imperfetto

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Immagino che nessuno di voi abbia colto la differenza ma sto frequentando un corso di scrittura creativa. La scrittura creativa è un’esperienza che volevo provare da un po’ e ce ne sono anche altre, a partire dallo psicanalista fino a comprare un modello di bici a metà tra la city bike e la mountain, considerando che non mi lancio tutto imbragato giù dai sentieri ma qualche sterrato, nei parchi della zona, è facile trovarselo lungo i percorsi delle scampagnate della domenica.

Che l’essere egoriferito sia il trait d’union di queste cose – scrittura creativa, psicanalisi e bicicletta – è fuori discussione, ma tra tutte il corso di scrittura creativa, cioè un metodo per imparare finalmente a scrivere storie di più ampio respiro e con un inizio e una fine e non queste minchiate tutte uguali che pubblico qui sopra, credo che possa aiutarmi a uscire fuori da me stesso e apprezzare anche il resto del mondo.

Che poi non è che qui dentro sia tutto rosa e fiori, anzi. Dopo più di mezzo secolo di clausura nel proprio corpo e nella propria mente uno ne ha anche i coglioni pieni di sé, e vi assicuro che se potessi cambiarmi con un modello diverso non ci penserei due volte. Condividere con se stessi per tutta una vita le stesse considerazioni, le solite reazioni e le consuete dinamiche a seguito di ogni input da fuori è una vera scocciatura, per non parlare di vedersi tutte le mattine la stessa faccia allo specchio.

La scelta di quale corso di scrittura creativa frequentare non è semplice perché l’offerta è vastissima. Il mercato è saturo, d’altronde purtroppo il mestiere dello scrittore non è un mestiere, nel senso che non è un lavoro fisso e non c’è uno stipendio anche perché non è una vera professione, quindi chi sceglie di mantenersi con i suoi romanzi finisce che deve inventarsi mille espedienti per arrivare a fine mese, e insegnare scrittura creativa è uno di questi. Io mi sono affidato al buon senso e mi sono rivolto alla scuola che credo sia quella più in voga, quindi il meglio, e dopo qualche lezione ho già capito diverse cose della scrittura e del mio rapporto con essa. La formula del corso è di per sé ottima perché permette a me e ai miei compagni di classe di misurarci tra di noi, aspiranti narratori. Voglio dire, io mi sento una merda se oso mettere a confronto i miei racconti con quelli di Carver, giochiamo un campionato diverso in cui lui è al primo posto della classifica della massima serie e io uso da ubriaco la versione craccata di FIFA 93. Un corso di scrittura creativa consente invece di rendersi conto di chi sono le persone che hanno le tue stesse velleità e sentirsi una merda comunque. Quando ci mettiamo alla prova durante le lezioni (chi tiene il corso ci assegna un tema e il tempo che abbiamo a disposizione, che è una pratica che trovo crudele) e poi gli altri leggono i loro elaborati – siamo una ventina in tutto – mi rendo conto che paragonati ai miei sono dei best seller. Anche i più banali esercizi in cui dobbiamo buttare giù un incipit da un quadro (Hopper va per la maggiore) mi mandano in tilt e i risultati sono pessimi, mentre i miei compagni producono attacchi che ti viene voglia subito di sapere come vanno avanti.

Vado dritto al punto, e cioè che sono un cane a scrivere, ed evito di ricondurre questa mia totale inadeguatezza all’insegnante che non è in linea con i miei gusti letterari e forse è un po’ mainstream rispetto a ciò che leggo. Ha esordito con un brano dell’autore italiano che schifo di più – che per giunta è uno dei fondatori di quella scuola – e sostiene che l’uso del tempo presente nelle storie sia banale, molto limitativo e un po’ un cliché di quelli che vogliono sembrare a tutti costi degli sperimentatori letterari. Questa cosa del tempo verbale nelle storie mi ha fatto molto ricredere sulle mie potenzialità. Il fatto è che il passato remoto è bellissimo ed è il tempo della grande letteratura e dei capolavori della narrativa. Non a caso, a parte in qualche anacronistica ostinazione campanilista, nessuno lo usa quando si esprime a voce. Quando provo a scrivere qualcosa e uso il passato remoto mi vedo davvero poco credibile, uno che piscia fuori dal vaso, uno che si dà delle arie ma poi fa errori di grammatica da prima elementare. Poi l’insegnante cita autori che non ho mai letto mentre i miei preferiti, al momento, risultano non pervenuti. Ma questo non è un problema, anzi. Sono contento di imparare delle cose nuove e, per di più, da un punto di vista differente rispetto al mio metro quadro abitato da musica discutibile e autori americani contemporanei. E per giustificare quanto sia scarso, non mi nasconderò dietro il fatto che ho scritto per lavoro per vent’anni nel settore della comunicazione e del marketing e che è uno stile che, comunque, ti forgia in un certo modo che non è detto che vada bene per altre cose.

Per non parlare di questo blog, che curo da altrettanto tempo. Che poi non è nemmeno un blog, non se lo incula nessuno, nessuno commenta, nessuno interagisce, niente di niente. Nei blog uno dovrebbe scrivere cose che interessano i lettori, invece alla fine io scrivo solo cose che interessano a me. Quando non mi ricordo come è andato questo o quell’episodio lo cerco qui e me lo ripasso per vedere, sempre con quel me stesso con cui convivo quotidianamente e che si è iscritto insieme a me al corso di scrittura creativa (ma poi ho pagato solo io quindi è anche uno scroccone), se nel frattempo è cambiato qualcosa. Ma, per concludere, come potete immaginare, non è cambiato nulla. Non è nemmeno un blog, questo, piuttosto è un diario dei ricordi, come quelli che le persone tengono nel cassetto del comò ma qui faccio prima, non perdo i file come potrebbe accadermi se usassi Word e salvassi tutto sul mio pc e poi c’è anche la comodità di WordPress, che è un content management system coi fiocchi.

