il convivio

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A tavola o davanti a un drink vince chi ha l’esclusiva della storia di vita più avvincente da mettere al centro della conversazione. In genere, se qualcuno dei presenti conosce il detentore di quel parziale primato che lo autorizza a porsi come leader della narrazione, sarà lui a consegnargli lo scettro dell’attenzione generale, una mossa intelligente e che consente a questa figura di spalla – non necessariamente richiesta – di beneficiare delle emanazioni del protagonista e, allo stesso tempo, lo esonera dal lanciarsi nell’agone per contendergli la vittoria finale. Una condizione ottimale per il conduttore designato, che di norma non ha certo bisogno di sgomitare con gli altri. Introdurre la sua storia prima che non sia espressamente richiesta può dare adito a reazione avverse – invidia o smania di emulazione in primis – tranquillamente evitabili lasciando scorrere le cose in modo naturale.

La vittima sacrificale di questa dinamica sarà il secondo in grado dal punto di vista dell’eccezionalità della storia individuale, d’altronde arrivare a un soffio dal gradino più alto del podio non fa piacere a nessuno e in nessuna disciplina. A meno di non essere un fenomeno in qualcosa e di non sentire il bisogno di marcare il territorio in ogni contesto, tutto sommato è più augurabile trovarsi nella condizione di sentirsi una persona ordinaria, con un lavoro a bassa visibilità, una famiglia mediamente felice, con hobby e passioni che interessano poco a nessuno e che anzi, quando ne parli la gente sbadiglia o cambia subito discorso. Cito spesso l’esempio del cognato di mio cognato, uno sportellista bancario con il pallino dell’apicoltura. A pranzo con lui, avere una collezione di dischi lascia il tempo che trova, e io per primo lo tempesto di domande per saperne di più.

Il mio consiglio, però, è di segnarvi in qualche modo le grandi storie che tengono banco quando siete in compagnia. Il modo più efficace è senza dubbio quello di scrivere tutto su un blog ma non perché lo faccio io. Si riesce a raccogliere un compendio del genere umano niente male. Tra gli argomenti che hanno suscitato maggiormente la curiosità dei commensali in occasioni in cui ero presente, ricordo su tutte quella del marito ingegnere di un’ex collega di mia moglie. Lui trascorreva diversi mesi all’anno in trasferta in India, dove la sua azienda stava costruendo un mega impianto in uno stabilimento di rilevanza mondiale. Ci siamo frequentati qualche volta perché avevamo i figli piccoli della stessa età. Le poche volte in cui l’uomo non era in trasferta, era chiaro che si prediligessero le domande rivolte a lui sulla sua esperienza all’estero, tutt’altro che ordinaria. Tutte le altre vite, al suo confronto, risultavano trascurabili ed era inutile soffermarsi sul lavoro in ufficio degli altri, su quello che vedevamo in centro a Milano, sui treni in ritardo. L’India, anche vissuta in quel modo protetto, fatto di hotel business e giornate trascorse in fabbrica, con autisti e itinerari bloccati, aveva di certo un fascino superiore a qualunque altra cosa. La prima volta che l’ho incontrato sapevo già della sua vita e ricordo di essermi precipitato subito a chiedergli di parlarci di quello che faceva. La mia vita, il mio lavoro di allora, in quel contesto sarebbero stati liquidabili in meno di un minuto.

Sono stato testimone di altre storie altrettanto pittoresche, a partire dal miliziano croato rifugiatosi in Italia durante la guerra civile (anche se poi ho scoperto che aveva lavorato un po’ troppo con l’immaginazione), il traduttore di uno dei più venduti autori di letteratura americana, l’amico di infanzia di Mahmood e di Elodie.

Una categoria a sé è invece popolata da un sacco di gente che fa lavori ordinari e li fa passare per straordinari. In questi casi riconosco l’abilità di chi riesce a raccontare la realtà come vorrebbe che fosse e non com’è dal vero, o magari è davvero così e la colpa è di chi, come me, fatica a riconoscere il reale valore delle cose. Io li invidio molto perché, a differenza di me, hanno la stoffa dello scrittore. Ma non voglio fare la vittima. In un paio di casi la mia professione di insegnante di scuola primaria mi ha tributato una meritata posizione di leader della conversazione. I miei contendenti erano ben poca roba, impiegati pendolari e una volta persino un elettricista. Ma, nel caso facciate il mio stesso lavoro, vi conviene presentarvi come maestro. Il nome sarà anche all’antica ma, ve lo assicuro, fa più scena.

amami

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Qualcosa sta cambiando: nel giro di tre giorni mia moglie mi ha dato ragione, mia figlia ha accettato un mio consiglio e una vicina di casa mi ha fermato per dirmi che concordava con me su una cosa che ho scritto su Facebook. Comincio da quest’ultima, che è poco meno che una facezia. Sostenevo che il vero punto di rottura con le nuove generazioni non sia tanto il corsivo quanto il borsello. Borselli e marsupi spopolano tra i ragazzi, e se pensate che fino a vent’anni fa era un accessorio oggetto di scherno (ci hanno fatto persino una canzone su) il cerchio si chiude. Qualche sera fa al LOVEMI, il concerto di beneficenza organizzato da Fedez in piazza del Duomo, un trapper dei sobborghi si è lanciato sul palco sfoggiando un vistosissimo modello di Gucci, mentre il resto della crew indossava marsupi ascellari e non da poliziotto in borghese. Che poi non ho ben capito il senso di portarsi gli amici sul palco. Da quello che ho capito, il senso di branco è fortissimo negli ambienti del rap. Si sta tutti uniti in strada, chi tradisce il gruppo è un infame, si lotta e si soffre per la comunità e quando qualcuno sale di livello e ha successo grazie alla sua musica non si dimentica degli amici che l’hanno sostenuto nei momenti più difficili. Peccato che a tutti questi sforzi ripagati in miliardi di euro da clic e ascolti corrisponda, nella maggioranza dei casi, musica meno che di merda. Eppure piazza del Duomo era gremita di ragazzini. Sui social era tutto in gridare al miracolo, ispirati dalla retorica della riconquista della libertà da parte degli adolescenti dopo due anni di clausura, anche se poi basta leggere tra le righe che a settembre, se il trend dei contagi è ancora questo, saremo punto e a capo. Il fatto è che sono tantissimi gli adulti entusiasti dell’universo parallelo in cui i nostri figli hanno preso la residenza, un posto dove si sta in presenza a vedere un concerto nel display di uno smartphone, dove chi canta dice cose che, quando si capiscono, trasmettono tutta la deprivazione di chi le canta ma la moda impone agli ascoltatori di mettere da parte il talento e l’acume per appiattirsi su questa periferia culturale. Genitori e docenti sono entusiasti perché il fenomeno in corso restituisce l’idea di una cosa finalmente fatta tutta da loro e non mediata dagli adulti di riferimento. Io guardo i ragazzi e penso che potrà capitare, quando avrò settanta o ottant’anni, di trovarmi uno di questi tutti tatuati che ascoltano gente del calibro degli ospiti di LOVEMI e saltano a ritmo di “Shakerando” pronto a operarmi in sala operatoria, oppure in uno studio legale a cui sarò costretto a rivolgermi, o, peggio, ingegnere progettista di un ponte della ferrovia su cui dovrò passare in treno per recarmi nel posto in cui sperperare la pensione. Tra questi ragazzi c’è anche mia figlia? Lei ascolta di tutto ma non ama molto la pop trap di oggi. A suo modo, malgrado la giovanissima età, appartiene alla old school della Dark Polo Gang e della trap di quegli anni lì, a suo avviso decisamente più iconica. Pochi anni di vita ed ecco già l’indole a guardarsi indietro, aspetto tipico della famiglia da cui deriva. Nonostante ciò, è tutt’altro che accondiscendente con suo padre. Poi, come dicevo prima, qualche giorno fa, in un guizzo di buon senso, si è comportata proprio come le avevo suggerito. L’adolescenza oramai è agli sgoccioli e, come scrivono sui libri di psicologia dell’età evolutiva, lentamente rientra all’ovile, dopo aver sviluppato il suo senso critico che le consentirà di prendere ciò che le sembra giusto. Sul terzo episodio, quello di mia moglie che mi ha dato ragione, è andata proprio così e c’è poco da aggiungere.

