia elettrica o il gas o la benzina o qualunque cosa oggi diamo per scontato per fare qualunque cosa. Perché devo sforzarmi a pensare a portare a termine un lavoro, una prova o una qualunque attività facendone a meno, se non per scrivere su Facebook che sono un luddista o che vivo con gli elfi solo come un cane nei boschi dell’Appennino?

Dico solo, e qui lo ribadisco: perché non ci si sforza per pensare a una prova scritta che, per essere portata a termine nel migliore dei modi, renda necessaria la capacità di cercare e trovare le informazioni giuste in Internet, la loro rielaborazione tramite le competenze e le conoscenze degli alunni, il loro confezionamento magari sullo strumento o sulla piattaforma online o offline più adeguata? Il divieto di usare Internet a scuola mette ancora al centro l’antitesi tra scuola e Internet, tra adeguatezza della didattica e vita e società contemporanee, tra giovani e mondo che dovranno abitare, tra teoria e pratica.

 

invalsi

Standard

Non conosco nessuno vecchio come me. Al massimo so di qualcuno che è nato nel 68, un anno dopo, e quando ci confrontiamo sull’età, mosso da quella pietà che ci pervade quando cerchiamo di non far pesare la nostra fortuna sul prossimo – in questo caso la possibilità, almeno sulla carta, di sopravvivere un anno in più – si dice che, anno più anno meno, siamo praticamente coetanei.

Poi so di una nutrita schiera del 72. Gente che ho iniziato a frequentare presto, quando già di quelli vecchi come me non c’era più in giro nessuno. Forse me li sono bruciati proprio allora. Senza che me ne accorgessi erano già spariti nelle loro cose importanti. Gli esami di ingegneria o di medicina, farsi una famiglia, una casa per vivere in autonomia, soprattutto una carriera, una specializzazione post-laurea, una fuga con il loro cervello in paesi in grado di offrire più opportunità. Oggi però inspiegabilmente le persone del 72 sono diventate rarissime, e quando entro in contatto con una di loro mi dico che non mi è andata poi così male. Sono quelli che hanno imparato da soli a sviluppare programmi con i primi rudimentali computer casalinghi e l’informatica, probabilmente se li è portati via in una delle tante silicon valley del nostro continente. Ma li vedo in foto e penso che sono imbolsiti tanto quanto me.

Da allora ho assistito a un proliferare di colleghi nati almeno dieci anni dopo, una cifra tonda che tutto sommato ho sempre ritenuto rassicurante. Non la trovavo poi così particolarmente ostica ed era decisamente molto più facile da spiegare agli altri. Quei dieci anni secchi in meno erano visti addirittura con benevolenza, per non parlare di quella volta di cui sembrava persino opportuno che mi vantassi perché, in ambito avventure amorose, si tratta di una differenza di età poco significativa vista dall’interno – 34 io, 24 lei – ma che, all’esterno, dava adito a una certa autorevolezza. A me certe storie con così ampio scarto però fanno riflettere: da vecchio ti ritroverai un partner ancora giovane e appetibile al tuo fianco, che non ci metterà molto a tornare sui suoi passi.

In questa fase della vita, poi, è meglio non tenere conto delle differenze di età. Sposini che acquistano appartamenti nel tuo palazzo nati quando tu eri già un professionista affermato, per non parlare delle colleghe insegnanti precarie reclutate attraverso le messe a disposizione che nemmeno hanno ancora terminato gli studi e hanno trent’anni in meno e un’età che secondo me è inventata di sana pianta, non saprei dare altre spiegazioni.

Per fortuna, il responsabile di questa catastrofe in grado di mettere a rischio la sopravvivenza del genere umano (e le cose come le abbiamo sempre conosciute) è stato finalmente individuato. C’era un problema di logica, nelle ultime prove invalsi di seconda elementare. Chiedeva:

La differenza di età tra Chiara e sua figlia Giulia è di 30 anni. Fra 20 anni quale sarà la differenza di età tra Chiara e sua figlia Giulia?
A. 10 anni
B. 20 anni
C. 30 anni
D. 40 anni

Nono stati pochi i miei bambini che sono andati in tilt nella risoluzione. Ma i calcoli non c’entrano. La loro strategia, basata sulla errata consapevolezza che papà e mamma vivranno tutta la vita con l’età che hanno ora che loro sono piccoli, si è dimostrata fatale.