Mi piace il presente, mi piace il passato prossimo e adoro l’imperfetto forse proprio perché si chiama imperfetto. Il mio insegnante di scrittura creativa dice che un esercizio che possiamo fare è scrivere al passato remoto e poi tradurre tutto con il tempo presente, perché se si parte subito con il presente alla fine uno scrive frasi brevi. Usa la punteggiatura come vezzo. Così come sto facendo io ora. Invece, quando scrissi quel romanzo al passato remoto, riempii fogli di paragrafi lunghissimi ricchi di coordinate e subordinate, e poi rilessi quanto avevo annotato e mi piacque così tanto che mi comprai una penna in in piuma d’oca e un calamaio in cristallo di Boemia. Insomma, al passato remoto proprio non mi ci vedo ma perché non sono capace. Ma nemmeno come scrittore mi ci vedo, non sono proprio in grado. Ma se qualcuno ha voglia di fare cambio, nel senso di scambiare il suo se stesso con il mio me stesso anche solo per fare una prova, fatemi sapere.

economia di scala

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Zhai è il mio alunno cinese campione mondiale di induzione a stereotipi. Il papà ha un nome italiano così improbabile per un italiano da fare il giro e attestarsi tra i nomi di cinesi in Italia più diffusi. Fa l’imprenditore e lui e la moglie hanno due auto che, insieme, fanno cinque anni di stipendi del maestro del loro figlio. Zhai parla così male la nostra lingua che si esprime a frasi che sembrano una trasposizione automatica in una versione inglesizzata dell’italiano, senza maschili e femminili, coniugazioni e declinazioni. Anche per questo, Zhai sembra un bambino digitalizzato da sovraesposizione ai dispositivi elettronici e poi convertito in testo dall’OCR di un algoritmo cheap. Però ormai siamo in quarta e la DAD non c’entra nulla se non è migliorato di un centimetro dalla prima, così abbiamo gettato la spugna e imparato a capirci lo stesso, una convenzione tra di noi che vige per salvare il salvabile.

Con una di quelle fuoriserie, con la mamma al volante vestita come una cosplayer della fashion week, me lo ritrovo spesso dietro nel pezzo di strada che percorriamo insieme all’uscita da scuola. Me lo fa notare Zhai stesso, il giorno dopo. “Maestro, ieri noi dietro seguire te strada casa”. C’è stato però un passo in avanti. Fino allo scorso anno sembrava quasi vergognarsi delle proprie origini, fingeva persino di conoscere gli involtini primavera. Quest’anno la mamma gli impone di imparare a memoria un verso di una poesia in mandarino al giorno e mi scrive persino qualche parola nei suoi ideogrammi sui fazzoletti di carta che poi appendo in classe. Sta sempre da solo, in mensa tiene le distanze e siede nel punto del tavolone in cui può mangiare il più lontano possibile dai compagni, detesta lavorare in coppia o in gruppo e il massimo della socializzazione – non dimentichiamo che anche se cinese è di base un maschio – è giocare a palla nell’intervallo lungo con gli altri. A casa, i fine settimana li trascorre da solo con i fratelli e un paio di cuginetti cinesi che hanno due nomi nelle due lingue proprio come lui.

I suoi parenti sono un cliché di quello che pensiamo facciano i cinesi in Italia. La zia gestisce un ristorante, lo zio con la moglie (cinese) lavora in una rivendita di articoli di telefonia e cover, ci sono anche dei cugini del padre che vendono vestiti al dettaglio e i nonni hanno quello che lui chiama un magazzino, che poi ho scoperto essere uno di quei giganteschi bazar di roba cinese dove si trova di tutto. La mamma lo porta spesso al magazzino, da dove torna pieno di giochi cinesi che poi, immagino, si rompano dopo qualche settimana ed è per questo che l’esperienza si ripete in modo periodico. Ieri mi ha detto di esser stato al magazzino a prendere per sé e per il fratellino il monopattino. La prima volta in cui mi ha parlato del magazzino ho pensato fosse una storpiatura di grande magazzino, la locuzione con cui negli anni ottanta definivamo i centri commerciali sull’onda dall’archetipo costituito dalla Rinascente che, comunque, resta un’altra cosa. Invece no. Se chiediamo di portare lo scottex Zhai arriva con una sottomarca da discount, stesso discorso per calcolatrici, compasso e altro materiale scolastico. Poi, parliamoci chiaro: che anche i proprietari della cartoleria si riforniscano al magazzino della famiglia di Zhai è un dato di fatto, quindi non è che gli altri in classe abbiano in dotazione materiale da boutique.

Questa dinamica trova poi la chiusura del cerchio nel modo in cui lo vestono, se pensiamo che abbigliamento cinese oggi è diventato un vero e proprio stile. Se mettiamo insieme le possibilità economiche della famiglia con la disponibilità di indumenti a cui hanno accesso unita alla velocità con cui i mocciosi crescono e al ciclo di vita irrisorio – dovuto alla qualità – di quel vestiario, ogni mattina faccio caso al suo look e vederlo più di un paio di settimane con le stesse cose addosso è impossibile.