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materia prima

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La materia prima della scuola è il genere umano. Se siete sensibili a quello che può accadere al genere umano – parlo di quel disagio che prova chi è sensibile a una cosa – la scuola non è un lavoro che fa per voi: il via vai di colleghi e di alunni con cui ti cimenti vi risulterà insopportabile.

Se avete lavorato in aziende private di qualunque settore industriale, in cui l’obiettivo è il prodotto e il profitto che ne deriva, il genere umano è un di cui. Eppure, paradossalmente, in genere il livello di turn-over è pienamente accettabile. A parte i contratti a tempo determinatissimo e i fantomatici stage, chi sa lavorare resta nella stessa mansione per un po’ di anni, ci sono casi eroici di impiegati che giungono sani e salvi addirittura alla pensione. In tutti gli altri casi, se sai fare il tuo mestiere, le aziende cercano di trattenerti con aumenti o miglioramenti delle condizioni lavorative, e quando arrivi al punto in cui è inevitabile passare alla concorrenza a causa di un’offerta che sarebbe immorale non accettare, oppure cambiare strada, nel frattempo è trascorso almeno un lustro, se non di più.

Nella scuola, dove l’obiettivo è far trascorrere un’esperienza di apprendimento più significativa possibile a bambini e ragazzi, dove le riunioni si fanno per parlare degli esponenti del genere umano con cui si ha a che fare quotidianamente, dove ogni docente è chiamato a mettere tutto se stesso al servizio dei colleghi per il bene degli studenti, è tutto un andirivieni che, nei casi migliori, dura da settembre a giugno.

La scuola ingaggia una percentuale di precari e di precari più precari dei precari che ha dell’incredibile. E se considerate che la didattica – e tutto quello che concerne – è uno degli esempi più palesi di strategia di successo a lungo termine, è facile immaginare il risultato di un processo in cui, ogni anno, occorre ricominciare da capo con nuovo materiale umano che, quasi sempre, ha indole diversa da chi lo ha preceduto. Ne deriva che anche quel poco personale che è lì a tempo indeterminato si deve adattare. Non solo. Anche i lavoratori stabili chiedono trasferimenti in altri istituti o passano ad altri ordini o cambiano vita oppure, come è giusto, vanno in pensione.

Ci sono due momenti, agli estremi di ogni anno scolastico, in cui questo trambusto è causa di sconforto emotivo alle persone sensibili di cui parlavo prima. A settembre e ottobre ogni scuola si riempie di gente mai vista prima che va a colmare i buchi dell’organico, una fase di assestamento che può prolungarsi anche fino a novembre inoltrato. In questo momento preliminare è fondamentale quindi darsi da fare per riaggiustare il senso di team che viene polverizzato nell’ultimo collegio docenti di giugno, quando ci sono i saluti dei cosiddetti supplenti annuali che, l’anno successivo, chissà dove finiranno ed è un miracolo, se si tratta di docenti in gamba, se riescono a farsi confermare nello stesso posto, quando la ruota riparte.

Provate a immaginare: la tua classe va in vacanza e, come se non bastasse, i tuoi colleghi evaporano con ampie possibilità di non incontrarli mai più, e ti ritrovi con i soliti quattro gatti dei colleghi di ruolo, il dirigente, il vicario, i vari responsabili di plesso, tutti a non dirsi quanto sarebbe bello, per il genere umano, per i docenti, per la società, che le cose si normalizzassero e che la scuola diventasse un posto di lavoro come tutti gli altri in cui, al di là di far trascorrere un’esperienza di apprendimento più significativa possibile a bambini e ragazzi – la nostra mission – si può anche contare su una squadra di persone, più o meno sempre le stesse, a lavorare per il lungo periodo.

alla spina

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«Era meglio se le riempivi di birra», mi ha detto quello del terzo piano. Ci siamo incrociati sotto casa. Io avevo appena fatto il pieno alla casa dell’acqua, due cestelli per dodici bottiglie in tutto, metà frizzante e metà naturale. Con questo caldo, la scorta sufficiente per nemmeno un paio di giorni. Lui non lo so dove fosse diretto ma tanto lo incontro sempre, ogni volta che scendo. Tutti lo incontrano sempre qui intorno, e non sono l’unico che ha smesso di parlare di coincidenze – tenete conto che, malgrado abbia pochi anni più di me, è già in pensione da un po’. E il fatto che sia stato arrestato per essersi messo a sparare con il fucile ad aria compressa in mutande sul balcone della cucina può anche non essere un caso.

Al mio dirimpettaio, quello del terzo piano stava poco simpatico anche prima di quella specie di mix tra una versione cosplay delle stragi USA e del trailer di Gomorra. Mi aveva mandato il link a un video contenuto in un articolo di un quotidiano locale, una di quelle testate su cui scrivono laureati in comunicazione o in lettere pagati a confezioni di patatine e cornetti industriali. In quel minuto scarso di riprese amatoriali così mosse da mettere alla prova anche lo stomaco di un appassionato di rafting l’ho visto anch’io, in piedi tra i convenuti, annuire con il mento al comizio di un pezzo grosso della Lega in occasione della chiusura della campagna elettorale delle ultime comunali. A onor del vero c’erano altre persone riconoscibilissime, a partire da due compagne delle medie di mia figlia proprio sotto il palco, due ragazze con cui, per fortuna, si sono perse di vista. Ma quello del terzo piano era fin troppo evidente, alto com’è, a sovrastare il resto della folla nel centro della piazzetta.