Qualcuno di loro ha scardinato un rapporto matematico che è fisso e la conseguente consuetudine anagrafica che, fino a pochi mesi fa, si reiterava presso gli esseri umani da milioni di anni. E oggi ognuno fa quel cazzo che vuole. C’è chi si ferma, chi torna indietro, chi indossa abiti da adolescente pur essendo prossimo alla pensione. Io, come vedete, mi sono limitato a qualche ricerca su Facebook, non saprei come approfittare di questa sorta di condono universale diversamente.

foto di gruppo

Standard

Da qualche mese su Facebook metto like solo a band, artisti, scrittori, magazine culturali, pagine di musei, appassionati di lingua latina, gente che fotografa scavi archeologici, i soliti fanatici degli Etruschi, cose così. Gli amici tanto li vedo comunque, i contatti per caso possono anche passare in secondo piano. Il risultato è che Facebook è molto più vivibile di prima, e dei post riconducibili alle categorie guarda come sono bello, guarda come sono bravo, guarda come sono alternativo, guarda come sono originale, guarda come sono intelligente, guarda come sono brillante non c’è quasi più traccia.

Il problema ora sono i suggerimenti degli algoritmi, quasi tutti fotografici – chissà perché – e quasi tutti recanti immagini con diversi personaggi famosi ritratti insieme pubblicati da pagine che potrebbero interessarmi ma che, per il solo fatto di proporsi, ignoro per principio (dichiarazione che rientra nella categoria guarda come sono alternativo). Per esempio:

– foto che ritrae Keith Haring, Grace Jones, Fela Kuti e Jean-Michel Basquiat
– foto che ritrae Federico Fellini, Isabella Rossellini e Martin Scorsese.
– foto che ritrae Scorsese, Varda e De Niro
– foto che ritrae Siouxsie Sioux, Steve Severin, Robert Smith e Budgie
– foto che ritrae Louis Armstrong e Billie Holiday
– foto che ritrae Ziggy Stardust (cioè Bowie) e Mick Ronson
– foto che ritrae Dave Vanian, Captain Sensible and Joey Ramone
– foto che ritrae Charlie Parker e Miles Davis che suonano al  Three Deuces di New York City nel 1947

Come se una foto di uno di loro da solo, per dire, non potrebbe attrarmi. A volte capitano anche celebrità completamente distanti tra di loro e così ho pensato che sarebbe bello fare foto a personaggi dell’antichità e mescolarli con gente dei nostri tempi. Io mi farei una foto con il poeta latino Orazio, per dire, e prima di congedarmi gli chiederei di recitare e registrare un’ode per verificare se la metrica che uso per leggere è corretta.

l’ultimo giorno degli ultimi giorni

Standard
Pensate un po’ se anche il vostro lavoro, a un certo punto, si interrompesse per poi riprendere a settembre. E non è la solita questione dei tre mesi di ferie degli insegnanti, perché semmai i mesi senza lezioni in classe sono due, e in questi due – al netto del sistemare le cose dell’anno scolastico appena terminato a giugno e di preparare quelle del successivo a settembre – poi, a veder bene, ci sono una quarantina di giorni puliti di vacanza.

Pensate, che ne so, se fate i muratori e periodicamente, ogni anno, vi si chiede di non salire più sui ponteggi per un po’ ma di dedicarvi alla manutenzione del vostro equipaggiamento. Oppure fate i tassisti e poi vi impediscono per qualche mese di mettervi in strada per seguire un corso di aggiornamento sullo stress da traffico in città. Ne so una ancora migliore: avete un negozio e vi si chiede di chiuderlo per mettere ordine alle vostre scartoffie e vi si tiene alla larga dal vostro core business per occuparvi forzatamente di cose di cui non vi importa, vi annoiano, o addirittura non siete capaci a fare perché – che so – siete ottimi panificatori ma se dovete pianificare una campagna marketing delle baguette non sapete da dove iniziare e vi tocca improvvisare.

Gli insegnanti lavorano per nove mesi con le persone, in particolare con una categoria di persone ben precisa e che sta a cuore a tutti voi, fino a quando l’interruttore si spegne e ti ritrovi a vagare per le aule vuote con un caldo porco in bermuda a occuparti di una serie di questioni collaterali che, con la didattica sul campo, c’entrano poco. Dal punto di vista emotivo, essere privati della controparte con cui si esercita una professione – le costruzioni i muratori, le Toyota Corolla station wagon bianche i tassisti, le michette i panettieri, gli alunni i docenti – provoca un contraccolpo mica da poco. Certo, il mondo è pieno di aridi che, ancora con l’eco dell’ultima campanella nelle orecchie, salgono sul primo intercity (prenotato a carnevale) per raggiungere il paesello sul mare senza porsi alcun problema. Voglio dire, la scuola è finita da nemmeno quattro ore e già sono qui al PC a scrivere parole intrise di malinconia mosse dalla realtà dei fatti e cioè che, a dirla tutta, i ragazzi senza la scuola stanno benone. Meglio che in classe con me.