Eppure, nonostante tutti questi stereotipi che ho sviluppato nei suoi confronti, Zhai me lo ritrovo sempre appresso con la sua voglia di raccontare, sempre nella sua lingua inventata. Viene alla cattedra in continuazione, o dal banco mi fa quella richiesta di avvicinarmi che usa solo lui, con tutta la mano e non solo con l’indice, perché è un bambino e scoppia dal desiderio di farmi sapere, di mettermi al corrente, di chiedere il perché, di farmi vedere quanto è bravo e intelligente. A casa l’italiano, anche se è la lingua ufficiale del business cinese in Italia, lo praticano poco e questo è un peccato. Ho addirittura pensato che qualcuno gli abbia insegnato a non mescolarsi troppo, proprio come ci insegnano gli stereotipi più crudeli, ma anche se fosse sarebbe un comportamento di cui non ho ancora compreso l’esigenza e le finalità.

male di stagione

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Passati in silenzio i quattro mesi della vacanza dei docenti, l’impatto con il palco della scuola è quasi sempre letale. A metà ottobre gli insegnanti sono afoni o lamentano il mal di gola oppure calibrano il proprio tono di voce sulle frequenze di Barry White che è perfetto per certe tecniche di seduzione anni 70 ma se devi spiegare le proprietà dell’addizione corri il rischio che sia controproducente. Un paio d’anni fa qualcuno aveva organizzato, presso la mia scuola, un efficace corso sull’uso della voce e da allora non passa occasione in cui manifesti il mio rimpianto per non essermi iscritto in tempo.

La voce è il nostro principale strumento di lavoro e un suo impiego scorretto ci mette in condizione di consumarla molto prima del periodo di tempo in cui è business critical averla funzionante. Io non pretendo tanto, diciamo che mi piacerebbe tirare almeno fino a Natale per poi avere quella quindicina di giorni per mettere a riposo l’apparato fonatorio. Invece va a finire sempre così. A ottobre non sai come vestirti, le finestre aperte dell’aula danno il colpo di grazia specie quando rientri sudato dopo l’intervallo lungo trascorso sotto il sole, e via con i primi starnuti.

Da questo punto di vista, noi insegnanti siamo come gli attori. Anche la gestualità è importante e aiuta a potenziare il significato della parola. Quando osservo i divulgatori alla tele cerco di lasciarmi trasmettere il modo in cui tengono le mani e accompagnano con i loro movimenti le cose che dicono. C’è una consonanza – a volte sin troppo impostata – e si vede che è frutto di un genere di studi la cui matrice può essere ricondotta a quella stessa tradizione teatrale italiana che fa sì che i nostri attori siano dei cani, la nostra fiction una merda e i dialoghi una sequenza di banalità difficili da cogliere, peraltro, complice quell’inqualificabile stile di dizione inutilmente sospirata e dialettale che si tramanda di generazione in generazione.

Per fortuna, quando sono in classe e Carmen mi interrompe in continuazione perché le sanguina un dentino, difficilmente riesco a concentrarmi sulla performance, così nel bene e nel male torno a essere me stesso, un ciarlatano prestato alla didattica. Qualcuno mi ha suggerito di riprendermi con una telecamera, mentre spiego, ma non ha mai visto come è fatta una classe. I guru della comunicazione dicono addirittura di non farsi vedere troppo dinoccolati perché si trasmette insicurezza di sé. Se è così, ho capito perché appena mi giro verso la LIM scoppia il finimondo. Torno a voltarmi verso di loro, alzo i toni per ricatturare l’attenzione ed è a quel punto che la mia ugola si ribella. Sento pizzicare dentro al collo e capisco che, anche per quest’anno, ottobre mi vedrà baritono.

fino all’osso

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La mia collega Maria si ricorda benissimo di me mentre mi rammarico, lo scorso anno e più o meno di questi tempi, di non aver ancora imparato a far fruttare i mesi estivi, quando cioè le scuole sono chiuse e noi insegnanti ci godiamo i quattro mesi di ferie o forse più che immeritatamente ci spettano. «È vero», sostiene Maria, «lo avevi detto anche l’anno scorso».

Probabilmente quindi mi ero già lamentato della stessa cosa un mattino dell’ottobre passato e posso scommetterci che ero vestito proprio come oggi. D’altronde il ricambio del guardaroba della mezza stagione occupa sempre la posizione più bassa tra le priorità. Si tratta di pochi indumenti che indossiamo per una manciata di giorni, tra il caldo e il freddo, che non si sgualciscono mai proprio perché li mettiamo poco e prima di comprarne nuovi ci pensiamo due volte. E sicuramente, quando l’ho detto, eravamo nella stessa posizione: io seduto sulle gradinate del campetto di basket, a godermi il sole, e lei con gli occhiali scuri in piedi pronta a tornare all’ombra archiviata la pratica della conversazione del più e del meno dell’intervallo post-mensa, a malincuore esposta a quel calore illusorio, malcelato solo in parte dagli aliti della brezza autunnale, pronta a rifugiarsi in un punto più omogeneo sotto il profilo delle condizioni meteo percepite. Tutti e due, insieme al maestro della 4C, a parlarci messi di profilo, con gli occhi rivolti ai bambini che sono tornati a mescolarsi tra classi e che hanno ripreso a contagiarsi anche al di fuori della propria bolla di sicurezza. Intorno a noi il foliage, le castagne matte in terra, gli scoiattoli che sfuggono alla furia esploratrice dei nostri alunni, i battibecchi tra quelli che giocano con la palla di spugna sul fatto che sia fallo o no. Alla mia collega Maria d’ora in poi rimarrà impresso tutto questo, come la scena di un film, nemmeno fosse il finale di Casablanca.