Chi è stato intervistato dopo il suo arresto (prima di essere portato via si era messo un paio di bermuda con i tasconi), però, non ha potuto far altro che testimoniare di non aver mai notato comportamenti sospetti e che, come dicono i testimoni della cronaca nera nei servizi dei veri telegiornali, salutava sempre. Nessuno ha raccontato di come riuscisse a rigare di nascosto le automobili di chi non gli andava a genio con la sola forza del pensiero. Ci sono prove?, chiederete voi. Eccome. Quello del terzo piano, in linea con la sua visione distorta di come funziona la vita di società, ha installato alla finestre una webcam puntata sul parcheggio condominiale per controllare il suo camper, senza avvisare nessuno ma vantandosene con tutti. Quando mi ha chiesto di sistemargli il driver del lettore DVD esterno del suo pc desktop ho dato un’occhiata all’hard disk e sono riuscito a sbirciare qualche file tra gli svariati giga di girato. In uno lo si vede chiaramente, in piedi nel parcheggio, ruotare la faccia come se avesse in bocca un pennarello e stesse scrivendo forza Milan da qualche parte, la stessa incisione che si è ritrovato il suo principale avversario del palazzo, il vecchietto del secondo piano, sulla portiera della Yaris.

Loro due hanno una storia di rivalità degna dei battibecchi tra Paperino e Anacleto Mitraglia e che risale a quando il vecchietto del secondo piano svuotava la cassetta della posta condominiale di tutti i volantini dei supermercati e lui, quello del terzo piano, tornava a riempirla con la scorta di cartaccia che conserva nel box e che riesce a spostare – dal box alla cassetta della posta – proprio grazie a questa specie di superpotere. Di questo, però non c’è traccia nei video, almeno non in quelli che sono riuscito a guardare, ma non sono l’unico a sospettare che sia opera sua.

Io poi, lo sapete, sono uno che sta alla larga dai guai e cerco di mantenere buoni rapporti con tutti. Mi ha colpito però la sua necessità di relazionarsi con persone di sesso maschile usando le solite battute trite e ritrite sulle donne: il modo in cui conducono l’automobile, i luoghi comuni sulla gestione domestica, cose così. Oppure quando torno con la spesa e mi dice di lasciargli le buste davanti alla sua porta d’ingresso. Stessa cosa quando scendo per ritirare del cibo d’asporto: che pizza mi hai preso?, mi chiede. Ripeto: sono rarissime le volte in cui non lo si incontra. Spesso lo vedi fare finta di chiamare qualcuno e usare lo smartphone come un escamotage per evitare le conversazioni. Un sistema che, se devo essere sincero, uso anch’io e che mi ha messo al riparo più di una volta da situazioni sconvenienti.

Comunque, quando mi ha fatto intendere che sarebbe stato decisamente più utile avere un distributore gratuito comunale di birra alla spina piuttosto che di acqua, non avrei mai pensato che sarebbe stato capace di un miracolo di tale entità. E anche se non si hanno prove che sia stato lui, la notizia è rimbalzata ed è stata condivisa su tutti i social a partire dalla pagina Facebook della comunità del mio paese. Una casa dell’acqua che, di colpo, si è trasformata in casa della birra, la birra del sindaco. Ci siamo precipitati in bici, io e il mio dirimpettaio. Il distributore è a poche centinaia di metri da qui. Ma quando è stato il nostro turno usciva solo della schiuma, proprio come quando nei pub il fusto è agli sgoccioli.

complessati

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Avere una band che compone e suona pezzi originali e di propria produzione costituisce in sé il massimo dell’esperienza umana. Non credo ci sia nulla di simile al mondo: persone che si incontrano e intraprendono un percorso artistico, talvolta lungo più decenni, durante il quale si trascorre tantissimo tempo insieme in ambienti spesso fatiscenti con degli strumenti in mano e con l’obiettivo di creare, arrangiare, registrare ed eseguire dal vivo musica per il proprio e l’altrui compiacimento.

L’arte di gruppo, rispetto all’arte individuale, è soggetta anche alle dinamiche della relazione tra le persone, scazzi compresi. Per questo, al netto di svariate eccezioni – che se volete potete riportare qui in calce – i risultati vanno ricondotti a una categoria a sé rispetto alla musica composta da singoli e, lasciando perdere i gusti personali, sono quasi sempre sorprendenti.

La musica di una band, in poche parole, ha qualcosa in più rispetto a quella di un solista. Ho formato la mia prima band – nata con una comunità di intenti sottoscritta sin dalla prima prova tra tutti i componenti – a quattordici anni (la seconda band della mia vita, a essere sinceri, ma nella prima ero poco più che un sostituto). Un gruppo di ragazzi con i quali ho vissuto una straordinaria storia di amicizia e di crescita subordinata alla musica, e vi posso assicurare che un’esperienza così totalizzante non l’ho mai più provata, nella vita.

Tutto questo per dire quanto siano importanti i gruppi (o almeno quanto lo erano, visto che adesso tutti suonano con il MacBook e l’autotune da soli, chiusi nelle proprie camerette) e quanto siano significativi nella musica italiana che, da sempre, è principalmente un club esclusivo per gli interpreti singoli, supportati nel back-end da compositori e parolieri lobbisti. Per avere una band e fare musica cantata in italiano ci vuole una bella faccia tosta e una cospicua scorta di sicurezza di sé, considerata la concorrenza d’oltremanica e d’oltreoceano. Un aspetto che da sempre suscita in me un fascino e un’appeal senza confronti. Ma veniamo al dunque.

Era da tanto che aspettavo la puntata di Techetechetè andata in onda ieri sera. Voglio dire, non esiste una programmazione di quello che si vedrà volta per volta a Techetechetè – anche se sarebbe bellissimo averla – ma era chiaro che, prima o poi, qualcuno avrebbe dovuto affrontare la più annosa delle questioni, e cioè che che la musica italiana non è solo Mina, Celentano e i cantautori, ma esistono anche i gruppi. E in Italia, anche se pochi lo sanno, esiste una lunga tradizione di band vecchia almeno quanto Shel Shapiro. Non a caso, Techetechetè ieri sera si intitolava proprio “50 anni di gruppi”.

Se l’avete visto però, malgrado gli oltre 60 minuti di immagini di repertorio, avrete compreso quali sono i limiti della nostra tv e del canale più democristiano dell’emittente pubblica e della gente che ci lavora. Anche se tra gli anziani di oggi che seguono RaiUno a quell’ora di sera ci sono anche quelli che, nei primi anni 80, pogavano con cresta e anfibi sotto il palco dei CCCP, una puntata in grado di coprire in modo equidistante tutte le passate e presenti decadi e tutti gli strati socioculturali della canzone italiana dei gruppi (dai più mainstream ai più alternativi, per farmi capire dai Pooh ai CCCP) è pressoché impossibile.

Bisogna ammettere che la musica chiamiamola alternativa – che nell’immaginario collettivo è principalmente rappresentata da band – è stata ampiamente accettata nel palinsesto culturale nazionalpopolare. Ma c’è certa musica alternativa, a partire proprio dai CCCP, che alla RAI – archiviata la trasmissione musicale più bella di tutto il mondo mondiale che è stata “DOC” – non passerà mai.