Oggi all’uscita non c’era per nulla l’atmosfera da ultimo giorno, se non per le quinte a cui è stato riservato un cancello dedicato tutto pieno di palloncini e festoni. Nella mia classe l’idillio è stato guastato poche settimane fa da qualche genitore che si è lamentato in modo piuttosto acceso per l’ostinazione con cui facciamo osservare il regolamento anti-Covid in ambiente scolastico. In previsione di un’uscita didattica organizzata a fine maggio, comprensiva dello spostamento a piedi dalla scuola al parco avventura di destinazione, ci è stato chiesto di permettere ai bambini di toglierla. La mia collega ed io ci siamo opposti, naturalmente, visto il regolamento imposto dal ministero e dall’ATS locale (e di conseguenza dalla nostra dirigente).

Un manipolo di genitori esagitati – qualche giorno prima della gita – mi ha espresso le proprie rimostranze cogliendomi di sorpresa all’uscita e, non riuscendo a trasmettere in modo esaustivo l’opportunità delle mie ragioni, mi sono lasciato tentare da un linguaggio piuttosto colorito – c’era qualche bambino che giocherellava nelle vicinanze – trattenendomi però – almeno questa ricercatezza spero sia stata apprezzata – dal bestemmiare. Per farla breve, i rapporti non sono più collaborativi come un tempo. Con un’aggravante: la mattina della foto di classe non ero in servizio e avevo programmato un appuntamento inderogabile. La collega ha ritenuto giusto esimersi dal posare con gli alunni, trovandosi senza di me. Nella foto, quindi, i bambini sono abbandonati a se stessi. Ho quindi l’impressione che questo sciopero dei buoni sentimenti sia stato interpretato come una presa di posizione contro le famiglie e il rispetto dei loro ricordi che verranno. Oggi, smistati i miei bambini ai rispettivi genitori, c’è stato qualche vago e generico augurio di buona estate e nulla di più. Peccato, ci tenevo ad avere un sostanzioso regalo di fine anno, magari un buono Amazon da spendere in dischi.

In più quest’anno ha avuto il suo peso il fatto che è stato l’ultimo giorno di scuola anche per mia figlia, nel senso dell’ultimo giorno degli ultimi giorni, quindi il mio da docente è sceso di priorità. D’ora in poi, basta scuola se non per gli imminenti esami di maturità e quello che succederà dopo, che non conosco ancora e non sa nemmeno lei. Nella vita delle persone – diciamo un’ottantina di anni, se va tutto bene – la porzione che trascorriamo con chi ci ha generato è a dir poco marginale, nell’economia di un’esistenza intera. Non dico sia di poca importanza sul resto, ma si tratta veramente di poco tempo. In questo battito di ciglia i nostri figli li accompagniamo il primo giorno di scuola materna e improvvisamente li ritroviamo al rientro dell’ultimo giorno del liceo, dopo che hanno trascorso la notte alla montagnetta di San Siro a spaccarsi di birra e erba per aspettare l’alba della fine di un capitolo infinito, per loro, e troppo breve, per padri e madri. Il vantaggio di aver un blog da vent’anni è che ora potrò cercare tutti i post come questo, scritti l’ultimo giorno di scuola dei precedenti cicli, e scoprire come l’avevo presa allora.

E poi, lunedì scorso, ho partecipato al rinfresco di una collega che va in pensione e che, se la vedete, sembra più giovane di me. Era visibilmente commossa e consapevole del fatto che il prossimo 31 agosto sarà l’ultimissimo giorno degli ultimi giorni di tutti gli ultimi giorni. Poi ho letto il biglietto che le hanno scritto i colleghi più stretti, in cui si parlava di tutte le opportunità che le sarebbero presentate, d’ora in poi. L’ho letto e l’ho trovato solo un modo per riflettere su un giorno ancora più ultimissimo degli ultimissimi di tutti gli ultimi giorni degli ultimi giorni. Ma non credo sia giusto, davvero, vedere sempre le cose così.

un bel posto

Standard

Great Place to Work® è una società di ricerca, tecnologia e consulenza organizzativa che analizza gli ambienti di lavoro raccogliendo e analizzando le opinioni dei collaboratori e la employee experience. Sul loro sito si legge anche che

Attraverso la nostra Survey Platform aiutiamo le aziende a raccogliere le opinioni e i feedback dei propri collaboratori (in modalità anonima e tutelata) rispetto all’ambiente di lavoro e alla cultura aziendale e con attività di consulenza mirata supportiamo le organizzazioni nel percorso di crescita e di trasformazione, fino a riconoscere e premiare le migliori organizzazioni per cui lavorare in Italia, Europa e nel mondo.

