Black Midi – Hellfire

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Le recensioni dei dischi fondamentalmente sono un mucchio di cazzate, quelle che scrivo io più di tutte, sia chiaro. Fortunatamente i dischi li ascoltano in quattro gatti, li comprano in due a essere ottimisti e, di questi, non più di uno – tu che sei capitato qui grazie a Google o alla nostra pagina Facebook – legge quanto vi si scrive a corredo. E il merito principale dei Black Midi è di essere tra i pochi artisti in grado di rendere superflua qualunque tipo di analisi delle loro opere e di mettere a tacere chi, come me, ha la presunzione di saper scrivere o parlare di musica.

La prova è che basta che qualcuno si proponga attraverso registri al di sopra delle convenzioni che è tutto un propagarsi di cortocircuiti nella fruizione dell’arte e nella sua conseguente interpretazione. Nel caso dei Black Midi non è tanto che loro siano dei marziani con cui è impossibile qualunque forma di confronto. Semmai le domande che dobbiamo porci sono se quello che fanno i Black Midi è suonare e cantare e se il pubblico, ancor prima di comprendere, sia certo di ascoltare della musica. Usiamo quindi, per questa cosa che fanno i Black Midi, la generica definizione di entità.

L’entità in questione si chiama Hellfire, viene venduta come il nuovo album della band di South London e può essere percepita con i nostri abituali mezzi nelle consolidate due dimensioni riconducibili a sviluppo verticale (che quando parliamo di musica è l’armonia) e orizzontale (la melodia e il ritmo). Il punto è che questa riduzione semplificata non ci porta da nessuna parte se non a una banalizzazione di ciò che cogliamo, nonché ai consueti riferimenti che usiamo per spiegare l’ignoto e che, nell’antichità, ci hanno indotto ad assegnare sembianze umane ai fenomeni naturali.

Perché una volta citati i soliti Frank Zappa, Mr. Bungle, i Primus, John Zorn o certi King Crimson, non siamo stati utili a nessuno, fermo restando che fosse il caso di portare aiuto per facilitare l’orientamento in questa nebulosa che è Hellfire. Perché quando anche il super-telescopio spaziale James Webb rappresenta l’universo come un pavimento in graniglia nera alla genovese tirato a lucido con la cera, capirete che a questo mondo vale proprio tutto. Potrei aprire una jpg qualsiasi con Blocco Note, copiare e incollare il risultato qui che sarebbe la stessa cosa. Anzi, provateci e dite se non ho ragione e se, quanto ottenuto, non sia più comprensibile di quello che sto scrivendo ora.

Oppure potrei elencare una lista dei frammenti di Hellfire grazie ai quali, secondo quanto ci riportano i nostri recettori prestati a restituirci il piacere della bellezza (decodificatori di linguaggi di basso livello, se vogliamo impiegare una categorizzazione informatica) si riaccende invano la presunzione di poter ricomporre il senso generale di quest’opera, un po’ come si fa con la scrittura degli etruschi.

E allora potrei confermare – secondo il rigoroso ordine di quella che ha le sembianze di una scaletta – che [traccia 1.] nella titletrack il parlato va straordinariamente a tempo con la base e che fa venire voglia di mettergli sotto quei beat della trap con i pattern di hi-hat a sessantaquattresimi, avete presente? E anche che, per non più di tre o quattro secondi, si sente una progressione armonica di archi di cui riusciamo addirittura ad anticiparne l’evoluzione.

Che [traccia 2.] “Sugar/Tzu” quell’assurda alternanza di parti non rientra nei nostri canoni e nelle nostre vite ed è fuori discussione provare qualsiasi tipo di sensazione, fredda calda o tiepida che sia. Certo, il batterista è inumano, ma a quale pro? Che [traccia 3.] “Eat Men Eat” i Black Midi giocano al flamenco e poi qualcuno si stufa e vuole giocare a Trespass dei Genesis. Che [traccia 4.] “Welcome To Hell” qualcun altro ha dimenticato un sample di batteria rhythm and blues acceso ma poi, giusto il tempo di provare il feeling, il resto della band si precipita ad aggiungerci del suo mandandoci ancora in confusione.