E spero che sia chiaro a tutti che l’unica persona nel nostro paese in grado di definire una scaletta completa e adatta a uno speciale sui gruppi italiani di tutti i tempi è colui che sta scrivendo questo post. Non troverete mai un appassionato di musica più esperto e competente e umile di me nel settore dei gruppi italiani. Ho pensato quindi di lasciarvi alcune considerazioni su quello che avete visto nella puntata di ieri di Techetechetè, sperando che quelli di Techetechetè mi chiamino, prima o poi, a scegliere le cose da trasmettere. E, se non l’avete ancora visto, il programma è disponibile su RaiPlay qui per sette giorni. Guardate la puntata in questione e poi ditemi se non ho ragione a scrivere quello che state per leggere. Ecco che cosa ho visto per voi.

Elio e le storie tese a Sanremo: il fatto che uno speciale sulle band inizi con un gruppo di rock demenziale la dice lunga sulla considerazione per il rock in Italia. Il consiglio che la RAI ci dà è che, tutto sommato, i gruppi non vanno presi sul serio, meglio riderci su. E comunque avrei scelto un’altra apparizione degli Elii, a partire da “La terra dei cachi” o una delle numerose canzoni storpiate, come orchestrina fissa, in quel programma con la Dandini di qualche anno fa di cui ora mi sfugge il nome. Googlatelo per me. Però qualcuno mi spieghi perché Elio sì e gli Skiantos no, tanto per dare il via alla polemica.

Anima mia dei Cugini di Campagna da vecchi: ora, potete amare o odiare questa canzone, ma spiegatemi il senso di non utilizzare uno dei millemila passaggi RAI ai tempi della pubblicazione del brano, con il gruppo in formazione originale? Vedere un banale ripescaggio a colori, con gente in studio che negli anni settanta non era nemmeno nata, stride troppo con i toni in scala di grigio della canzone.

Litfiba – Il mio corpo che cambia: ecco, lo sapete, per me i Litfiba già con “17 re” iniziavano a mostrare le loro velleità rockettare rispetto al post-punk degli esordi. Figuriamoci il periodo anni 90. Questo dimostra quello che sostenevo prima, e cioè che l’Italia ha paura della musica underground del mio decennio preferito. Che cosa vi spaventa di “Eroi nel vento” o di “Guerra”, canzoni ampiamente documentate negli archivi della RAI?

I Collage di “Tu mi rubi l’anima” è il primo di una lunga serie di apparizioni in programmi tv di musica in playback prima dell’avvento del monoscopio delle prove tecniche di trasmissione a colori. Oggi siamo abituati – meno male – al live anche in situazioni complessissime come Sanremo o il concertone del Primo Maggio. Vedere gente che canta senza microfono e che suona con strumenti nemmeno accesi o collegati al mixer anche per finta ci fa ridere. Stesso discorso – anche se di qualche anno prima – per “Donna felicità” dei Nuovi Angeli. Di questa canzone, di cui possiedo il 45 giri sopravvissuto alle numerose e barbare riproduzioni nel mangiadischi di mio nonno, è curioso l’andamento da polka e quel giro di basso così ingenuo che trasmette un background da balera. Su questa linea, nell’ordine, vedrete anche le esecuzioni finte di “Senza luce” dei Dik Dik (peccato, con quel giro di Hammond), “Io per lei” dei Camaleonti, “Ho in mente te” dell’Equipe 84, “Pugni chiusi” dei Ribelli di Demetrio Stratos (che rabbia, mi aspettavo gli Area e invece picche), “C’è una strana espressione dei tuoi occhi” dei The Rokes. Mal con i suoi Primitives e i New Dada, purtroppo, risultano non pervenuti.

Per capire meglio che cosa intendo, comparate queste esibizioni di cera con quelle in carne, ossa e sudore della “Formula Tre”, qui presente con quell’assurdo pezzo del salame dai capelli verde rame, dei Pooh che, con tanto di orchestra e di Riccardo Fogli, eseguono “Noi due nel mondo e nell’anima”, “Io vagabondo” dei Nomadi, “Proposta” dei Giganti (quanta tenerezza e ingenuità a cappella), “Bella da morire” degli Homo Sapiens o della splendida apparizione della PFM con l’intramontabile “Impressioni di settembre”. 

Certo, dal punto di vista della resa del suono c’è un abisso con i Bluvertigo a Sanremo che suonano “L’assenzio” – una delle vette della musica in tv – o con i Negramaro di “Mentre tutto scorre”, ma erano altri tempi e altri impianti di amplificazione.

Su “50 special” dei Lunapop non ho nulla da recriminare, un capop-lavoro che ha pieno diritto di stare tra le grandi come, più avanti, “Dedicato a te” delle Vibrazioni. Non che mi strappi i capelli, ma oggettivamente sono pezzi da novanta, spero che vi sia arrivato il gioco di parole.

La quota generazione Z e gente che biascica in corsivo – ammesso che fosse davanti alla tv – sarà stata soddisfatta dalle recentissime esibizioni sanremesi dei tanto chiacchierati Maneskin di “Zitti e buoni”, dei Pinguini Tattici Nucleari con “Ringo Starr” e de Lo stato sociale con “Una vita in vacanza” con tanto di vecchia che balla a corredo. Tutto il panorama indie e indie rock del nuovo millennio è stato, come facile immaginare, saltato a piè pari. Ne riparleremo nei Techetechetè dell’estate 2052.

Nella categoria dei meno rappresentativi o, meglio, band che io avrei omesso, si sono visti i Velvet quando scimmiottavano i Blur con “Boy Band” (al limite, piuttosto, avrei scelto “Funzioni primarie”), la Schola Cantorum con “Lella”, che fa sentire ancora più forte l’assenza dei Delirium, o i Santo California, in quella ballad strappa-maroni che è “Tornerò” e che suona così patetica, oggi che nessun maschio etero rischia più di esser fagocitato dalla leva obbligatoria.

Ci sono stati poi dei clamorosi svarioni di selezione. Spiegatemi il senso di passare, dei Negrita, il loro pezzo più brutto, “I ragazzi stanno bene”, o “Quella carezza della sera” dei New Trolls che avrà avuto successo e tutto quanto ma è a rischio diabete, per non parlare di “Paolo maledetto” che è la composizione meno rappresentativa del Banco, o ancora della bruttissima “L’uomo che ride”, forse il punto più basso toccato dai Timoria di Francesco Renga.

Poi, finalmente, un inatteso regalo: parte “Contessa” dei Decibel in una versione alternativa rispetto alle solite che si vedono in tv. Il brano è in playback ma Ruggeri canta dal vivo ed è importante perché, benché sia una canzonetta da Sanremo come tutte le altre, è il brano che più di ogni altro dà inizio agli anni ottanta della musica italiana. Mi sarei aspettato di vedere anche i Krisma, per dare una certa continuità, e invece no.

Ma il vero tripudio della trasmissione, inutile nasconderlo, è stata l’esibizione finta de Le Orme alla finale del Festivalbar 1976 all’Arena di Verona con “Canzone d’amore” (episodio su cui non mi dilungo, ma se volete saperne di più ne parlo qui).