E vedrete che verrà fuori che devo aver condiviso quella considerazione anche alla ripresa dell’anno scolastico precedente allo scorso, e non va per nulla bene perché non solo non mi piace passare per un vecchio rincoglionito che ripete le cose e mi offendo se qualcuno tiene a mente certi particolari che io ho già categorizzato come errori grossolani e che eviterei che fossero oggetto di conversazione, ma significa che quello di non essere in grado di organizzarmi durante i mesi estivi è un problema che si ripresenta – e so benissimo che si ripresenterà – e non ho ancora preso provvedimenti per trovare una soluzione, con l’aggravante che rimane impresso tra i colleghi in quanto, evidentemente, quello della pausa tra un anno scolastico e quello successivo costituisce un tema centrale nella vita di un docente, il vero core business, quasi come i sindacati o pretendere di ridurre al massimo le ore buche quando gli incaricati a preparare l’orario si mettono al lavoro o considerare i PDF sacri e inviolabili, pena il licenziamento e conseguente ricorso al TAR.

E se ne parlo qui è solo perché ho la coscienza sporca, so perfettamente di essere in torto. E tra gli svariati modi di buttare il via il tempo facendo cose senza fare nulla, un paradosso tipico dell’Internet, quest’estate ho aumentato a dismisura il mio interesse per l’archeologia. Una passione che, se siete di genere maschile come me e conseguentemente a rischio ossessività nella pratica degli hobby, è meglio lasciar stare perché soffermarsi su troppe foto di scheletri umani dell’antichità, alla lunga, porta alla depressione. Riflettere su ossa e teschi ricomposti o lasciati in mostra nella posizione in cui sono stati sepolti a suo tempo o addirittura colti nell’ultimo sforzo con cui il corpo che sorreggevano ha tentato un’estrema difesa dal cataclisma che lo ha inghiottito o incenerito ci permette di calcolare di quanti miliardi di persone di cui ci resta solo un mucchio di spoglie anonime non si sappia nulla. Niente. Nemmeno un ricordo, un’epigrafe, un nome, un’iniziale, un ciondolo al collo o un corredo funebre o un attrezzo rinvenuto in prossimità. D’altronde, se ci pensate bene, quanti esseri viventi animali e vegetali ci hanno già lasciato le penne dai tempi del big bang? La terra è una palla ultra-millenaria abitata e percorsa da entità semoventi e autonome tutte soggette a un meccanismo a tempo e il senso di questa cosa non si è ancora capito, sempre che ci sia qualcosa da capire. Voglio dire, perché ci interessa il fatto che oltre a noi c’è stato un prima e ci sarà un dopo?

Così mi permetto di mostrarvi questa foto. Vedete? Questo sono io a metà luglio, seduto alla scrivania con il pc acceso, solo in casa. Mia moglie è al lavoro. Mia figlia è in giro per l’Europa con le sue compagne di classe, tutte munite di interrail, a godersi le vacanze tra la maturità e l’università, le ultime in cui ci si può permettere di non fare un tubo. Anzi no, se sceglierà di fare l’insegnante avrà tutta una vita davanti di mesi estivi da buttare via. Dicevo, nella foto mi vedete al computer senza aria condizionata nella stagione più torrida dai tempi del neolitico, con il condominio impacchettato per i lavori del 110% e i teli esterni che faranno anche ombra ma impediscono a qualsiasi materia allo stato aeriforme – a partire da ciò che respiriamo – di circolare liberamente. Se ingrandite il monitor noterete una pagina Facebook con una foto scattata negli scavi di Ercolano e, allargando ancora, degli scheletri che, a loro modo, chiedono di essere risparmiati. Evidentemente nessuno li ha ascoltati.

Il fatto è che ci sono cose ben più gratificanti che pensare a cosa siamo e da dove veniamo ispirati da un mix di osteociti e calcio di duemila anni fa, per di più sporchi di terra.

Qui ci sono parchi, vie con negozi, musei e chiese da visitare. Biciclette da lanciare lungo corsie pensate ad hoc per i temperamenti più ecologisti e opportunità di ogni tipo per il turista a km zero. Basta saper cercare le informazioni giuste e organizzarsi. Trovare in rete orari e occasioni da cogliere e imbastire cronoprogrammi e organizzarsi. Scovare eventi, iniziative, incontri e qualunque tipo di happening a cui presenziare e organizzarsi. Individuare cinema e teatri e persino mostre all’aperto, mercatini e bancarelle di quartiere, conferenze e festival e fiere e organizzarsi. Setacciare il territorio in cerca di scorci, attrazioni, street art, archeologia industriale, riqualificazioni di quartiere e organizzarsi. E al limite anche amici che non si vedono da mesi, parenti quasi dimenticati, colleghi ed ex colleghi e semplici conoscenti con altrettanto tempo libero e organizzarsi. Per non parlare dei concerti: acquistare i biglietti, pianificare la trasferta e organizzarsi.