Che [traccia 5.] “Still” o c’è finita per sbaglio o ci stanno prendendo per il culo ma non fateci l’abitudine, perché verso la metà siamo punto e a capo. Che [traccia 7.] “The Race Is About To Begin” sembra un folle comizio prog-punk. Che [traccia 8.] “Dangerous Liaisons” sconfina in qualcosa che per noi risulta fusion – senza offesa – suonata da dio. Un consiglio: prestate attenzione agli stacchi sguaiati e isterici che caratterizzano il pezzo da metà in poi, sono tutt’altro che innocui.

Che con [traccia 9.] “The Defence” oramai non ci caschiamo più. Inizia bene, noi ci fidiamo, ci facciamo portare al largo senza salvagente tanto il mare sembra calmo ma poi ancora una volta qualcuno ci abbandona lì, a cercare la salvezza in quell’imitazione da crooner a cui non affiderei nemmeno il mio peggior nemico. E che con [traccia 10.] “27 Questions” abbiamo perso ogni speranza.

Arrivare in fondo a Hellfire è faticoso, uscirne vivi è un’impresa, e possiamo anche discutere se sia un capolavoro o una cagata pazzesca, se “Schlagenheim” aveva ben altre attitudini, se acquistando una copia del disco il rischio è che si riproduca in casa come Alien, saltando fuori dalla pancia della gente. Perché intanto dovremmo metterci d’accordo sull’aspetto fondamentale della questione: di cosa stiamo parlando?

is

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incrocio

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I selfie e le stories delle automobili con il bandierone con la croce gialla in campo blu vengono tutte da lì. La cittadina di Ponte Flusi è la prima ad aver sperimentato il nuovo codice della strada la cui principale novità è destinata a rivoluzionare i criteri di circolazione dei mezzi di trasporto su gomma. L’idea è semplice e innovativa: sono i cittadini che, al momento del conseguimento della patente, vengono insigniti, attraverso l’impiego di un software progettato ad hoc, del privilegio di aver sempre e comunque la precedenza indipendentemente dalle situazioni e dagli incroci, mentre tutti i gli altri si dovranno accontentare dell’obbligo di fermarsi, controllare a destra e a sinistra, e procedere liberamente solo in assenza degli aventi diritto. Lo status di portatore di precedenza non ha ancora un nome, i più blasonati copy di stato ci stanno lavorando, ma saranno automobilisti riconoscibili proprio dalla croce posizionata sulla macchina. Un vessillo portatile che potrà essere spostato di vettura in vettura a seconda delle esigenze. È già partita la caccia ai primi designati: a Ponte Flusi tutti fanno a gara per assicurarseli alla guida, soprattutto chi è abituato a guidare con la smania di giungere a destinazione nel minor tempo possibile ma, nel sorteggio, ha avuto meno fortuna. Tutti i non portatori di precedenza – ricordiamo che il rapporto tra gli uni e gli altri è comunque un perfetto 50 e 50 – potranno quindi approfittare di famigliari, amici e conoscenti in caso di urgenza. Come già è stato evidenziato da diversi studiosi di logistica, si tratta di un programma sperimentale che comporta diversi pro e contro, con relativi studi di miglioramento. Da una parte si è rivelato efficace nello snellimento del traffico e nella capacità di liberare i nodi di passaggio a maggiore rischio di congestionamento: chi ha il privilegio della precedenza non è tenuto a rallentare mai, sono i non portatori che devono porre la massima attenzione e lasciar sempre passare gli altri. Dall’altra, è difficile ottenere una completa regolamentazione delle eccezioni: i portatori come devono comportarsi al cospetto del transito di un loro simile? E i non portatori? Qualche perplessità è stata mossa anche nei riguardi della decisione di rendere ereditario lo status, che al momento può essere tramandato dai genitori ai figli senza rischio di recesso. Attenzione poi alle bandiere non ufficiali: solo l’esperienza ci permetterà di affinare la capacità di riconoscerle ed evitare pericolosi incidenti.