La scelta di “Niente insetti su Wilma” dei Denovo – poco più che una facezia in quell’apoteosi creativa che si è consumata tra la metà e la fine degli anni ottanta – ha reso ancora più assordante l’assenza di band come (ripeto) i CCCP, i Neon, i Diaframma di “Siberia” e tutti gli altri testimoni di uno dei periodi più effervescenti della musica italiana. Allo stesso modo in cui, in rappresentanza del decennio successivo, che dal punto di vista musicale non teme confronti, non si è vista nemmeno l’ombra di Almamegretta, Subsonica, CSI, Ustmamò, Scisma e Afterhours, giusto per fare i primi nomi che mi vengono in mente.

Non avete notato nulla? Allora ve lo dico io: fino a tre minuti dalla fine del programma, sullo schermo si sono avvicendati solo uomini. D’altronde, nel nostro paese, almeno fino a pochi anni fa, perché mai le ragazze avrebbero dovuto fare musica, o addirittura dividere il palco con altri membri di un complesso rock o pop? Per questo, dulcis in fundo, la puntata di Techetechetè dedicata ai gruppi si è cavallerescamente chiusa con i Matia Bazar. E, certo, perché riproporre un brano come “Ti sento” o “Elettrochoc”, con un testo composto da parole e frasi di senso compiuto, quando si può trasmettere “Cavallo bianco”, l’unica canzone in cui Antonella Ruggiero canta tirudiuà tiruriruriuà?

una storia nota

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PROLOGO

Non ho mai capito che cosa abbiano in comune l’interruzione di energia elettrica per un blackout e l’antifurto delle villette ubicate nella via dietro casa mia. Se è fatto apposta, se gli antifurto devono suonare quando manca la corrente, non mi sembra una buona intuizione e nemmeno una best practice di ingegneria. Perché sono stati programmati per dare l’allarme quando si spegne tutto? I ladri, quando si introducono nelle abitazioni altrui, come prima cosa staccano il contatore? Mi sembra una pensata piuttosto ingenua.

Eppure vi assicuro che è proprio così: manca la luce e si propaga un’intera orchestra di sirene proprio come quando i cani, chiusi nei giardini delle stesse villette, abbaiano con effetto a cascata, quando passa qualcuno con un loro simile al guinzaglio e si avvisano reciprocamente del pericolo a partire dal primo, il più piccoletto, il più cagacazzi che abita proprio sotto la finestra della cameretta di mia figlia, uno di quei cani di taglia infima, isterico e dal timbro acutissimo e nervoso che si fa sentire senza interruzione di continuità, fino all’ultimo, il più grosso di tutti, in fondo alla via.

Non sono l’unico a pensare che si tratti di un errore insito in qualche sottomarca di antifurto. Una svista di chi li ha programmati, una riga di codice con un bug che il sistema interpreta come IF manca l’alimentazione elettrica AND si attiva il gruppo di continuità THEN fai casino. L’inefficacia dei sistemi di allarme di questo tipo è sotto gli occhi di tutti, per non dire sotto le orecchie di tutti. L’aggravante è che possono attivarsi in piena notte mentre il proprietario si trova in vacanza dall’altra parte del mondo. L’estate è torrida, tutti sparano i condizionatori al massimo, l’offerta di energia non è sufficiente a soddisfare la domanda e la rete di distribuzione collassa. Ai tempi del global warming questa ormai è la prassi e dobbiamo farcene una ragione. Si blocca tutto, si spegne tutto, e si avviano le sirene degli antifurto delle villette, una dopo l’altra.

In piena notte, ma forse l’ho già detto. I proprietari delle villette sono dall’altra parte del mondo, anche questo l’ho già detto, e non possono correre a porre rimedio utile alla situazione. Io mi aspettavo addirittura che suona l’antifurto e pochi secondi dopo arriva una pattuglia della Polizia, ma forse vedo troppe pubblicità della Verisure. Invece le sirene vanno avanti indisturbate quanto i ladri per quasi un’ora. Finiscono il loro ciclo, si interrompono qualche minuto, giusto il tempo di riaddormentarmi, e poi ricominciano con la stessa sfrontatezza.

Poi la luce torna, perché nel frattempo ci siamo svegliati tutti e il black-out ci ha fatto preoccupare per le scorte accalcate nel freezer e il modo in cui cucinarle tutte, prima che si deteriorino, prima che siano da buttare, un tarlo che toglie il sonno anche ai più ottimisti. Invece la luce torna, dicevo, ma dopo un po’ salta di nuovo e così riprende anche la sinfonia.
A dire la verità non so come vada a finire, e cioè se mi riaddormento prima che le sirene tacciano definitivamente, preso per sfinimento dall’assuefazione a quel frastuono continuo, un po’ come quando dividi il letto con qualcuno che russa, oppure se prima ritorna il silenzio perché nel frattempo sono rientrati i proprietari dall’altra parte del mondo o è arrivata la Polizia o è tornata la corrente per non saltare più e quindi, ripristinato il silenzio, ripiombo nel sonno.

Il mattino seguente, al risveglio, resta una vaga eco delle sirene dei sistemi di allarme nello sguardo sconvolto dei sopravvissuti a una notte d’inferno, tra i trenta gradi e l’inquinamento acustico fuori da ogni immaginazione. Tra familiari ci si chiede se l’abbiamo sentito, se ci ha svegliati, se poi siamo riusciti a riprendere sonno. Fuori, l’innaturale silenzio della notte, interrotto solo dalle sirene, ha lasciato il posto al consueto bordone di operosità tipico della periferia milanese. I carpentieri del bonus 110 che si danno ordini in arabo dai piani dei ponteggi, le macchine tagliaerba impiegate come ammortizzatore sociale, gli adolescenti sui motorini perché la scuola è finita, gli anziani che gli sacramentano dietro in dialetto.
Questo è quello che succede generalmente. Stanotte, però, dev’essere andata in modo diverso perché già da stamattina, mescolato ai rumori di una tipica alba di periferia, si percepiva qualcosa di più. Qualcosa di anomalo.