Ecco. Solo una efficace organizzazione del proprio tempo ci tiene alla larga da Internet, da cercare immagini di scavi archeologici con gli scheletri di gente morta secoli fa e da pensare che tra mille anni qualcuno troverà il mio di scheletro, intento a guardare foto di resti umani mentre gli altri insegnanti cucinano peperonate in roulotte parcheggiate dodici mesi l’anno in camping sul lago, o sonnecchiano sotto l’ombrellone di una spiaggia del sud, o ancora meglio visitano luoghi esotici o spingono carrelli tra i saldi del centro commerciale di Arese. Qualcuno, dicevo, troverà il mio, di scheletro, senza sapere che è il mio. Pazienza.

in balia della tv

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A così tanti anni di distanza nessuno ricorda più i dettagli sul primo e unico sorteggio in cui ha avuto luogo l’abbinamento tra le numerose comunità di fedeli del territorio al relativo santo patrono. Chi sia stato l’ente organizzatore dell’evento, chi fosse la madrina e come fosse vestita, quale emittente televisiva abbia curato in esclusiva la diretta, se c’era Cristiano Malgioglio tra gli ospiti, per non parlare dei particolari più chiacchierati come eventuali sospetti brogli nella procedura, ormai all’ordine del giorno. Per questo fa bene chi propone che, come qualunque cosa ricorrente che si rispetti, l’estrazione debba ripetersi ogni anno in modo che nessuna di queste concessioni secolari possa dare adito a conflitti di interessi o comunque per evitare di istituzionalizzare consuetudini poco trasparenti.

Per esempio ci sono paesi che festeggiano il loro intercessore con il divino in estate e a cui, a differenza di chi lo celebra in inverno, viene negato un diritto e si ritrovano una festività in meno nel calendario scolastico. Ma ci sono altri fenomeni ampiamente discutibili e che rendono urgente provvedimenti come quello, per esempio, di scegliere un giorno dell’anno, lo stesso per tutti i santi come festa nazionale, e morta lì. Non credo che nessuno di questa sorta di demiurghi mentori si offenda e, a onor del vero, il giorno in cui si celebrano tutti i santi c’è già da un pezzo ma ha perso il suo fascino da quando è stato messo in secondo piano dal più accattivante Halloween.

Il fatto è che quella della festa del santo patrono è una convenzione che fa acqua da tutte le parti. Sant’Ambrogio, che come Beppe Sala è una specie di super amministratore nazionale nel suo campo, ha un potere tale da fermare ogni attività non solo nel comune di sua pertinenza ma anche in quelli dell’hinterland, con il risultato che qui dove vivo io ci sono due santi patroni che si contendono le 25mila anime, mie concittadine. Anzi, la zona se l’erano già spartita in due fratelli, Gervasio e Protasio, e per questo possiamo vantare un vero e proprio triumvirato e forse va ricondotta a tale polverizzazione del potere temporale la scarsa cura con cui, qui, sono gestiti il territorio e la cosa pubblica in generale.

Ma basta spostarsi nel rhodense e oltre che l’influsso del vescovo teologo non si percepisce più. Il comune in cui si trova la scuola dove insegno – sarà anche per l’elevata percentuale di nuclei famigliari trapiantati dal sud per provvedimenti di confino – non riconosce alcuna autorità al patrono di Milano. C’è un santo, anzi anche lì una coppia di martiri che si dovrebbero celebrare durante l’estate così, per non scontentare i fedeli, il primo lunedì di ottobre – qualunque esso sia, un po’ come succede per la pasqua che si designa a tavolino – scuole e negozi osservano un giorno meritato di chiusura. Il fatto che molti dei genitori lavorino invece in area ambrosiana guasta la festa perché poi madri e padri che non hanno nonni a supporto non sanno dove mollare i mocciosi mentre sono in ufficio.

Senza contare che la cosa scontenta anche me. Mia moglie avrà un bel ponte da mercoledì 7 a domenica 11 dicembre, mentre io giovedì 8 sarò in classe a fare lezione, e lo scorso lunedì 3 ottobre – il giorno di finta festa patronale – sono rimasto inutilmente a casa da solo, che poi è finita che ho lavorato tutto il giorno, la scuola per gli insegnanti non si esaurisce al suono della campanella ma questo è un altro discorso.

Qualche genitore però si è lamentato del fatto che io non abbia dato compiti di matematica. Il punto è che i compiti alla primaria sono inutili, li eseguono genitori e sorelle e fratelli maggiori mentre i bambini si sparano su Fortnite o giocano alla ps. L’abilità sta nell’assegnare attività da sbrigare a casa pensate in un modo che ogni supporto altrui sia inutile o, almeno, riconoscibile dall’insegnante in fase di check. Io cerco di strutturarli così durante l’anno, ma in queste prime settimane di scuola – chi si occupa anche della parte organizzativa del proprio istituto sa bene cosa succede a settembre e ottobre – mi è stato impossibile. E piuttosto che caricare i miei alunni di paginate di operazioni o problemi a cazzo (i libri di testo sono arrivati solo ieri) ho preferito lasciarli liberi.

E durante il weekend finto-patronale la rappresentante dei genitori ha pensato di inoltrarmi un messaggio di una mamma, che più o meno, anzi, copio e incollo da whatsapp, diceva

«Buongiorno a tutti. Scusate, ma di matematica non ci sono compiti da fare?? Mi chiedo come mai visto che hanno anche un giorno in più a casa. Scusate se chiedo, ma sinceramente qualche esercizio di matematica alla mia non gli farebbe male, piuttosto che lasciarla in balia della tv mentre sono al lavoro😅 »

Ho replicato alla mia rappresentante chiedendo di rispondere che – una verità parziale – abbiamo lavorato sodo in classe ripassando, per iniziare, alcuni argomenti dello scorso anno in attesa dei testi. Ho consigliato però di far leggere ai bambini un buon libro. Non rientra nell’ambito delle STEAM – l’isteria collettiva per le discipline scientifiche sta oltrepassando ogni limite – ma comunque costituisce un efficace diversivo alla tele.