Foals – Life Is Yours

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Non lasciatevi influenzare dai quattro singoli che hanno anticipato il nuovo disco. “Life Is Yours” non è solo un validissimo album pop ma anche l’opera matura di una band in grado di rinnovare ancora la propria musica, mantenendo inalterata l’originalità artistica degli esordi.

Se siete rimasti perplessi all’ascolto di “Life Is Yours” forse dimenticate che la precedente pubblicazione dei Foals è quell’apoteosi di casse dritte che è la raccolta di remix “Collected Reworks” e che, tra i due volumi di “Everything Not Saved Will Be Lost” e oggi, in mezzo c’è stata una pandemia mondiale.

Voglio dire, è chiaro che stiamo parlando di una band a cui indubbiamente piace divertirsi. Ed è facile fare i pessimisti quando va tutto bene. Passate due anni senza mettere i piedi sul palco e senza gente in carne e ossa che vi salta dal vivo davanti e vedrete che dello spleen ne farete anche a meno. La gente vuole riprendersi gli spazi che chi non voleva saperne di vaccinarsi gli ha negato e sanare quella ferita ancora aperta di due anni di stand-by. Vogliamo tutti la stessa cosa: tornare a ballare e limonare in pista, possibilmente senza mascherina.

Converrete inoltre con me che il lockdown ha spaccato in due il panorama musicale. Da una parte gli apocalittici che, appena le cose si sono messe meglio, non sono riusciti a trattenere tutto il loro pessimismo e che ci danno dentro con il registro del moriremo tutti. Dall’altra gli integrati che, al contrario, hanno lavorato per ricordarci che – appunto – la vita è nostra e ci hanno fatto il pieno (almeno fino a quando il carburante non costava un occhio della testa) per farci partire alla ricerca della felicità, della spensieratezza, di com’erano le cose prima, per quello che è possibile.

Che poi, a dirla tutta, non è che siamo molto distanti dai Foals di “Total Life Forever” o di “Holy Fire”. La musica della band guidata dall’istrionico Yannis Philippakis possiamo figurarla come un template neutro – ma ben strutturato – che assume la fragranza dei contenuti di cui si popola. Il math-rock diventa geometria in grado di generare poligoni regolarissimi se lo fai filare liscio nella perfetta parità del quattro quarti, al massimo con l’estrusione di figure solide più elaborate riconducibili a ritmiche e atmosfere perfette per i dancefloor delle Baleari in alta stagione. Le melodie si assestano su architetture più comode e diventano ammiccanti. L’elettronica è quella di sempre, e basta giocare d’esperienza con qualche preset di synth meno algido per fare breccia nella pancia ustionata per l’eccessiva esposizione al sole del pubblico danzante.

Scevra della cupezza del precedente doppio disco di inediti, la musica dei Foals e la voce da inni da dj set di Philippakis riescono a mantenere un’integrità che qualunque altra band indie-rock se la sogna. Non è facile, con questi ritmi, votarsi al pop senza trasformarsi in dei Maroon 5 qualunque. Basta ascoltare le undici tracce di “Life Is Yours” per sincerarsi che comunque è tutto a posto, che un’altra estate musicale è possibile, che nel momento più torrido di sempre ci è concesso ancora abbassare i finestrini della vita e far ondeggiare la nostra mano al vento caldo, abbandonati alla musica che ci guida verso la spiaggia dei nostri sogni.