QUALCOSA DI ANOMALO

Ma facciamo un passo indietro. Intanto ieri, tra le tracce dei temi dell’esame di stato, è stata somministrata come proposta l’analisi di un testo tratto da “Musicofilia” di Oliver Sacks. Per vostra comodità riporto il brano oggetto della prova qui di seguito:

«È proprio strano vedere un’intera specie – miliardi di persone – ascoltare combinazioni di note prive di significato e giocare con esse: miliardi di persone che dedicano buona parte del loro tempo a quella che chiamano «musica», lasciando che essa occupi completamente i loro pensieri. Questo, se non altro, era un aspetto degli esseri umani che sconcertava i Superni, gli alieni dall’intelletto superiore descritti da Arthur C. Clarke nel romanzo Le guide del tramonto. Spinti dalla curiosità, essi scendono sulla Terra per assistere a un concerto, ascoltano educatamente e alla fine si congratulano con il compositore per la sua «grande creatività» – sebbene per loro l’intera faccenda rimanga incomprensibile. Questi alieni non riescono a concepire che cosa accada negli esseri umani quando fanno o ascoltano musica, perché in loro non accade proprio nulla: in quanto specie, sono creature senza musica. Possiamo immaginare i Superni, risaliti sulle loro astronavi, ancora intenti a riflettere: dovrebbero ammettere che, in un modo o nell’altro, questa cosa chiamata «musica» ha una sua efficacia sugli esseri umani ed è fondamentale nella loro vita. Eppure la musica non ha concetti, non formula proposizioni; manca di immagini e di simboli, ossia della materia stessa del linguaggio. Non ha alcun potere di rappresentazione. Né ha alcuna relazione necessaria con il mondo reale. Esistono rari esseri umani che, come i Superni, forse mancano dell’apparato neurale per apprezzare suoni o melodie. D’altra parte, sulla quasi totalità di noi, la musica esercita un enorme potere, indipendentemente dal fatto che la cerchiamo o meno, o che riteniamo di essere particolarmente «musicali». Una tale inclinazione per la musica – questa «musicofilia» – traspare già nella prima infanzia, è palese e fondamentale in tutte le culture e probabilmente risale agli albori della nostra specie. Può essere sviluppata o plasmata dalla cultura in cui viviamo, dalle circostanze della vita o dai particolari talenti e punti deboli che ci caratterizzano come individui; ciò non di meno, è così profondamente radicata nella nostra natura che siamo tentati di considerarla innata […].»

Mi è venuto spontaneo quindi il mash-up tra questo spunto, che, se mi fossi trovato tra i candidati, avrei approcciato sulla carta senza indugi (anche se l’analisi della poesia di Pascoli <3), e il discorsetto che, sempre ieri – che giornata intensa! – mi stavo preparando per il prossimo collegio docenti, quello a conclusione dell’anno scolastico, quello in cui dovrò relazionare circa il progetto di musica che abbiamo portato a termine noi delle terze la scorsa primavera con un esperto esterno.

In poche parole, vorrei introdurre il mio intervento riportando una considerazione espressa dal mio collega insegnante di musica della secondaria in occasione del saggio delle classi di fine anno a cui ho assistito per intero (21 classi, due o tre o quattro brani a classe eseguiti con metallofoni e flauti dolci e qualche guizzo come basso elettrico, chitarra e tastiere) perché mi è stato richiesto di fare le riprese video.

Il prof di musica ha elogiato le sue classi, mettendo però in guardia gli spettatori (non più dei due genitori per alunno, fratellini e sorelline ammessi in via eccezionale come extra) sul fatto che quanto avrebbero assistito era frutto di un programma svolto lungo non più di due ore la settimana, a cui si deve aggiungere il Covid – anche se le lezioni quest’anno si sono svolte sempre in presenza, i casi di classi dimezzate e le assenze prolungate sono stati tantissimi – e che, parole sue, i ragazzi arrivano dalla primaria senza aver fatto nulla di musica. Che botta.

CHE BOTTA

A caldo, questa considerazione mi ha offeso moltissimo. Io, che ho un passato da musicista anche se non certificato (e questa parentesi che ho aperto e in cui sto scrivendo è dedicata proprio al fatto che in Italia l’unico canale accademico per formare esperti di musica è il conservatorio o poco più), dicevo che io che posso vantare un background di tutto rispetto da musicista, cerco di rifilare la musica ai miei studenti in tutti i modi collegandola a tutte le materie che insegno a partire dalla matematica (tempo/ritmo e numeri e frazioni), dall’inglese (qualsiasi esempio sarebbe superfluo), da scienze (i sensi), dalla tecnologie e la cultura digitale (suonare con i VST e le drum machine e gli innumerevoli sistemi per produrre musica al computer), dall’arte (immagini e musica, quadri e canzoni, ci si potrebbe fare una disciplina a sé), per non parlare dell’ora di musica in cui, a causa del Covid, non si possono maneggiare strumenti, però ascoltiamo e discutiamo a manetta.

Il punto è proprio questo, e ci sono arrivato successivamente, a freddo. Insegnare musica significa principalmente insegnare a suonare. E se i bambini escono dalla quinta primaria sapendo più o meno esprimersi in italiano, più o meno scrivere, più o meno far di conto, più o meno biascicare qualcosa in inglese, la stessa cosa non si può dire per saper suonare uno strumento. E per fortuna che il flauto dolce è considerato superato (anche se non ancora del tutto sconfitto, malgrado siamo nel 2022) ma, anche se non fosse, l’ultima cosa che farei è trasmettere a delle persone l’idea che la musica è quella roba sgradevole, incerta e priva di senso che esce soffiando dentro e mettendo le dita a cazzo su un tubo di legno. Se ne deduce che il mio collega prof di musica tutti i torti non li ha: i ragazzi arrivano dalla primaria senza aver fatto nulla di musica.

I RAGAZZI ARRIVANO DALLA PRIMARIA SENZA AVER FATTO NULLA DI MUSICA
La cosa non ci deve stupire, e l’abbiamo già detto altre volte e perdonate se mi ripeto: chi continua dopo la secondaria di primo grado studierà musica solo al coreutico o forse al liceo che ha preso il posto delle vecchie magistrali, ma non ne sono sicuro. Questo significa che quasi tutti studiano storia delle arti visive, la poesia nella letteratura italiana, mentre la musica sparisce dai programmi. Forse è un’arte di serie B. Però cosa hanno in meno Vivaldi, Puccini, Rossini, Monteverdi e lo stesso Morricone (e mi limito ai compositori italiani, perché se tirassi in ballo Beethoven o Mozart o Bach ciaone proprio) rispetto a Dante, Petrarca, Caravaggio o Michelangelo? Lascio a voi la risposta.

LASCIO A VOI LA RISPOSTA
Tutto questo per dire che il progetto di musica con l’esperto – un tipo davvero in gamba che abbiamo trovato in un modo a dir poco rocambolesco e che ha mescolato musica, danza, teatro e giocolerie facendo letteralmente impazzire i bambini, un vero e proprio personaggio come immaginiamo siano gli artisti di strada, un po’ bohémien, per farmi capire – è andato benissimo e che speriamo che l’anno prossimo possa continuare, magari con lo stesso insegnante perché si sa, per candidarsi ai progetti nelle scuole ci sono i bandi a cui si iscrivono cani e porci e bisogna sempre sperare di essere fortunati perché avere a che fare con gli scarti delle altre professioni è all’ordine del giorno.

Ricapitolando: il discorsetto per il collegio docenti, la traccia sulla musicofilia all’esame di stato, i continui allarmi degli antifurto delle villette che hanno funestato il sonno la scorsa notte. Una combo di eventi che ha generato una conseguenza a dir poco sorprendente.