Una risposta che, se me la sentite dare a voce, risulta un pacato e saggio suggerimento ma che, con il potere distorto dell’asetticità della parola scritta, trasmette tutto il disprezzo nei confronti di una mentalità all’opposto della mia. Ho comunque verificato con la rappresentante che non ci fossero stati fraintendimenti, e la cosa è finita lì.

Ho dovuto però faticare a trattenermi dal caricare la classe, in questo primo fine settimana successivo al santo patrono, assegnando una caterva di esercizi tratti dai libri appena ritirati. Ho deciso di non farlo perché adoro i miei bambini e spero che trascorrano questo soleggiato weekend autunnale a bearsi del foliage nei parchi e della raccolta delle castagne piuttosto che a fare matematica, sempre che i genitori abbiano intenzione di organizzare qualcosa di bello per loro.

Ma se pensate che abbia sposato la vision di quel collega divenuto celebre per aver divulgato la sua lista di compiti delle vacanze new age, sbagliate di grosso. Ho voluto mandare un messaggio di buon senso a me stesso, prima che alle famiglie dei miei alunni.

Poi è successo che mi ha scritto la mia collega che ha un figlio DSA alle medie, un ragazzone che passa ogni santo giorno a fare in modo che la sua autostima non si esaurisca del tutto dietro a decine di verbi da coniugare, fogli A4 da squadrare e espressioni da risolvere. Mi ha mandato le foto delle svariate pagine di grammatica che gli hanno assegnato per lunedì, in aggiunta a tutto il resto delle materie. Le ho risposto che non riconosce la fortuna che ha avuto: almeno suo figlio non passerà il tempo davanti alla tv.

papillon

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Da bambini guardavamo la pubblicità perché c’era Carosello e gli spot erano scenette con attori di un certo calibro. Poi hanno inventato le tv commerciali, le reclame sono diventate noiose e piene di stereotipi ma l’introduzione del telecomando ci ha regalato il potere di cambiare canale durante i consigli per gli acquisti. Quindi siamo diventati studiosi di pubblicità all’università, questo ci ha imposto di fermarci a seguirle per trovare ispirazioni dalle migliori e capire gli errori di quelle sbagliate. Dopo abbiamo trovato lavoro in quel campo lì e l’obiettivo dello studio degli spot degli altri si è invertito: era obbligatorio pensare a qualcosa di diverso.

Infine ci siamo rotti e abbiamo cambiato lavoro, vincendo concorsi nella scuola e prediligendo l’impiego pubblico visti i tempi. Nel frattempo siamo diventati anziani e abbiamo perso interesse per gli spot. Ci sono quelli belli e quelli brutti, quelli delle auto e delle medicine e dei reggiseni e del cibo e poco più perché gli altri settori non hanno soldi da buttare via. Abbiamo introdotto routine nella nostra vita, sicuramente più sedentaria. Ed è per questo che chi gestisce il sistema pubblicitario dovrebbe capire che passare quattro o cinque volte la stessa pubblicità nel giro di sessanta minuti, gli stessi ogni sera, è controproducente e induce all’odio per il brand presentato.

Per questioni di orari e impegni famigliari a casa mia teniamo la tv accesa su La7 dalle otto meno dieci fino alle nove circa ogni sera per seguire il tg – malgrado Mentana – e gli approfondimenti del programma successivo – malgrado Scanzi e Travaglio. Poco più di un’ora con un’infinità di interruzioni pubblicitarie che ci mancherebbe, è chiaro che permettono di tirare avanti la baracca.

Il punto è che gli spot che passano sono sempre gli stessi, ripetuti più volte. Non sono solo io a dire che la sovraesposizione rompe i maroni, e secondo me la gente ne ha le scatole piene. In questi giorni il massimo del fastidio me lo dà la pubblicità della pasta De Cecco con quella trovata – del tutto immotivata – della parodia di “Vecchio frac”. Non si capisce cosa c’entri la canzone e poi gli amici a casa Gerini fanno gli spaghetti quando, invece, avrebbero potuto cucinare delle farfalle visto che il bellone palestrato cita la canzone (almeno credo) indossando appunto il papillon, anche se non ho fatto caso se sia di seta blu. A onor del vero non ho contato quante volte passa ogni sera, ma sicuramente sono troppe e sufficienti a farmi evitare la pasta De Cecco come la peste.