Alcune aziende clienti dell’agenzia di cui facevo parte prima di operare nella scuola si sottoponevano con entusiasmo al processo che, ogni anno, rilascia una classifica degli ambienti di lavoro in cui ci si riesce maggiormente a realizzare con soddisfazione. Si tratta di operazioni di marketing la cui efficacia e veridicità lascio al vostro giudizio. Sta di fatto che nel B2B e in certi network – a partire da LinkedIn – sono riconoscimenti che danno un certo credito e si sfoggiano (giustamente) con il dovuto vanto.

Dico questo perché sarebbe fantastico se la scuola italiana con tutti i suoi operatori – docenti, dirigenti, ATA, personale amministrativo e collaboratori vari – fosse coinvolta in un’indagine di questo tipo. Con il suo milione e rotti di dipendenti la scuola italiana è probabilmente una delle organizzazioni più numerose al mondo. Il risultato è facile da intuire, come le criticità che la contraddistinguono. D’altronde, se da una parte il fatto che non ci siano dei profitti economici misurabili nel breve periodo di mezzo allontana la scuola dal mercato, dall’altra vi sfido a trovare un’organizzazione con altrettante complessità in termini di dimensioni, processi, modelli di (passatemi il termine) business, distribuzione sul territorio, selezione e gestione del personale, esigenze di flessibilità ai cambiamenti sociali e politici, procurement, marketing e comunicazione, questioni legali, logistica, gestione e manutenzione degli asset e facility management, tanto per iniziare.

Proviamo quindi a pensare a come risponderebbe chi ne fa parte: stipendi inadeguati, caos organizzativo, strutture fatiscenti, carriere chiuse, burocrazia ed esposizione a stress lavorativo farebbero precipitare la scuola italiana ben al di sotto dei posti meno prestigiosi (per non dire più umilianti) di questa classifica. E il fatto che la scuola sia un servizio non ci deve per forza indurre a coinvolgerne gli utenti in una valutazione di questo tipo, per attestarne l’autorevolezza. Le famiglie riconducono principalmente ai docenti la responsabilità del cattivo funzionamento del sistema, mentre gli addetti ai lavori – al netto dell’autocritica – vedono le cose in modo più aderente alla realtà.

Qualche giorno fa è stato indetto uno sciopero nel comparto istruzione dalle principali organizzazioni sindacali del settore. Le ragioni di questa giornata di astensioni dal lavoro sono state raccolte in modo esaustivo dalla collega Mariangela Vaglio in un post sul suo profilo Facebook. Se il budget costringe ad aumentare il numero di utenti del servizio per singolo dipendente, è facile intuire quanto sia penalizzata la qualità. Se questo vale per qualsiasi settore produttivo, figuriamoci per la scuola e tutte le sue variabili, visto che parliamo di prestazioni rivolte a esseri umani. E non c’entra nulla il fatto che nella scuola non insegnino i migliori. Anche a fronte di un utopistico aumento consistente di stipendio in grado di attirare talenti, chi entra nella scuola e ha voglia di darsi da fare sa di infilarsi in un ginepraio. Tanto vale adeguarsi a certi standard e tirare a campare.

Io invece vorrei lavorare 40 ore a settimana come tutti, con uno stipendio come tutti. Venticinque ore in classe e il resto in un ufficio messo a disposizione dalla scuola in cui faccio programmazione didattica, mi preparo le lezioni, partecipo a riunioni, incontro studenti e genitori in una scuola aperta 40 ore a settimana, mattina e pomeriggio. Un ufficio che mi permetta di non portarmi in continuazione pezzi di scuola a casa. Con un responsabile IT che non sono io che lo faccio perché smanetto con l’informatica ma che chiamo e mi fornisce assistenza in tempi utili quando ne ho bisogno. Un ufficio personale (con gente che ha studiato per quel mestiere lì) che seleziona i docenti che si sono candidati mandando un curriculum e a cui posso rivolgermi quando occorre. Un sistema che valuta il mio lavoro e che, se sono bravo, mi fa trovare in busta paga i premi produzione. Un dirigente che è un general manager a tutti gli effetti, strapagato come nelle aziende private, che opera per il bene della scuola di cui è a capo.