STAMATTINA SI SONO MANIFESTATI GLI ALIENI

Stamattina si sono manifestati gli alieni, qui da noi, ma ho letto e ho sentito al telegiornale che anche da voi non è andata diversamente. Si sono manifestati in un modo a cui nessuno avrebbe mai pensato e che risulta un po’ essere la summa di tutte le cose che dicevo prima, insieme a un aspetto che sembra tratto da quel celebre film di fantascienza in cui, per parlare con gli extraterrestri, la sceneggiatura prevedeva che gli uomini utilizzassero un sintetizzatore, alla faccia dei chitarristi.

Stamattina, al nostro risveglio, si sono manifestati gli alieni in forma di suono, ma vi giuro che non è colpa mia, non li ho chiamati, è solo che è facile ricondurre questa apparizione (per modo di dire, come vedrete, anzi, come sentite) alla giornata intensa di ieri e alla notte che è seguita.

Gli alieni si sono manifestati nella forma di una nota continua, un si bemolle. Una -fania (mettete voi al posto del trattino la matrice che preferite) a cui nessuno ha dato peso, appena il si bemolle si è diffuso nel chiarore e nel brusio della mattina. Eccoci, ancora un sistema di allarme che suona, ho pensato io, ma scommetto di non esser stato l’unico. Il suono poi è continuato, nessuno si è precipitato a spegnerlo, la Polizia non sapeva dove andare perché il si bemolle continuo si percepisce ovunque e, soprattutto, al momento non si capisce da dove provenga, quale sia la fonte, tanto è omogeneo in ogni angolo del pianeta. Ora chiudiamo gli occhi insieme, concentriamoci sul suono alieno, sul si bemolle, e pensiamo a cosa possiamo fare. Ma non finisce qui.

ciao Ale, e grazie di tutto

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I genitori più ingombranti e presuntuosi sostengono addirittura che ci sia una parte di sé nei loro figli, una sorta di sensore impiantato nel DNA al momento del concepimento che trasmette gli stati d’animo e permette a papà e mamma di condividere brandelli di vita, un po’ come la teoria dei gemelli così omozigoti che restano in contatto scambiandosi emozioni anche dagli antipodi del pianeta, segnali così forti che nemmeno l’Internet Of Things. Non è tanto bella come visione della vita e della natura, se pensate che certi altri animali dopo poche settimane salutano i loro cuccioli, ognuno va per la sua strada e chi si è visto si è visto.

Nel genere umano si vive addirittura l’ansia da esame di maturità transgenerazionale. Non so come sia andata a voi. I miei genitori sono stati attenti alla mia crescita credo nella norma, secondo la consuetudine ai tempi in cui le cose da ragazzini erano considerate, appunto, cose da ragazzini. Mia mamma si è presentata a mia insaputa come spettatrice all’orale mettendomi un po’ in imbarazzo se non altro perché c’era il mio migliore amico che mi aspettava, a prova terminata, con una canna accesa, all’ingresso della scuola. Oggi c’è molta più ingerenza nel percorso scolastico dei figli (e nella loro vita tout-court), un comportamento che potrei limitarmi a testimoniare da insegnante ma che ammetto con rammarico essere fin troppo palese in me da genitore.

Dico questo perché dalle otto di stamattina mia figlia, la mia bambina, è alle prese con la prima prova dell’esame di stato. Ha frequentato un liceo del centro (noi viviamo in periferia, in senso proprio e in senso lato) la cui classicità – e l’associato classismo – lo si percepisce ovunque, a partire dalla sede. Una scuola che ti accoglie con la statua del famosissimo scrittore a cui è intitolato, giusto per mettere subito le cose in chiaro. Un androne, chiamiamolo così, tappezzato di lapidi e di epigrafi, pensate anche queste per mettere i millennials a proprio agio nella storia. Perché ci siete andati, direte voi. Che risposta volete che vi dia, dirò io.

Non ho le idee ben chiare, su questo argomento, come del resto non le ho su quasi tutto ciò che mi riguarda. Mi limiterò alla solita lista di cose che potete collegare o approfondire a vostra discrezione. Il primo giorno di scuola di prima, quando l’ho accompagnata con i mezzi fino a due fermate prima del luogo dell’appuntamento che si era data con due compagni mai visti se non su Instagram qualche giorno prima. Le prime insufficienze gravi con cui è inevitabile imbattersi, d’altronde le superiori non sono più le scuole medie e sono pensate apposta per affondare i più deboli e lasciar correre i predestinati. Il lockdown conseguente alla prima ondata di contagi, a fine febbraio del 2020, ricordate? Una cosa mai vista che ha costretto i nostri ragazzi a concludere l’anno chiusi nelle loro camerette e tutti gli escamotage per studiare il meno possibile ottenendo, allo stesso tempo, i migliori risultati. Poco prima di quella catastrofe avevamo iscritto nostra figlia a un centro in cui volontari aiutano i ragazzi a studiare, un posto pensato per chi non può permettersi l: accesso al mercato delle lezioni di private, e che mi ha convinto l’ennesima volta di quanto incredibile sia Milano. È durato poco, purtroppo. La DAD ha ingoiato tutto e tutti e la terza – per non dire il triennio – è volata via così. I suoi compagni di classe che non ho mai conosciuto, anche perché, al termine della seconda, sono stati smistati nelle altre sezioni. Io sono rimasto al modello della scuola primaria, vissuto da genitore. Conosci tutti e tutto perché, al termine delle lezioni, si va tutti insieme a giocare al parchetto dietro la scuola. Vi avviso, però: le cose a un certo punto cambiano.

La quinta, l’anno che si sta chiudendo, è stata più in linea con la scuola tradizionale come l’abbiamo conosciuta quando eravamo noi studenti, priva però della gita e di tutte quelle occasioni che rendono il liceo l’esperienza più costruttiva della vita. Resta il fatto che, nel giro di qualche minuto, ci siamo trovati alla notte prima degli esami a pensare cose come queste. Non si può che guardare avanti, quindi. Forza ragazza mia. Vai e spacca tutto.

fisso

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Squilla non più di tre volte la settimana. La prima è mia mamma che mi chiama per sapere come stiamo, la seconda è mia suocera che mi chiede quando posso fare un salto per riprogrammarle il decoder delle tele, la terza è un call center e non rispondo. È evidente che, di telefonate, dal mio telefono fisso ne partono ancora di meno. Ha un nome altisonante, si chiama Gigaset, e si erge dalla sua base come un menhir e ringraziatemi che non ho usato una metafora sicuramente più facile ma meno fine.

Ho impostato una suoneria – scelta tra le varie a disposizione – che ricorda il tema di synth di un pezzo techno anni novanta e che, quelle rare volte in cui si sente, mi induce a un immediato e lineare accompagnamento di beat box. La musichetta è utile perché ha dato al cordless una seconda vita da sveglia. Mia figlia non la tirano giù dal letto nemmeno le bombe. Così, quando usciamo presto e lei deve svegliarsi a una certa ora, le lascio il telefono sul comodino, imposto la sveglia sul mio smartphone e, quando si attiva, cerco il numero di casa nella rubrica (non l’ho mai imparato a memoria, malgrado sia lo stesso da vent’anni), chiamo e lascio squillare nella speranza che il telefono fisso faccia il suo dovere.