“Life Is Yours” si apre con la sicurezza dei quattro singoli usciti negli scorsi mesi. I Foals liquidano in fretta la pratica del già sentito, il rovescio della medaglia dell’industria della musica liquida che impone troppi stuzzichini di antipasto ma, come ci hanno insegnato le nostre mamme, ad abbuffarsi prima è facile guastarsi l’appetito. Ed è un vero peccato, perché paradossalmente i pezzi più noti sono i più deboli dell’album e, dopo “Summer Sky”, la breve coda strumentale di “2001”, le cose si fanno davvero molto più interessanti.

“Flutter”, forse il brano più convincente del disco, gioca tutto il tempo sulla ripetizione del lungo riff di chitarra. “Looking High” e “The Sound” si presentano come raffinate produzioni indie-funky degne di Nile Rodgers e impreziosite da ritornelli che non deludono. L’album accelera finalmente con “Under The Radar”, una composizione ricca di arrangiamenti e citazioni del migliore synth pop anni 80. Ma se siete nostalgici, riuscirete a rintracciare i Foals degli esordi in “Crest Of The Wave” e, soprattutto, nella trascinante “Wild Green”, l’ultima traccia, canzone che si snoda in un finto crescendo alla “Blue Gold” e che, anziché portare l’ascolto al parossismo, lo imbriglia per domarlo verso un finale in completa naturalezza.

“Life Is Yours” è, in sintesi, una prova positiva di artisti che sanno mettersi in gioco anche dopo cambiamenti di formazione importanti (il bassista e il tastierista polistrumentista, fondatori della band, hanno dato forfait nel corso degli ultimi anni). L’approccio corretto all’ascolto dei Foals del 2022 deve tener conto della loro longevità artistica, di come sono andate le cose, di quello che è già stato detto e che non sarà mai più uguale a prima. Un disco leggero ma intelligente, in cui non c’è proprio nulla di sbagliato.

radio libera (dal blues)

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Della radio mi piace tutto tranne i dj, i presentatori, i programmi, i contenuti rubati da “forse non tutti sanno che” della Settimana Enigmistica, la musica di merda che trasmettono, l’idea che le radio hanno del rock, le risate sguaiate, le voci cavernose e suadenti, le interruzioni pubblicitarie, i jingle autoreferenziali che passano al termine di ogni sacrosanta canzone, certe equalizzazioni pensate per impianti stereo da miliardari, gli accenti iperinglesi che non ce l’hanno nemmeno gli anglofoni madrelingua. Ed è per questo che la radio non la accendo mai. Poi è nata Lifegate, che si prende solo a Milano, ora mi pare anche a Torino, e ora, anche a casa e non solo in auto, non ascolto altro. La metto anche quando vado a correre e sto valutando di disdire l’abbonamento a Spotify. Tutto perché Lifegate trasmette molta della musica che preferisco. Lifegate riflette perfettamente la mia collezione di vinili, con numerosi inserti del mio archivio di mp3. Lifegate poi è migliorata tantissimo da quando non trasmette più blues. Fino a qualche mese fa, ogni due o tre canzoni interessanti, mi toccava cambiare canale perché mettevano un pezzo blues e, se lo conoscete, saprete che il blues è un genere popolato da canzoni tutte uguali che durano un’eternità sugli stessi tre accordi che poi, indipendentemente dalla tonalità, sono sempre quelli. La colpa credo fosse di un noto attempato giornalista musicale fissato con il blues che probabilmente collaborava con la redazione nella definizione del palinsesto musicale. Poi non so cosa sia accaduto ma Lifegate ha confinato il blues in un canale streaming a sé – che evito come la peste, anzi, come il Covid – e sulla frequenza principale – che è 105.1 – del blues non c’è più nemmeno l’ombra. Una scelta che ha migliorato tantissimo l’esperienza di ascolto di Lifegate, tanto che adesso posso dire che, malgrado delle emittenti che si ascoltano non salvi davvero nulla (al netto di Radio Tre e di Sei Uno Zero su Radio Due) ho finalmente trovato una radio perfetta per me. Si chiama Lifegate ma tanto è inutile che faccia pubblicità perché scommetto che, anche voi, ora che il blues è finito, non riuscite ad ascoltare altro.