maltempo

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Io sono fatto così. Appena sveglio clicco sulla lente di ingrandimento e, alla voce documenti, avvio la ricerca di una preoccupazione che mi sovrasti. La trovo e, come si fa con i croissant surgelati nel microonde, la tengo al caldo durante le operazioni di routine – la doccia, la barba, la colazione – in modo da assaporarne la fragranza quando salgo in macchina per andare al lavoro. Per fortuna si tratta di piccole cose. Devo chiamare Tizio, devo rispondere alla mail di Caio, mi tocca sollecitare Sempronio e via così. E quando non individuo nulla o la preoccupazione, nella sua fase di scongelamento, si è sgonfiata rivelando la sua inconsistenza – diamine, ero sicuro di averle prese ripiene al cioccolato – seguo le ramificazioni di qualche nota che mi sono appuntato per le giornate in cui il palinsesto di ansie è vuoto. Martedì scorso però qualcosa è cambiato e i più superstiziosi di voi penseranno che me la sono tirata o che c’entra qualcosa o il karma perché, al risveglio, ho trovato un bel po’ d’acqua sul pavimento del salotto. Durante la notte c’era stato un discreto temporale con piogge torrenziali. In più, il mio condominio è nel pieno dei lavori di ristrutturazione – il famoso 110% – e con un tempismo perfetto si trova al massimo della vulnerabilità per alcuni interventi strutturali. Al quarto piano ci sono state vistose infiltrazioni, e così, una volta accertato che per fortuna non avevo subito danni agli arredi, mi sono guardato un po’ in giro per rintracciare sui muri l’origine della perdita senza trovare alcunché. Ho pensato immediatamente alle immagini delle vittime delle alluvioni che passano al TG ogni autunno da quando il clima, in Italia, è radicalmente cambiato mostrando l’inadeguatezza del nostro territorio alle conseguenze del surriscaldamento del pianeta. Gente che, munita di secchi, stracci e badili, svuota i propri ambienti sommersi dai fiumi esondati. Il mio umore, in verità, non è più lo stesso da quando il palazzo in cui si trova il mio appartamento è oggetto dei lavori di riqualificazione energetica. Quando mi appresto a rientrare lo vedo sventrato, infermo, quasi privato della sua anima, e credo che qualunque specie animale provi lo stesso sgomento osservando la propria tana violata. Sono molto affezionato alla casa che ho acquistato insieme a mia moglie perché da vent’anni mi offre riparo. Non credo che me ne andrò mai, che mi sposterò in centro come piacerebbe a mia figlia per poter vivere più in prossimità dei suoi amici, che un giorno cercherò qualcosa di più piccolo o di più grande. Dopo aver asciugato la pozza che si era inspiegabilmente formata tra divano e libreria senza però bagnare nulla – forse nella notte si è allagato il balcone ed è entrata dell’acqua dalla porta finestra, non saprei dare altre spiegazioni – mi sono recato come sempre al lavoro, consapevole di ciò su cui avrei riflettuto ascoltando la radio, lungo il tragitto. È stato sufficiente adocchiare i manifesti elettorali al primo semaforo, lungo il percorso, per ottenere una rielaborazione della scala delle priorità. È subentrata, infatti, una preoccupazione ancora più grande della casa in cui vivo, esposta a rischio allagamento. Quella di appartenere a uno stato e a un tempo guidato da una premier e da una maggioranza post fascisti. Il mio pensiero è andato immediatamente al regime, alla guerra, agli appartamenti delle persone come me bombardati e alle peggiori condizioni di vita che mai avrei pensato si potessero verificare.

outing

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Sono in grado di ammettere senza vergogna di non saper leggere l’asticella dell’olio.

grazie

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Ci sono mestieri in cui una delle prime cose che t’insegnano è che non devi dire grazie ogni volta che qualcuno ti passa un martello, ti tiene ferma una trave mentre la inchiodi o ti raccoglie un bullone che è volato giù mentre sei in cima a una scala. Sono gesti che fanno parte del lavoro quotidiano, componenti ordinari che, rimarcati, rischiano di svilire un feedback che fuori dal contesto professionale incarna il riconoscimento della gentilezza con adeguate buone maniere. Non credo c’entri il fattore linguistico. I ponteggi intorno al mio palazzo sono una babele di carpentieri in cui si opera per mettere a punto la riclassificazione energetica dell’edificio, gente proveniente da diverse parti del mondo ma che, abitando in Italia, si esprime con la lingua del lavoro che fanno nel posto in cui lo esercitano, per cui c’è un solo grazie ed è in italiano ma glielo senti proferire solo quando gli offri un caffè mentre stanno montando pannelli al tuo piano o, come successo lungo quest’estate torrida finalmente agli sgoccioli, in risposta quando ti chiedono dell’acqua. Il problema è che, a meno che tu non sia una bestia, ai più viene naturale. Quando qualcuno invia comunicazioni alla mailing list dei colleghi – in tutto siamo quasi duecento insegnanti – passa una manciata di minuti ed è tutto un rimbalzare di email di ringraziamento inviate non al mittente ma al gruppo stesso. Anche su cose di poco conto l’usanza è sempre la stessa. Non è la fine del mondo, sia chiaro. Basta cancellarle una ad una man mano che si ricevono, oppure organizzare GMail in modo che annidi tutte le conversazioni dello stesso soggetto e lasciare che quel sottoinsieme si gonfi di mail di ringraziamento e eliminarlo una volta per tutte alla fine, e il fastidio è ridotto al minimo. Qualche volta mi vien voglia di intervenire e di mandare una mail a tutti chiedendo di non ringraziare in massa per ogni cosa inviata, oppure scrivendo che diamo per scontato che il primo che risponde con un grazie vale per tutti gli altri. Ma mi sembra un gesto poco corretto, quello di limitare la gentilezza spontanea dei miei colleghi e le loro buone maniere. E poi sono certo che, in risposta, mi ringrazierebbero tutti per l’idea, e così saremmo daccapo.

certificato di proprietà

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Secondo la signora Cinzia i tavolini all’aperto del Bar del Dom sono il più bell’angolo del paese e quando lo dice alla sua amica che fa la cameriera lì sfonda porte aperte. Certo, in giro non c’è granché e quindi ci vuole poco a proclamare leader dal punto di vista paesaggistico il locale in cui sto trascorrendo la pausa pranzo in attesa del tecnico che venga a spostare un access point dal secondo piano della scuola alla palestra. In quei pochi metri quadri di dehors a ridosso dell’ingresso è riconosciuta, a detta degli unici avventori oltre a me, in prima istanza la posizione sulla direttrice di un corridoio ventilato che proviene dalla campagna circostante e che ha reso gradevole i pasti lì anche durante il caldo porco delle scorse settimane. In più, l’anomalo angolo che il marciapiede forma consente una privacy senza confronti rispetto alla piazza che è poi il centro del paese.