Anche i miei vicini, quelli che come suoneria hanno la sigla dei Flintstones e che gli invidio moltissimo, in quanto nonni ottantenni come mia mamma e mia suocera, hanno il telefono fisso come noi per un contatto diretto con i loro figli e nipoti che lo usano – come succede a casa mia e in ogni famiglia con almeno uno smartphone a testa – solo per chiamare le persone anziane. La spiegazione si può unicamente ricondurre al fatto che è una tradizione, che quando eravamo bambini i nostri nonni avevano il telefono a cornetta in bachelite con il contratto della SIP e, per chiamare in città, non si doveva nemmeno fare il prefisso. Per il resto non si giustifica più un contratto casalingo di telefonia fissa. Non so dire nemmeno quanto risparmierei se chiedessi a Fastweb di convertirlo solo per la fibra ma, nonostante tutto, la sua presenza e la sua utilità non è stata mai messa in discussione, forse per il legame che ci assicura alle nostre radici. Un filo diretto con il passato.

Warpaint – Radiate Like This

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C’è solo una cosa più sconveniente del mantenere rapporti e contatti virtuali con persone che non la pensano come te in politica, ed è frequentare gruppi Facebook di collezionisti di dischi. Gente che si compra ottanta versioni dello stesso ellepì solo perché ciascuna ha la copertina di una tonalità di blu leggermente differente a seconda della nazionalità di pubblicazione o dell’anno di ristampa o chissà quale altra trovata per allocchi. Se non mi credete, vi sfido a iscrivervi e a farvi un’idea.

L’aspetto più irrazionale di questo comportamento, al netto dei soldi buttati via, è il tempo che richiede poi l’ascolto di tutto il materiale accumulato, senza contare che solo una sega mentale senza precedenti consente di rilevare differenze tra l’una e l’altra copia. E questo ve lo dice uno che, nel suo piccolo, si dà comunque abbastanza da fare. Fondamentalmente compro solo i dischi che mi piacciono ma attenzione, non mi arrogo la superiorità morale rispetto alla deriva ossessivo-compulsiva di cui sopra, ci mancherebbe. Non sono migliore di nessuno. Tanto meno quando acquisto acriticamente qualunque cosa un artista o una band a cui sono particolarmente affezionato pubblichi, ma non più di una release ad articolo. Tra questi, come potete immaginare, considerando l’oggetto di questa recensione, ci sono le Warpaint. Ma cosa c’entra, direte voi, tutto questo con il loro nuovo disco e con il fatto che è facile desumere che l’ho prenotato a scatola chiusa appena ne ho avuto notizia, qualche mese fa.

Vengo quindi al punto. Di base sono ossessionato dalle voci femminili perché il piacere erotico che mi dà in genere la voce femminile non ha eguali. Ha delle frequenze che mi entrano dentro l’orecchio e mi toccano cervello e anima come nessun altro impulso. Molto meglio di vista, gusto, tatto e olfatto. Questo non necessariamente solo nella musica. Da quando sono nato, in famiglia, a scuola e nel lavoro ho avuto la fortuna di riuscire a circondarmi di donne (e il caso mi ha sempre premiato), il cui timbro vocale e la cui parlata da sempre mi appaga i sensi in un modo che non ha mai rischiato eguali.

Potete quindi capire, da fanatico di musica, da essere vivente sensibile in prima istanza in quanto felice proprietario, amministratore e utente di un apparato uditivo (un vero hi-fi a tutti gli effetti) a cui spero di non dover mai rinunciare, potete quindi capire, dicevo, la potenzialità di tutto questo unita al rock. La transustanziazione della voce femminile, che prende corpo nella forma-canzone grazie ai generi musicali che mi piacciono di più, mi permette di raggiungere vette di piacere imparagonabili. Figuriamoci, poi, se insieme alla cantante ci sono pure delle musiciste che la accompagnano. La voce corredata da strumentiste che ne confezionano la resa al meglio, a tutto vantaggio del mio piacere più intimo. Un’orgia di suono. Le Warpaint sono donne e suonano la mia musica preferita. Non chiedo altro. Il quadro ora è completo.

Il fatto è che “Radiate like this” è piombato nella mia vita insieme ad altre tre o quattro nuove uscite di cantanti, interpreti o band guidate da donne – una di queste, per giunta, era la nuova raccolta solista di singoli di Jenny Lee Lindberg, il basso delle Warpaint, uscita in occasione del Record Store Day, pensate che formidabile corto circuito – e la cosa mi ha mandato completamente in tilt.

Perché le Warpaint sono un posto a sé, un’esperienza totale in cui vivere, crescere, viaggiare, credo persino morire, ma non vorrei sembrarvi esagerato o patetico perché, in quei gruppi Facebook di collezionisti di dischi a cui ho fatto cenno sopra, questi toni così enfatici si riservano solo alle pop e rock star trite e ritrite che prestano la loro faccia alle più blasonate enciclopedie, ai trattati di storia della musica o nei meme al servizio di aforismi da tanto al mucchio. Ma i gusti sono gusti, non sono il primo a sostenerlo.

La mia paura è stata, quindi, quella di non riuscire a dedicare l’attenzione che “Radiate like this” richiedesse. Di non essere all’altezza delle Warpaint, questa volta. Di non aver il tempo materiale per lasciarmi permeare da quello che – non avevo dubbi – avrebbe costituito una nuova pietra miliare della mia vita. Di trascurare un rito di cui sono cultore e schiavo e della perdita della ragione che ne sarebbe conseguita. Poi ho trovato la chiave e finalmente sono tornato in armonia nell’esperienza Warpaint. Bastava avere un po’ di pazienza. E ora sono in balia totale delle Warpaint. Se volete vi descrivo brano per brano quello che provo, ma tanto potete comprenderlo da soli e non voglio annoiarvi più del dovuto. Come tutti i dischi delle Warpaint, “Radiate like this” è il disco migliore delle Warpaint. Come tutti i dischi delle Warpaint è il più riuscito, il più maturo, quello della svolta, quello in linea con la tradizione, quello della consacrazione, quello della gloria eterna. Quello che speriamo ne esca un altro presto e che non lascino passare così tanto tempo come tra il penultimo e l’ultimo.

Lasciatemi qui, a chiudermi dentro i dischi delle Warpaint e a gettare la chiave, non chiedo altro. Anche in “Radiate like this” trovo la voce e il suono di mia madre, di mia moglie, di mia figlia, di mia nonna, della mia maestra delle elementari, delle altre donne a cui mi sono legato o che ho frequentato nel tempo. Ci trovo certe intuizioni melodiche che, probabilmente, qualche sinapsi o qualche reazione chimica in fase di sviluppo ha eletto ad archetipo di qualche emozione primordiale che non saprei spiegare, che si rinnova in modo sempre diverso ma sempre fortemente suggestivo e di cui, molto probabilmente, a voi non interessa nulla. Ma, se posso permettermi un consiglio, provate ad ascoltare questo disco. Si chiama “Radiate like this” ed è il nuovo disco delle Warpaint. Non c’è molto altro da aggiungere.