repubblica

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Qualche giorno fa un amico è rimasto invischiato in una polemica sulla pagina Facebook del paesello in cui abitiamo. Ha espresso una considerazione su un tema – una sciocchezza, come tutte le cose che trattiamo su Facebook – ed è stato attaccato sul piano personale e insultato. Sono dinamiche che, dopo quindici anni di presenza negli ambienti virtuali di Zuckerberg, dovremmo ormai conoscere e sapere come evitare.

Vi riporto così qui il decalogo + 1 per la presenza in Facebook sottoscritto e approvato dalla Consulta Mondiale sui Social Network, quella specie di Convenzione di Ginevra per il web di cui non abbiamo mai abbastanza. Una lista di comportamenti da copiare e incollare sulla vostra bacheca virtuale (qualunque essa sia, io uso Google Keep) e non dimenticare mai:

  1. non esprimere mai opinioni sul tuo profilo Facebook
  2. non commentare con le tue opinioni i post contenenti opinioni altrui
  3. rendi i contenuti del tuo profilo visibili solo agli amici
  4. inibisci la possibilità di condividere i tuoi post
  5. fa attenzione che nel post che stai per pubblicare sull’argomento tal dei tali in realtà tu non stia parlando di te
  6. fa attenzione che nel commento che stai per pubblicare sotto il post inerente l’argomento tal dei tali in realtà tu non stia parlando di te
  7. prima di scrivere un commento controlla che non sia già stato scritto da qualcun altro in calce allo stesso post, soprattutto se pensi di fare il simpatico
  8. prima di scrivere un post contenente una freddura ricordati che sicuramente qualcun altro l’ha già scritta prima quindi rinuncia in partenza
  9. evita di partecipare alle discussioni in cui sai di aver ragione, anzi, evita di partecipare alle discussioni punto
  10. rileggi le cose prima di pubblicarle e ricorda che puoi sempre modificare e cancellare tutto
  11. se riesci, togliti da Facebook

Ci siamo incontrati con l’amico vittima degli attacchi sulla comunità Facebook del paesello e altra gente, tutti iscritti al gruppo in cui si è svolto il battibecco. L’episodio è stato quindi ampiamente discusso e commentato mentre sorseggiavamo una birra, in mezzo agli altri temi del momento come la siccità, la crisi di governo, il Covid. La mattina successiva ho saputo della morte di Eugenio Scalfari. Ho ripensato a tutti i numeri di Repubblica che ho acquistato prima che Internet polverizzasse l’informazione e che Repubblica diventasse il quotidiano che è diventato. Le cose sono molto diverse rispetto a quando leggevo il giornale sul treno, andando al lavoro, in mezzo a decine di altre persone che si informavano allo stesso modo.

Ecco, ci sono cascato di nuovo. Mi capita infatti spesso di pensare a come era bello prima che esistessero i Social Network ma non solo per tutti i motivi che ci siamo detti e ripetuti milioni di volte. Quello che mi urta di più è che le cose che scriviamo sui Social Network siano poi oggetto di conversazione nella vita sociale in presenza. Per chi è cresciuto nell’era analogica – con il profumo della carta e i suoni del vinile e le foto in bianco e nero e le ricette senza foodblogger che rompono i coglioni e la RAI prima che Mediaset rovinasse tutto – i link tra rete e vita dal vivo conservano ancora tutta l’artificiosità che i millenials, per fortuna, non percepiscono più e possono guardare a un futuro privo di quella patina di finzione che ci fa ancora apparire le persone che si mettono in mostra sui social come cosplayer del mondo da questa parte dello schermo. Per fortuna, noi nostalgici ci stiamo estinguendo, un po’ come il reggaeton.