La signora Cinzia si accompagna con due giovani adulti dalla parlata dell’est Europa. Sono troppo dimessi per essere albanesi ma non per questo mi ricordano l’idraulico a cui avevo venduto la Ford Escort SW quasi vent’anni fa. Erano bastate un paio di telefonate pochi minuti dopo l’annuncio che avevo pubblicato su un sito di compravendita di seconda mano e, il giorno dopo, il mio acquirente si era presentato con una mazzetta di contanti – evidente frutto del suo operare in nero – che così spessa non l’avevo mai vista. Anzi no. Avevo dismesso un appartamento in affitto in cui vivevo da solo, poco prima di sposarmi. Non c’ero mai e gli addetti alla lettura del gas – mica esistevano ancora i contatori smart e tutte quelle diavolerie lì, almeno nel terzo mondo in cui avevo la residenza – non riuscendo a trovarmi in casa non potevano far altro che registrare letture approssimate agli standard di utilizzo che avevo segnalato alla firma del contratto. Solo che, di gas, ne consumavo molto di meno. Chiusa l’utenza, l’impiegato allo sportello della municipalizzata mi aveva rimborsato l’intera cifra di quanto avevo versato in più rispetto ai consumi. Mi ero trovato così tra le mani una busta piena di banconote – non ricordo quanto ma erano più di un milione di lire – ed è da allora che nutro una forte repulsione per il cash che mi fa pagare con le carte di debito o di credito anche le cose che costano meno di 50 centesimi.

Comunque l’affare della Ford Escort si era concluso nel migliore dei modi. C’eravamo rivolti a un’agenzia a poche centinaia di metri da casa mia, quattro firme, una stretta di mano e chi si è visto si è visto. Alla signora Cinzia non è filata così liscia. Le circostanze del convivio che si sta consumando a pochi metri dalle mie trofie con zucchine e speck sono identiche alla storia che vi ho appena raccontato. Da quello che percepisco è l’italiana a vendere e i muratori dell’est a comprare. Basta guardare oltre la siepe del dehors e si vede il centro automobilistico da cui si stanno servendo.

L’intoppo è comune a tutti quelli che improvvisano questo genere di transazioni. Il certificato di proprietà, che fino a poco tempo fa era su un documento separato rispetto al libretto, non si trova più e quindi i tre, per chiudere l’affare, sono costretti a rivolgersi ai Carabinieri, fare la denuncia, tornare all’agenzia – che alle 13 ha chiuso, giustamente – quindi finalmente a ufficializzare il passaggio del bene.

Dalla conversazione che sento risulta che il più giovane dei due uomini ha lasciato che l’altro sposasse sua sorella, una concessione che in certe culture bisogna andarci con i piedi di piombo. Quello che è quindi suo cognato a tutti gli effetti ha preso una birra media e tanto, da quel che sembra, non pagheranno loro. La signora Cinzia intanto si informa sui postumi dell’operazione a cui si è sottoposta la sua amica cameriera, uno di quegli interventi in cui ti asportano un pezzo di qualcosa che ti permette di dimagrire all’istante. Io non voglio sentire i dettagli così mi adopero per finire la seconda bottiglia da mezzo litro di acqua gassata, fa caldo e il non aver bevuto nulla in mattinata – per giunta dopo la corsetta all’alba – mi ha provocato una sete epica. Come se non bastasse, la cameriera indossa una specie di sottoveste ma forse sono io che non sono al passo con i tempi in fatto di moda.

La signora Cinzia non è giovanissima ed è visibilmente sovrappeso, per questo non ritengo corretto che la cameriera insista a convincerla a imitare la sua scelta. Secondo lei basta sottoporsi per un mese a una dieta radicale – parla di petto di pollo alla piastra e verdure grigliate ad libitum – per essere pronti a entrare in sala operatoria. Anche i due muratori intervengono. Il più giovane se la cava bene con l’italiano, la discussione comporta la conoscenza di una terminologia di un certo livello e noto una certa disinvoltura. L’altro fuma, beve la sua birra, spippola con lo smartphone e costruisce qualche frase stentata ma di sicuro effetto.

Mi sembra evidente che i tre si sono trovati a pranzo per ingannare l’attesa della riapertura dell’agenzia automobilistica. La signora Cinzia si rammarica una seconda volta di aver smarrito il certificato di proprietà fino a quando, da uno di quei raccoglitori in plastica che conserviamo nel cruscotto insieme al manuale del veicolo e che non si capisce come ma, nel corso della vita della nostra auto, ci finiscono interi decenni di tagliandi di assicurazioni, bolli auto e dichiarazioni di constatazioni amichevoli, il certificato di proprietà miracolosamente salta fuori. Quel pranzo obbligato avrebbe potuto non svolgersi mai. Anche se alla signora Cinzia piace chiacchierare i compagni di tavolo probabilmente ne avrebbero fatto a meno. Quando mi alzo per pagare, loro che erano già lì quando sono arrivato stanno ancora aspettando l’amaro. A mangiare da soli nei locali pubblici siamo sempre troppo veloci, e a nessuno è ben chiaro il perché.