Comunque, se vi interessa saperlo, pur in accordo con le ragioni di questo sciopero, io non ho aderito. Ad oggi non ho mai scioperato perché credo che in alcuni settori critici – scuola, trasporti, sanità e giustizia – lo sciopero non porti a nulla se non a penalizzare gli utenti e ad aumentare, nel cittadino, il rancore verso le categorie coinvolte. Lo sciopero è efficace nelle aziende private, nelle grandi industrie, nelle fabbriche. Se il tuo datore di lavoro è lo stato, ci sono canali più efficaci per manifestare il dissenso, a partire dalla scheda elettorale.

ex macchina

Standard

Una delle cose belle quando giri per concessionari a raccogliere preventivi di auto – che poi non ti potrai mai permettere, anzi parlo per me, che poi non mi potrò mai permettere – è imparare i nomi dei colori dei nuovi modelli. Un’operazione di marketing emozionale che non ha eguali. Non so chi sia l’inventore di sfumature come il Chalk White, o il Lake Silver, oppure il Dark Knight, o ancora il Phantom Black, per non parlare del Tangerine Comet, dell’Acid Yellow. E poi il Pulse Red, il Blue Lagoon, il Velvet Dune, il Ceramic Blue, il Galaxy Grey, l’Ignite Flame, l’Atlas White, il Dive in Jeju, il Cyber Grey, il Surfy Blue, il Misty Jungle, l’Engine Red, il Shimmering Silver, il Teal, il Silky Bronze, il Sunset Red, fino al Serenity White.

Poi scopri che, di fronte ad acquirenti poco abbienti come il sottoscritto, è meglio trasmettere la sensazione dei colori più complessi con i classici canna di fucile e carta da zucchero. Un venditore mi ha prospettato anche la possibilità di una pronta consegna – saprete meglio di me che per acquistare un’auto nuova ci vogliono tempi che nemmeno nell’ex URSS – ma di colore grigio guardia di finanza. Una bella metafora perché rende velocemente l’idea della tonalità in questione e, a quelli della mia generazione, crea un link diretto con l’insipido blu polizia di un giorno di pioggia, in auto con i Subsonica del 97.

E la cosa buffa è che incrocio, ogni mattina, una Fiat Panda proprio di quel colore lì che riporta, dietro, una vistosissima pubblicità di un’impresa di sicurezza privata dal naming e dall’iconografia oltremodo nazifasci. Ma non mi sento affatto ferito nell’orgoglio perché, proprio grazie a mesi di benchmarking, ora sono il fortunato proprietario una macchina nuova che è talmente moderna che, al momento, ritengo forse il miglior ambiente in cui mi piace vivere dopo il divano della sala, ma solo perché è ubicato di fronte al mio impianto stereo e contestuale collezione di trentatré giri.

Si tratta di un’auto pazzesca – il colore è un banale blu notte ma era l’unica disponibile in tempi rapidi – dotata di una sua intelligenza di molto superiore alla mia e a quella di svariate persone che conosco. Frena e accelera quando è più necessario. L’abitacolo è dotato di un micro-climatizzatore che si può programmare per ogni passeggero. Appena mi avvicino sblocca le portiere e si connette con il mio smartphone. I sedili si riscaldano o si raffreddano a seconda del bisogno e luci si accendono e si spengono come cazzo vogliono loro, seguite a ruota da tergicristalli così sensibili che partono in autonomia appena c’è un goccio di pioggia.

Quando si ferma non fa nessun rumore, così mentre sono in coda al volante guardo dietro. Lo spazio a disposizione mi rassicura così tanto che fa emergere la mia ossessione per le case piccole, la stessa che mi fa da sempre desiderare di vivere in un camper ma non uno di quelli giganteschi. Mi basterebbe anche un furgone con dietro una customizzazione utile a dormirci. C’è una cosa che mi fa venire i brividi e ora ve la racconto. C’è un punto di confine tra Italia e Francia, una strada sulle Alpi che si apre su uno spiazzo in mezzo a monti brulli, che vado a sbirciare con Google Street View quando ho voglia di staccare dalla routine. Così, quando sono in auto e mi volto ad ammirare quella che potrebbe essere una vera e propria mini casa mobile, immagino di fermarmi in quel parcheggio sui monti, abbattere i sedili posteriori e sdraiarmi lì su un materasso per passare la notte e attendere l’alba. Poi però è subito il momento di ripartire. Basta premere con dolcezza l’acceleratore – la mia nuova auto ha il cambio automatico – per riaccendere il motore e riprendere il viaggio, lo stesso viaggio di ogni giorno.