milano

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Cascina Merlata è un quartiere decisamente suggestivo. Ricorda uno di quei rendering che gli studi fighi di architettura pubblicano sui social e sulla cartellonistica presso gli uffici vendita per commercializzare i loro progetti, con gli omini finti che stanziano negli spazi comuni. Tra aspettative e realtà c’è spesso un margine di differenza dovuto a svariati fattori ambientali che condizionano poi la fase costruttiva e l’effettivo utilizzo dei complessi. In questo caso, invece, il risultato – in quanto a virtualità – è addirittura superiore alla più realistica delle anteprime digitali. Ho già sentito più persone definirla scherzosamente Hong Kong e non vi biasimo. L’alternanza di grattacieli progettati con tutti i crismi in chiave green a spazi verdi per la socialità ricorda i paesaggi di certi quartieri dormitorio delle megalopoli orientali, quelle che abbiamo visto deserte nei servizi dei tg a ridosso dell’esplosione della pandemia. La fredda perfezione degli agglomerati urbani ecosostenibili trasmette infatti una modernità priva di anima. Manca infatti ancora la componente umana che poi dovrebbe funzionare da collante tra l’ambiente come è stato pensato sulla carta (anzi, sul modello BIM) e la quotidianità.

Transito nei pressi del nuovo quartiere di Cascina Merlata ogni giorno in auto per andare a scuola, anche se lo attraverso da sotto, e l’effetto della skyline multicolore prima di inabissarmi nella galleria sotto la rotonda non è per niente male. Poi ho trascorso una serata al Mare Culturale Urbano, qualche giorno fa – abbiamo festeggiato il 92 di mia figlia alla maturità classica – e ho avuto la conferma di tutte le emozioni che il posto mi ha suscitato a distanza. C’era davvero un sacco di gente a cena, famiglie e comitive con pargoli al seguito che consumavano la pizza d’asporto sulle panchine del parco e giovani che approfittavano della vasta offerta di birre, il tutto con il contrasto che ci si aspetta in un sobborgo due punto zero di periferia, ovvero le strade intorno – ancora in fase di cantiere – deserte.

Ho parcheggiato su un ampio marciapiede in prossimità di un edificio in costruzione e, in risposta, ho trovato un volantino di un comitato di quartiere sul parabrezza in cui venivo giustamente redarguito circa lo scarso senso civico del gesto. A Milano è la (pessima) norma. Per questo ho apprezzato l’iniziativa. Ho immaginato la ronda di proprietari dei nuovi appartamenti che, con l’obiettivo di prevenire abitudini selvagge in una zona che si prospetta ad altissima densità abitativa e di fruizione nel prossimo futuro, scoraggia in partenza gli analoghi fenomeni di degrado urbano provocati dal popolo degli apericena che già hanno reso infernale la vita del centro e delle altre zone afflitte dalla gentrificazione. Chiamatela come volete, ma a me la delocalizzazione del divertimento di massa mi sembra tutto sommato un modello vincente per abbattere la pressione in centro. Fatevi un giro in zona Bicocca. Nonostante l’università e gli uffici, è un mortorio. Cascina Merlata è altrettanto periferica e il rischio di dimenticarsene è reale. La differenza è che è stata oggetto di pianificazione più attenta (e più attuale) e per mantenere un equilibrio tra vivacità e movida le iniziative di prevenzione possono risultare efficaci.

La sera successiva ho partecipato a uno spettacolo di “Estate al Castello” e, al termine della formidabile pièce di Corrado d’Elia su Beethoven, ho avuto l’opportunità di valutare l’esperienza di Cascina Merlata mettendola in confronto con il centro, i milanesi doc, i turisti e tutto il resto. Ogni metropoli è fatta così, con parti che non si somigliano tra loro e quartieri nuovi di pacca che invece sembrano tali e quali a zone che abbiamo fotografato in altre città in Europa e nel mondo. Territori di mezzo che fanno da tramite ad altre aree inglobate nei comuni del circondario per poi assottigliarsi per confondersi con un centro diverso. Piccoli paesi che ingenuamente rivendicano una loro identità ma dei quali ormai, già oggi, resta quasi nulla, impigliati senza ritorno nella tela della metropoli che segue il suo corso naturale. Tutti aspetti che, però, rendono Milano ancora più affascinante. Io, da qui, spero di non andarmene mai più. E, se avessi saputo, sarei arrivato prima.

l’assedio

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Peggio di un trasloco c’è solo la combinazione estate più calda di sempre più lavori del 110%. Dal balcone di casa mia osservo avanzare inesorabilmente i ponteggi che, nel giro di due giorni, raggiungeranno il mio piano, lo fagociteranno e lo oltrepasseranno sino a ricoprire l’intera superficie esterna del condominio in cui si trova il mio appartamento come in un film dell’orrore, anche se potrebbero sembrare di più le riprese dell’assedio di un castello dell’antichità.

Un’installazione che, una volta impacchettata con i teli anti-polvere, anti-calcinacci e anti-tutto, sarà degna di un’opera d’arte di Christo. Vista in quest’ottica, ci sono città che sembrano veri e propri musei outdoor di arte contemporanea, considerando il proliferare dei cantieri. Ho un amico architetto, per il quale il superbonus è più che una manna dal cielo, che mi ha fatto riflettere sull’iniziativa da un punto di vista a cui non ero arrivato, da solo. Sostiene che, malgrado possano apparire come opere unicamente a vantaggio dei proprietari di immobili, in realtà le riqualificazioni dei condomini privati sono a beneficio di tutti. Dei risparmi energetici che consentiranno ne raccoglierà i frutti l’intera collettività e, soprattutto, i nostri figli. E lo so, fa un po’ ridere ma ve la riporto as is.

Il fatto è che se vivete dentro a una di queste performance edilizie sono certo che, come me, avrete la sensazione di trovarvi in un cerchio dantesco. I lavori del 110% nell’estate più calda di sempre significa smantellare i condizionatori e tapparsi in casa. Chi pratica il telelavoro scoprirà che trapani e martelli non rendono certo smart l’esperienza di produttività domestica e si precipiterà a gambe levate ad affrontare i ritardi dei mezzi per raggiungere a tutta birra l’ufficio.

Il balcone, che in estate è la zona di casa mia più frequentata, a breve sarà impraticabile. Abbiamo già sgomberato le piante e il tavolo su cui pasteggiamo nella speranza di trovare un po’ di ristoro dall’afa. La lettiera della gatta è tornata dentro e la libertà di girare conciati come si vuole o nudi per casa ora è fortemente limitata dal continuo passaggio dei carpentieri.

Ma ci sono conseguenze molto più serie. Gli interventi cosiddetti trainati ci costringeranno a disallestire intere pareti per permettere la realizzazione di tracce e impianti, a partire dal muro del salotto su cui poggia il mobile – il mio regno – che contiene l’impianto stereo e la mia collezione di ellepì. Questo significa che, a valle di tutto, ci sarà un terzo tempo in cui saremo costretti a pulire casa da cima a fondo e tinteggiare i vani.

Per questo vorrei chiudere gli occhi e svegliarmi tra sei mesi, quando si prevede che sarà tutto finito. Io, vi confesso, non mi sarei mai imbarcato in un’impresa di così vasta entità. Passo moltissimo tempo in casa e non poterne usufruire mi comporta un disagio senza confronti. Non so davvero che pesci pigliare. Vedere una delle cose a cui tengo di più oggetto di una ristrutturazione che la debiliterà per così tanto tempo (e che sono certo ne migliorerà il valore ma a quale prezzo) mi fa star male.

deprime day

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Nella formula pensata da Amazon per disfarsi degli avanzi di magazzino, pratica più che lecita e in auge da quando è stato inventato il commercio, ci caschiamo tutti. La mia lista di cose che vorrei comprarmi ma che non posso permettermi non fa un plissé nemmeno nei giorni del giudizio universale del colosso delle vendite online. Consulto compulsivamente il carrello ma non succede mai che almeno uno dei prodotti salvati scenda di un centesimo. Dev’essere ingenuo pensare che i dati ricavati dalle brame dei consumatori non siano tenuti sotto osservazione nella stanza dei bottoni di Jeff Bezos e che, appunto, il signore degli algoritmi se ne guardi bene dal venirci incontro, a noi poveracci. Qualcuno, scherzando, sostiene che prima o poi il board di Amazon provi pietà per chi conserva a lungo gli articoli a un clic dalla transazione finale e, sotto Natale, proceda a un’opera di bene. Non è un caso che la foto dell’universo che rimbalza di social in social proprio oggi non sembri altro che un groviglio di quelle lucine con cui si addobba l’albero, riprese tutte mosse con uno smartphone scadente come il mio. Qualcuno, a miliardi di anni luce di distanza, non ha ancora riportato in cantina palline e festoni. D’altronde, chissà se lassù e tutti quei millenni fa c’era l’epifania. Dev’essere per questo che, in questi due giorni di saldi, si possono trovare stringhe di led luminosi a prezzo ribassato. Per non parlare dei telefoni per immortalare il tutto: se scartabellate fra le centinaia di marche e modelli, che sembrano sempre più tutti uguali, sicuramente uno per le vostre tasche ci sarà.

gli esami non finiscono mai

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In un futuro distopico l’occupazione nazista non è mica finita con il 25 aprile del 45 ma si ripresenta come incubo la notte prima dell’orale di maturità di mia figlia. Viviamo a Forte dei Marmi in un appartamento all’ultimo piano di un edificio liberty del centro che, dall’interno, ricorda il Chrysler di Manhattan anche se nella realtà l’ho visto solo da fuori. La casa, come la attigua soffitta, è stipata degli archivi segreti dell’amministrazione di Obama. Per questo le SS hanno come obiettivo principale quello di scoprire il luogo segreto che potrebbe mettere in ginocchio gli alleati e sancire la vittoria dei tedeschi. Un attico che, tra milioni di italiani, non poteva che essere abitato da noi.

La polizia segreta del Fuhrer sta rastrellando la cittadina. Qualcuno, prima che ci trasferissimo lì, ha già ammassato tutti gli schedari di metallo nelle stanze più esterne dell’appartamento creando diversi livelli di barriere, un deterrente in grado di ostacolare l’accesso al piano superiore, in cui sono nascosti i documenti più top secret. Mia moglie e mia figlia, strisciando sotto gli armadi, sembrano aver trovato un posto sicuro in cui nascondersi e non le vedo più. Io ci provo, ma il mio stomaco da birra mi impedisce di seguirle. Provo a chiamarle senza successo. Torno in salotto, mi guardo intorno e capisco quale sia il vero punto. So che quando i soldati fanno irruzione nelle case non vanno molto per il sottile, per questo la mia principale preoccupazione è mettere al sicuro la mia collezione di trentatré giri ma c’è pochissimo tempo e non so da dove iniziare.

In uno di quei salti impossibili in qualunque montaggio cinematografico ma all’ordine del giorno, anzi della notte, nei sogni, ci ritroviamo fuori, nella piazzetta su cui si affaccia l’appartamento. Un sollievo, perché anche se i nazisti faranno irruzione in casa non ricondurranno i faldoni custoditi alla nostra presenza. Non so chi altri prenderebbe in affitto un attico sapendo di mettersi in pericolo di vita. In strada ha appena piovuto, io indosso un trench chiaro come Humphrey Bogart in Casablanca, ma non è nemmeno necessario che suoni la sveglia che ho programmato alle sei. La giornata è una di quelle che non dimenticheremo presto e qualcosa che mi sento dentro mi tira giù dal letto che è ancora buio.